Françoise, un uragano di innovazione, dal Camerun all’Italia

Dire che Françoise Kofache Aissatou in Camerun ci ha lasciato il cuore, non è retorica. Sì perché la 41enne di origini africane e in Italia dal 2015 con il marito Umberto e i suoi due figli, nella sua terra di origine ha portato davvero un cambiamento.

Grazie a lei, nel nord del Camerun, è nato un gruppo di microcredito per donne. Grazie a lei, queste donne hanno imparato a credere in loro stesse, a scoprire i loro diritti e le loro forze, oltre ai loro doveri. Più a sud, invece, ha dato il via a una scuola materna e un centro adozioni. Ora, nel Bel Paese, aiuta le immigrate africane a integrarsi nella nuova società nella quale sono approdate. 

“Sono la prima di 10 figli – racconta – Ho passato un’infanzia molto tranquilla e molto bella. I miei genitori ci amano tanto e ci vogliono molto bene. Ho fatto le elementari, le medie e le superiori. Ho lasciato gli studi un anno prima dell’università per partecipare a un concorso per il Ministero dell’agricoltura. Ho passato il concorso e ho iniziato il lavoro: facevo animazione ed educazione (seguivo le diverse varietà di grano, patate, pomodori etc).

Nel frattempo lavoravo con la diocesi di Maroua Mokolo: ero responsabile della commissione femminile della mia zona, nelle montagne a Kapsiki, all’estremo nord del Camerun. Facevo scuola alle donne: parlavo con loro del corpo, di come funziona, come regolare le nascite e com’è il corpo dell’uomo”.

Intervista realizzata in collaborazione con Paola Consolaro

Facevi formazione alle donne perché mancava l’educazione alla sessualità?

“Sì, parlavo loro di vita, di amore e anche di “promozione umana”. Chi sei? Hai diritto di andare in ospedale con tuo figlio senza chiedere permesso a tuo marito. Parlavo anche di pace: da noi è l’uomo che gestisce il terreno, la terra appartiene a lui. Abbiamo parlato con il don di quella zona e abbiamo approfondito questo argomento: abbiamo cercato di far capire che la donna non è un essere umano senza diritti. La donna ha anche questo diritto, è lei che lavora sul campo”.

Infatti tu lì hai dei terreni…

“Sì, io ho pagato il terreno. Ho acquistato da sola un paio di terreni senza aspettare che lo facesse un uomo per me. E ho imparato anche a guidare la moto nonostante da noi le donne non guidino. Io ho iniziato a guidarla. Inoltre, ho creato dei gruppi di microcredito tra donne: abbiamo messo insieme dei soldi per usarli tra noi, o all’inizio dell’anno scolastico per aiutare i figli (visto che abbiamo tante nascite) o alla fine dell’anno. Ogni donna guadagnava dei soldi e li metteva in questa cassa comune senza dirlo agli uomini.

Si tratta di una zona ricca di mais e patate: di quel che si coltiva, tanto beneficio va all’uomo. Io ho detto alle donne del mio gruppo di darne una parte ai mariti e di tenere il resto per noi. Così mettevamo insieme tutti i soldi e, alla fine dell’anno, decidevamo la destinazione di quanto raccolto. Gessi, quaderni, materiale scolastico per i figli, ad esempio.

Abbiamo anche iniziato a creare le fondamenta per costruire un edificio per noi: i preti bianchi che c’erano lì ci sostenevano e ci davano soldi per aiutarci, anche più di quanto avessimo guadagnato. Agli uomini non piaceva questa innovazione, questa indipendenza che vedevano. Ho proposto anche di gettare sassi a terra, lì davanti, per fare livellare il terreno per aiutare il passaggio delle auto. Alcuni uomini dicevano che io facevo lavorare le donne perché avevo una moto mentre le altre donne no, parlavano male di me. Così ho iniziato a far imparare a guidare la moto ad alcune ragazze. Ho proposto inoltre alla diocesi di assumere alcune ragazze per fare la maestra, ne hanno prese due”.

Il prezzo da pagare era quello di non trovare un uomo per te perché non eri ben vista…

“Sì, gli uomini dicevano che non ero una donna, ai loro occhi ero come un uomo. Nel villaggio c’era un uomo molto ricco che aveva già 7 o 8 donne ed è venuto verso di me. Mi ha detto: ‘So che non puoi vivere assieme alle altre donne, mi piacerebbe tanto essere il tuo amico’. Questo perché non avevano mai visto venire qualcuno da me: ‘Se vuoi ti prendo un terreno e tu non coltivi, lavoreranno le altre donne’. Non gli ho risposto subito, non potevo dire ‘no’ subito. Gli ho detto che avrei dovuto riflettere e parlarne con i miei genitori ma avevo già pensato di dire di no. Un anno dopo ho incontrato Umberto e quindi ho lasciato tutto. Sono tornata dove abitano i miei genitori e dove abitava lui, mio futuro marito”.

