Claudio Bottan, il detenuto giustiziere

Cinque anni di carcere, 6 diversi istituti penitenziari del nord Italia. Da due mesi in affidamento, lavora come caporedattore di Voce Libera, il giornale nato da un’idea di Fabrizio Corona e diretto dal fratello Federico. 

A breve, uscirà il suo libro-diario “Pane e malavita”: racconti di vita da dentro e fuori il carcere, il cui ricavato sarà devoluto in beneficenza. È Claudio Bottan, 57 anni e tanta voglia di cibarsi di vita e conoscenza. Lo trovate, ogni giorno, nella redazione presente all’interno dell’Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni di Busto Arsizio (VA).

“Sono in affidamento in prova sul territorio – spiega – Ancora un anno, poi ho finito. Ho il limite territoriale della Lombardia e l’orario: esco di casa non prima delle sei di mattina e rientro non dopo le 23. Però, se ho esigenze particolari per lavoro, studio o affetti e ho bisogno di andar fuori, basta che avviso. Sono rimasto 5 anni e mezzo in carcere. Ho fatto il giro di 6 istituti: prima a Busto Arsizio, poi a Vicenza, poi di nuovo a Busto, poi Verbania, poi Alessandria e poi Busto ancora. Dal 2011 fino ad ora. La ragione di tutti questi giri è che ero un rompiballe e l’unico modo che hanno per spegnerti, è quello di trasferirti. All’inizio non accettavo il carcere: ero stato arrestato per un presunto contrabbando di tabacchi, dal quale poi sono stato assolto dopo 4 anni. Nel frattempo, mentre ero in carcere, sono fallite delle aziende sulle quali operavo. Quindi mi sono arrivate le condanne per il fallimento”.

In che ambito lavoravi?
“Ho fatto sempre l’imprenditore in settori vari. Soprattutto nella pubblicità: gestivo la merce che le aziende davano in cambio di campagne pubblicitarie. Sono stato l’editore di una importante rivista di economia e finanza. Ho lavorato molto all’estero, in Spagna, Lussemburgo e Germania, sempre nel settore del marketing e comunicazione.
Questa battaglia che ho fatto all’inizio, di penna, di scrivere, l’ho pagata carissima. Tutti questi spostamenti mi hanno scombussolato la vita fino a quando ho assimilato e accettato la condizione nella quale mi trovavo, quindi sono finalmente riuscito a farmi rimandare a Busto Arsizio dove sono rimasto per gli ultimi due anni e mezzo.

Qui ho avuto la fortuna di finire in redazione. La stessa dove era già transitato Fabrizio Corona che, durante il mese di permanenza a Busto Arsizio, prima di essere trasferito ad Opera, aveva dato il via all’iniziativa di VoceLibera. Inizialmente era solo una pagina Facebook. Nel corso dei mesi, con Federico Corona che mi è sempre stato vicino, invece, lo abbiamo fatto diventare dapprima un blog e poi, in controtendenza rispetto al settore dell’editoria, un mensile cartaceo. Una sfida, un progetto che piano piano è cresciuto e ho fatto il responsabile sia all’interno che dopo, quando dallo scorso marzo ho ottenuto l’Articolo 21, per cui uscivo alla mattina, andavo in redazione esterna e rientravo alla sera. Pertanto posso dire che il giornale è stato il veicolo che mi ha permesso di uscire. Questo è il mio carcere”.

E ora, essere caporedattore di Voce Libera, è il tuo attuale lavoro?
“Questo è il mio lavoro, ma è soprattutto una passione. Vorrei che diventasse il progetto di vita, non solo il lavoro che mi permette di completare la messa alla prova, l’affidamento. Grazie a Federico Corona ho iniziato a collaborare anche con il settimanale “Di Tutto”, tengo la rubrica sul sociale, mentre come Vocelibera abbiamo una pagina che ogni settimana parla di carcere, i “pensieri reclusi”. Nel frattempo mi hanno contattato alcuni imprenditori proponendomi di occuparmi dell’ufficio stampa per le loro aziende, quindi gestisco un po’ di comunicazione per loro. E seguo molto le tematiche che riguardano carcere, giustizia ed esecuzione della pena. Sto diventando quasi il Wikipedia del carcere perché mi chiamano giornalisti e università. Stiamo programmando alcune uscite per andare a raccontare agli studenti l’esperienza di VoceLibera: siamo già stati a Bergamo, alla facoltà di Scienze dell’Educazione. A breve andremo in altre università, c’è un progetto molto ampio e stimolante”.

