Comunicazione e importanza delle parole, parla la sociologa: “Basta burocrazia linguistica”

Stefania Pieri, sociologa esperta di comunicazione e linguaggio, condivide con noi, in questa intervista, le sue riflessioni. Quando conta, in ambito sociale ed educativo, una corretta comunicazione? Quando influenzano, le singole parole, in un rapporto comunicativo?

stefania pieri sociologaUna riflessione sull’importanza delle parole…

“Sì, le parole sono importanti, addirittura potenti. Abitano e muovono il tempio del nostro immaginario. Da esse prendono forma le rappresentazioni di pensiero attraverso le quali creiamo il nostro mondo e sono lo strumento con il quale ci interfacciamo con l’alter.

La contemporaneità è caratterizzata da mutamenti. Mode e tendenze subiscono un logorio veloce. Anche il linguaggio si trasforma, si arricchisce di nuovi lemmi così come si impoverisce perdendone altri.

Siamo una società di consumatori consumati e a questa logica di comportamento non sfugge neanche il linguaggio”.

Facciamo un esempio di linguaggio utilizzato in ambito clinico, sociale, educativo?

“Molte delle definizioni del linguaggio utilizzato in questo ambito nascono in contesto legislativo o accademico e si applicano poi al linguaggio comune. 

Un tempo per definire soggetti disabili, si utilizzavano parole come: cieco, muto, sordo e queste etichette’ lessicali, prima di essere tacciate come offensive, fornivano un’informazione (non l’unica) sulla persona in oggetto.

Poi sono arrivati gli inglesismi e si è diffusa la parola ‘handicappato’ per indicare persone con differenti disabilità. È un termine generalizzante che conteneva al suo interno mondi diversi, soprattutto persone tra loro assai differenti per bisogni, difficoltà e potenzialità.

Ben presto, il lemma handicappato è stato sostituito da una definizione più lunga e, a mio parere, più rispettosa: ‘portatore di handicap’. Nel linguaggio dell’ippica l’handicap è il peso che deve portare, sotto la sella, il cavallo più veloce così da equiparare la sua performance con quella degli altri con-correnti.  Quindi nell’immaginario, almeno di chi conosce l’etimologia del temine, l’immagine del portatore di handicap era quella di una persona speciale.

È arrivato poi il momento del ‘non. Non vedente, non udente… Queste diadi lessicali hanno riportato la ‘classificazione’ di queste persone dal generale al particolare mettendo ancora più in evidenza il deficit rispetto alla cosiddetta norma”.

Quali, allora, le migliori definizioni?

Disabile e diversamente abile sono i termini più attuali sia nella normativa che nel linguaggio comune. Fanno riferimento ad una funzionalità del soggetto e non sono escludenti del potenziale che ogni persona, in quanto tale, ha e socialmente deve esserle riconosciuta.

Si diffonde sempre maggiormente, nel linguaggio contemporaneo, l’uso degli acronimi. Quale il suo parere a riguardo?

“Personalmente, non li amo molto. Li ritengo una forma subdola di comunicazione. Genera uno sbilanciamento di potere comunicativo tra chi conosce il significato dell’acronimo e chi lo ignora.

Ogni volta che si comunica in modo troppo tecnico e, nel caso degli acronimi anche criptico, si crea una disparità. Ritengo gli acronimi una forma di burocrazia linguistica. Son poco utili perché generano mentalmente nell’ascoltatore dei tempi di decodifica superiori a quelli che comporterebbe il normale ascolto dell’espressione estesa.

Oggi è consueto sentir parlare in contesto scolastico di BES (Bisogni Educativi Speciali), DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), PEI (Piano Educativo Individualizzato), solo per citarne alcuni. Immaginiamo una conversazione tra un docente che utilizza questi acronimi e un genitore. ‘Signora, suo figlio rientra nella categoria BES. Dai test abbiamo verificato cha ha dei DSA e che deve seguire un PEI’. Io, fossi al posto del genitore, mi preoccuperei.

Nella realtà, come nel linguaggio, tutto sarebbe molto più semplice ed efficace se si ricorresse all’uso di ciò che è condiviso, di ciò che accomuna e che necessariamente deve essere il punto di partenza per un accrescimento reciproco che si ottiene solo attraverso la circolarità e la condivisione di un linguaggio comune”.

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