Camerun

Come hai conosciuto tuo marito? Era lì in missione?

“Sì, era lì con il Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) e faceva il falegname all’inizio. Poi ha iniziato a fare i pozzi per cercare acqua nel villaggio”.

Quindi hai lasciato il tuo progetto per amore?

“Per amore, esatto”.

Cosa è rimasto ora in montagna? Il progetto che hai lasciato va avanti?

“Sì. C’era una donna inferma, senza gambe. Era istruita, scriveva tutto per tramandare l’esperienza. A lei ho lasciato la gestione del progetto. Don Giusto e don Angelo sono tornati in Camerun poco fa e mi hanno detto che la situazione va avanti bene. Il microcredito è ancora attivo”.

Ma il progetto era stato lanciato da te sola, per tua iniziativa?

“Sì, senza che nessuno mi dicesse niente. Avevo a cuore la promozione umana. Mi ero resa conto della situazione delle donne. La situazione è cambiata molto ma resta ancora tanto da fare. Ho lanciato questo progetto in modo spontaneo, anche per il microcredito: ho pensato di dover fare qualcosa per aiutare le donne. Visto che ho fatto la scuola di agricoltura, probabilmente questo mi ha aiutato a mettere in piedi le cose nel modo giusto”.

Com’è è stata la tua vita dopo il matrimonio, quando vi siete trasferiti più a sud?

“Ho incontrato Umberto tramite don Angelo. Era venuto su in montagna per riposarsi. Abbiamo iniziato un cammino insieme e, dopo poco più di un anno, ci siamo sposati a Maroua, nel 2006. Un anno dopo abbiamo costruito una scuola materna: abbiamo visto che nel nostro quartiere c’erano tanti bambini ma non c’era una scuola materna. Ho girato molto nel nostro quartiere per vedere le età dei bambini presenti. Intanto avevo lasciato il mio lavoro in montagna perché c’era già Livio, il figlio di Umberto, avuto dalla sua prima moglie, la quale era morta non molto tempo prima. Non è stato certo facile.

Insomma, abbiamo costruito questa scuola materna e abbiamo accolto i bimbi dai 3 ai 5 anni”.

Camerun

Come avete fatto a costruire la scuola? Avevate dei fondi?

“Grazie a una grossa donazione arrivata da Taino (in provincia di Varese, attuale paese di residenza di Françoise ndr.), dopo la morte della prima moglie di Umberto. Ci hanno proposto di fare qualcosa. E abbiamo pensato a una scuola in ricordo della moglie di Umberto. Ho gestito questa scuola per otto anni, dal 2007, ora è nelle mani di un gruppo di suore.

Per gestire la scuola ho deciso di iscrivermi a un corso di un anno per imparare la gestione di un istituto scolastico. In realtà volevo fare i tre anni di scienze dell’educazione ma non ho potuto, quindi ho imparato la gestione della scuola con questo corso. Quindi ho iniziato a lavorare, per otto anni, nella scuola materna. Questo anche grazie all’aiuto dell’ufficio di educazione alla mondialità del Pime di Milano. Ci hanno aiutato anche finanziariamente per pagare le rette e anche perché, insieme alla scuola, gestivo le adozioni dei bimbi da noi, in contatto con il Pime di Milano. Gestivo tutta la burocrazia delle adozioni.

Poi Umberto ha deciso di tornare in Italia. Ogni anno venivamo qui per le vacanze ma a quel punto mio marito ha deciso di rientrare definitivamente. Io invece non mi sentivo ancora pronta e ci tenevo che Livio finisse il primo ciclo di scuola in Camerun. Inoltre non avevamo ancora una casa pronta per noi in Italia. Così Umberto ha iniziato a sistemare la nostra attuale casa e io preparavo il passaggio di cariche della scuola materna. Così sono salita in Italia due anni dopo mio marito, nel 2015”.

Camerun

E com’è andata in Italia? Ora so che lavori in una cooperativa per ragazze immigrate, ‘Farsi prossimo’…

“Sì, appena arrivata ho fatto la badante, ho lavato i piatti in ristorante… ho cercato di lavorare subito. Ho lasciato il mio curriculum al centro per l’impiego e sono stata chiamata dal Comune di Taino. Ho raccontato la mia storia, mi hanno detto che mi avrebbero dato una risposta dopo un mese. Intanto ho lasciato il mio curriculum in una cooperativa a Varese e due giorni dopo mi hanno chiamata per andare a Milano. Alla fine ho scelto il mio lavoro qui. La mia capa, in un primo tempo, era in ferie e ho gestito da sola il centro. Al suo ritorno era contentissima, anche perché avevo fatto il report di ogni giorno. Così mi hanno rinnovato il contratto.