Chi è Claudio Bottan?
“Bella domanda. Ti posso dire chi era; ormai riesco ad essere molto cinico ed obiettivo anche su ciò che sono stato: un imprenditore che a un certo punto si è fatto prendere dal delirio di onnipotenza, quando potevo avere tutto e di più. C’è stato un momento in cui avevo più di mille dipendenti. Il problema che mi ha sempre accompagnato è che mi stancavo subito di quello che costruivo. Continuavo a crescere, per poi vendere o mollare le situazioni create. Quando le avevo portate al massimo di quello che potevano dare, non mi divertivano più, era finita la sfida. Chiaro che, con questo, ho commesso un sacco di errori che poi mi hanno portato in carcere. Ho penalizzato gli affetti perché ero legato solo ed esclusivamente alla sete di potere, di controllo delle situazioni. Poi un accentratore: puoi immaginare, con tutte queste attività senza delegare niente a nessuno proprio per un egoismo fuori misura.

Il carcere mi ha insegnato a fare i conti con me stesso, con le mie debolezze, a scoprirle e a fare i conti con le mie paure, che ho capito essere tante. E ha fatto vacillare tutte le certezze e sicurezze che pensavo di avere.
Se devo dire chi sono oggi, di certo c’è che non mi interessa assolutamente nulla delle cose materiali. Mi interessano le relazioni umane, la qualità dei rapporti. Ho sempre avuto in garage almeno 4 macchine per poter scegliere alla mattina con quale uscire. Oggi, la mia felicità è una vecchia bicicletta. Voglio la qualità della vita, la gestione del mio tempo che oggi è il mio patrimonio più importante per ricostruire relazioni, rapporti e rimediare agli errori fatti nel passato.

Se devo dire una roba forte, per la quale non mi vergogno, posso dire ‘per fortuna è arrivato il carcere’. Altrimenti non so cosa di peggio poteva capitarmi rispetto al carcere. È un’esperienza sicuramente dolorosa, forte, che però per fortuna è arrivata, mi è servita, e mi permette di guardare avanti con uno sguardo diverso”.

Ti ha cambiato così tanto la dolorosità del carcere o ti sono servite le attività educative proposte?
“Il Busto Arsizio dell’ultimo anno e mezzo, sicuramente è cambiato rispetto a quello che era nel 2011 quando in Italia si era raggiunto il top del sovraffollamento e della confusione totale: chiusi 22 ore al giorno e zero attività. Oggi fa concorrenza a Bollate, per certi aspetti anche egregiamente.

Onestamente, no. Se non ci sono volontà e motivazione individuale, non ci sono progetti che tengano. Non ci sono programmi specifici o una linea tracciata in base alla personalità dell’individuo, rimane solo teoria. In redazione ci sono finito per caso: volevo andarci a tutti i costi, però poteva capitare a chiunque altro e magari non ci sarebbe stato più posto per me. Arrivarci è stata una casualità, non c’è stata una selezione vera e propria. La selezione, nel mio caso, è avvenuta sul campo – o meglio – sul pezzo. Rimanerci, invece, è stata una conquista, perché mi sono aggrappato all’opportunità che ho avuto.

Il problema della carcerazione è di riempire di contenuti il tempo della pena. Molti rischiano di riempirlo di camminate all’aria o di giocate a carte. La scuola qui funziona molto bene, ho frequentato l’ITC. Rispetto ad altri istituti, qui sono stato sempre impegnato, ma perché ho voluto crearmi molti impegni per riempire la giornata. Però no, non me la sentirei di dire che l’istituzione carcere mi ha rieducato, ho voluto rieducarmi ed ho trovato le persone giuste al momento giusto, che mi hanno dato ascolto. Altrimenti, puoi fingere: ti metti una maschera e ne esci comunque come prima. Prendi per il culo tutti, racconti che hai fatto una revisione critica… è il cinema che si fa dalla mattina alla sera, non è questa la rieducazione.

Se dovessi raccontare la pena che immagino, punterei sulle misure alternative. Sulle pene fuori, a stretto contatto con la collettività, per incentivare il reinserimento. Chi fa carcere dal primo all’ultimo giorno è destinato a tornarci in galera. Non c’è niente fuori dal carcere. Un passaggio graduale, come l’ho fatto io, mi ha consentito di individuare e percepire la rete che ti sostiene fuori. Non solo rete pratica od economica ma anche – per esempio – l’amica giornalista che ti chiama due volte al giorno per sentire come stai: è un’iniezione di fiducia. Ho avuto la fortuna di conoscere un commercialista di Milano, Mario Caizzone, che è passato per l’esperienza della malagiustizia e si è rialzato dopo essere stato assolto. Ha dato vita all’associazione francescana AIVM, che attraverso la rete di volontari segue gratuitamente persone che provengono dal disagio sociale, in particolare dovuto al malfunzionamento della giustizia. Per me è diventato un punto di riferimento: mi chiama alla mattina e alla sera, anche solamente per sapere come va. Poi c’è sempre per un consiglio, una chiacchierata, uno sfogo… Mi sento protetto, considerato e, soprattutto, persona.
Mi stupisco per il fatto che le persone mi cerchino per parlarmi, senza secondi fini, e mi accade quotidianamente: i volontari del carcere, Don Silvano, la Suora, Carmen, Barbara e tanti altri. Mi rendo conto che non succede a tutti quelli che vivono la mia esperienza, per cui continuo a sentirmi una persona fortunata, a prescindere.

Dal lato mio, devo dire che non ho trovato pregiudizio da nessuna parte. A iniziare da questo posto, dove all’inizio c’era molta curiosità. Gli studenti entravano per vedere com’è fatto un detenuto. A un certo punto – contrariamente a quello pensavo, ovvero di uscire e dover camminare a testa bassa, rasente i muri – ho iniziato a cavalcare la questione, anticipando le domande: ti racconto subito io chi sono così ti tolgo dall’imbarazzo. Questo è apprezzato e sgombro il campo dall’impaccio. La tipica domanda è ‘perché sei andato in carcere’. Quindi io te le dico subito io. Con tutti quelli con i quali ho avuto rapporti, non ho mai sentito diffidenza o un problema dato dal carcere. Non voglio illudermi che sia sempre così, però oggi assaporo questo tipo di clima”.

Da quanti giorni sei uscito dal carcere?
“63. Perché continua il diario…”.
Raccontaci del tuo diario giornaliero che porti avanti sulla pagina Facebook Pane e Malavita…
“Ho scritto sempre molto. Molti si aggrappavano alla ginnastica, all’attività fisica, altri alle carte, altri alla cucina, altri maniaci di pulizie e igiene. Io ho riversato praticamente tutto sullo scrivere. Quintali di blocchi di fogli. Alla fine avevo cominciato a rimetterli in ordine e ho accantonato tutto. Quando è partito il diario, un giorno l’ho saltato e mi arrivavano messaggi di richiesta. Così ho ripreso e ora il progetto è che diventi un libro: sono in fase di taglio perché c’è troppo materiale. Uscirà entro la fine di ottobre e il ricavato, al netto dei costi, viene destinato a una iniziativa solidale che non ha nulla a che fare con il carcere, proprio come segnale di giustizia ripartiva, come messaggio. Vorrei che passasse che non ho altro modo per risarcire la collettività se non quello di dare quello che so fare. Non so spaccare le pietre, non so pitturare le scuole ma riesco a scrivere quindi metto a disposizione quello che so fare”.

Claudio Bottan Voce Libera

Come riassumeresti questi due mesi di ritorno alla vita fuori dal carcere?
“È stato un impatto inebriante. Già il fatto di prendere in mano una posata normale o toccare un bicchiere di vetro: diventano oggetti sconosciuti, che fanno paura perché non li toccavi più. Il piatto in porcellana anche. Poi gli odori, i profumi, i sapori che non sentivi più. Poi la paura di tutto: non riuscivo ad attraversare la strada e ancora oggi ho qualche difficoltà perché non riesci a valutare le distanze, la vista si è abituata al limite di una cella o al massimo dei 10 metri del cortile di aria. Non riesci più ad abituarti alle distanze lunghe, quindi attacchi di panico. Poi un casino con gli oggetti: voi liberi avete le chiavi, il telefono, tremila cose… io uscivo alla mattina senza soldi, arrivavo al bar e ormai la Manu sapeva che era così e sa che pago il giorno dopo.

La cosa che mi ha spaventato di più è stato che, per settimane, tendevo a stare rintanato in spazi piccoli. Per esempio stavo qui e non uscivo, è l’abitudine a stare chiuso. In casa non andavo in giro ma restavo in un angolo, come ero abituato. Sono gli effetti collaterali che bisogna imparare a gestire e lo stesso vale con i rapporti umani, con gli affetti. Perché stare via 5 anni vuol dire, rispetto a famigliari, la compagna o i figli, fare un pezzo di vita su binari separati. Poi ci vuole tempo a riabituarsi alla presenza reciproca: in certi momenti sei uno sconosciuto totale da riscoprire, riconquistare, da guardare con occhi diversi. Purtroppo il carcere è anche questo, è una cesoia che recide gli affetti e poi, quando vieni fuori, devi rifare tutto da capo e spesso è tutto molto collegato”.

Hai perso delle persone che erano legate a te prima di entrare in carcere?
“A livello di amicizie, sì. È stata una strage, una selezione. All’inizio, avevo venti lettere al giorno. Poi la gente comincia a pensare che, se sei dentro, qualcosa hai fatto. Entra nel meccanismo che, in fin dei conti, te la sei cercata, quindi si allontanano. C’è una selezione naturale: quelli che rimangono sono quelli che val la pena di coltivare e mantenere. Rispetto agli amici, la selezione mi è andata anche bene. L’ho accettata come fatto positivo, non negativo.
Le persone che mi sono state vicine, ci sono state dall’inizio alla fine, ci sono ancora e sono persone sulle quali posso contare sempre”.

La più brutta e la più bella situazione vissuta in carcere?
“La più brutta, è il suicidio di un detenuto. Si è tagliato la gola e mi sono sentito il sangue colare addosso. Quello penso che non potrò mai dimenticarlo”.

Era in cella con te, sul letto sopra il tuo?
“Sì. In una sezione di transito. Poi anche un altro che ho visto morire perché non curato. E quelle sono cose che hanno aumentato la mia rabbia verso le istituzioni. Ho organizzato scioperi della fame, ho fatto disastri nelle carceri in giro ma sempre motivati. Sono situazioni che sono state accertate, ci sono state interpellanze parlamentari mai buttate lì a caso.

Il bello? È difficile dirlo. Non mi porto niente di bello dal carcere se non poche amicizie vere di persone con le quali abbiamo condiviso i momenti difficili e rimane un’amicizia vera anche fuori. Di bello da ricordare proprio niente. Dovrei inventarmelo, ma non so fingere.

Quando dicevi che sei stato ‘rompiballe’, allora, intendevi queste proteste di denuncia per le ingiustizie viste in carcere?
“Sì. Ho fatto sempre lo scribacchino, azzeccagarbugli per gli altri. Soprattutto gli stranieri ma anche molti italiani non riuscivano a scrivere. Quindi avevo la coda dalla mattina alla sera di gente che veniva a cercarmi in cella per scrivere. Erano anche lavori che non facevano gli avvocati: ho visto gente che poteva esser fuori da mesi, qualcuno da anni e, per negligenza degli avvocati che magari avevano anche pagato cari, erano lì a vegetare.

In particolare, a Vicenza, ho organizzato scioperi della fame perché non bastava il cibo, non c’era il riscaldamento, eravamo messi come animali uno sopra l’altro. Il trattamento era disumano. Ho fatto le segnalazioni che andavano fatte, è arrivata una delegazione di parlamentari e ha raccolto anche le testimonianze di altri detenuti. È venuto fuori anche che le guardie menavano.
Se tornassi indietro, lo rifarei. Non ti puoi girare dall’altra parte quando vedi un detenuto massacrato di botte o vedere che, quando passa il carrello del cibo, non ce n’è per tutti e qualcuno deve sempre saltare il pasto. Le ragioni per le quali non bastava il cibo, si intuivano. Per cui, mi sono fatto carico di battaglie che poi ho pagato care: ho perso la liberazione anticipata per due anni e ho preso delle denunce. Però, se avessi girato la testa dall’altra parte, oggi vivrei di rimorsi e starei peggio. Dall’altra parte, mi dico: ‘Se stavo buono, uscivo prima’. Quindi ho penalizzato me stesso e la mia famiglia per questioni di principio”.

Ma sai di aver fatto del bene ad altre persone…
“Quello sì. Credo, anche con il lavoro di istanze, ricorsi, impugnazioni, di aver fatto uscire almeno 100 persone e lo dico per difetto. Questo è appagante e mi fa stare bene perché so cosa significa la libertà e cosa significa essere abbandonati e dimenticati in carcere quando bastava il buon senso e un quarto d’ora di tempo per scrivere un documento”.

Cos’è per te la vita allora?
“Mentre prima la vita la vedevo come una sfida, oggi è un cammino, un percorso da gustare ogni secondo. Sono cambiati completamente i miei valori. Oggi penso che la vita sia dare, lasciare qualcosa di se stessi che non sia qualcosa di materiale. È il dare sentimento, attenzione, amore. Questa è la vita per me oggi”.

La tua più grande paura?
“Non essendo più un ragazzino, comincio ad avere paura del male fisico, della malattia. Non mi spaventa il futuro lavorativo, le incertezze: mi sento molto forte su questo. Ho paura solo della malattia, non tanto per me quanto per gli altri e basta, non ho grandi paure”.

Se volessi lasciare un messaggio alle persone che ora si ritrovano come te, 5 anni fa?
“Di dare un senso alla pena. Parto dalla convinzione che nulla accade per caso e ho cercato di gestire il mio tempo in carcere riflettendo sul perché mi è capitato questo e dove sarei stato se non fosse capitato e ho cercato di trasformare la mia pena in opportunità di cambiamento. Quindi, il messaggio è che il carcere si può subire oppure cavalcare e governare. Il percorso te lo scegli da solo, in base a quello che fai quotidianamente, a come ti rapporti con gli altri. Non solo con i detenuti ma con gli operatori, con gli insegnanti, con tutti quelli che arrivano. Riuscire a conquistare la fiducia non fa parte del regolamento ma delle capacità e delle risorse umane.

Il messaggio è di cavalcarlo il carcere e utilizzarlo al meglio, che non sia la specializzazione in altri settori criminali ma l’opportunità per capire come non tornarci. Perché è dura, molto dura. L’eventualità che diventi l’università del crimine si prospetta già dal secondo giorno. Il primo sei in confusione, il secondo inizi a chiacchierare con gli altri e ci si racconta reciprocamente i dettagli sui reati commessi. Se hai un minimo di quoziente intellettivo, riesci a capire gli errori che hanno fatto gli altri. Io sono entrato con reati finanziari, oggi potrei essere un narcotrafficante molto bravo o potrei organizzare per bene le rapine in banca, sapendo quali errori commettono li gli altri. Però non è la specializzazione che voglio…

Questo perché in cella si parla e ci si racconta…
“In cella parlare di reati e criminalità è il pane quotidiano. È il Pane e Malavita”.

La tua canzone preferita?
“In questo momento è My Way”.

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