Lavoro a turni. È un lavoro di accoglienza, dare cibo, fare dormire, ma non solo. Provo anche a fare un lavoro educativo. Ho la fortuna di aver sposato un italiano, con lui ho imparato alcune cose come i valori e le abitudini in Italia. Così spiego alle ragazze come funzionano i trasporti: ad esempio faccio capire loro che qui non è come in Africa, non possono chiedere ai passanti in auto di fermarsi per dar loro un passaggio. Spiego anche di non mangiare in posti pubblici come sul bus, oppure come vestirsi. Giù abbiamo tanto caldo, qui ci sono le stagioni: chi arriva non si abitua subito all’inverno, al coprirsi molto quando c’è freddo. Devono passare uno o due anni prima di capire questo aspetto.

Ci sono 20 ragazze e 8 bambini ora. Spiego loro anche quali sono le abitudini a tavola e gli orari della giornata da rispettare. Magari alcune preferiscono il dolce, altre il salato alla mattina. Ma devono capire che la colazione è a un certo orario. Magari si svegliano tardi e chiedono la maionese per fare colazione. Insomma, ci sono molte abitudini diverse. Cambiare abitudine non è facile. Soprattutto per le ragazze nigeriane: hanno una cultura forte e il carattere delle persone anglofone è più duro. Ci sono anche ragazze da Costa d’Avorio, da Gambia, Eritrea”.

Oltre agli aspetti pratici, le aiuti anche a raccontare la loro esperienza e a farle parlare?

“Sì, prima di tutto insegniamo la lingua italiana. Ma ognuna delle ragazze ha la sua storia, che si porta dietro dal proprio paese di origine. Poi, c’è un pezzo di storia in Libia significativo: io non sapevo cosa fosse l’immigrazione perché al mio paese non c’è. Per loro è difficile raccontare la loro storia: io le ascolto e poi traduco in Italiano. Ci sono molte storie difficili: quando passano in Libia, c’è qualcosa in più, subiscono maltrattamenti. Prima di arrivare lì, però, non ne sono al corrente.

Chiedo loro se hanno voglia di ricominciare: loro dicono ‘assolutamente no, è pericoloso’. E parlano della Libia in modo disperato, sento una paura molto forte che emerge da loro. Ma nessuno, al loro paese, crede alla loro storia. E poi non si aprono neppure qui per raccontare la loro storia, lo fanno un po’ con me perché mi vedono più simile a loro. Io dico loro che è importante raccontare e che in questa cooperativa ci sono persone che le capiscono. Mentre mi raccontano certi episodi, piangono. E io piango con loro anche se dovrei essere forte… ma fa male. Ci sono troppi episodi che fanno male”.

C’è una speranza comune che trovi in queste ragazze immigrate?

“Sì. Ad esempio una ragazza ha partorito in barca. Quando ha visto la barca grande degli italiani ha detto ‘sono viva’. Soltanto vedendo la barca ha pensato di essere salvata. Questa è la speranza di tutte”.

Chi arriva qui, poi, trova migliori opportunità secondo te? Vale la pena rischiare la vita?

“Il discorso vale anche per me. Quando sono stata in Europa per la prima volta, per la giornata mondiale della gioventù in Francia diversi anni fa, ho pensato: qui ci sono grandi possibilità che giù non abbiamo. Lì abbiamo un tetto, la famiglia, il cibo. Ma neppure il cibo è vario. Qui la vita offre delle possibilità che giù non abbiamo”.

Questa differenza tra Africa e Europa da cosa dipende, secondo te?

“Nel mio paese, ad esempio, la colonizzazione ha fatto tante cose che forse erano sbagliate. Abbiamo legno, cacao… al nord il cotone è gestito da un’impresa francese. Dopo 50 anni dall’indipendenza, sono ancora i bianchi a gestire questa società. Ma anche perché il Camerun è uno più corrotti paesi africani. Se fossi andata avanti con la scuola, magari avrei potuto capire tante cose. Mi sono sempre detta che la scuola è unica”.

Quindi secondo te manca la scolarizzazione per stimolare la consapevolezza di fare qualcosa?

“Sì, se donne e uomini andassero a scuola, il mio villaggio sarebbe diverso. Penso anche alla società Nestlé lì presente. Oppure alla vasta produzione di soia. Insomma, la ricchezza non mancherebbe. Se la colonizzazione avesse dato un impatto positivo, le cose non sarebbero così. Tante camerunesi sono in Francia e non hanno paura di far vedere la loro faccia ai francesi”.

La speranza di un africano è solo in Europa?

“Sì. Ma ci sono africani che tornerebbero. Ho anche pensato di tornare e fare la professoressa di italiano lì. Ma intanto vorrei studiare in università mediazione culturale. Per ora ho già trovato degli italiani che si sono stupiti per il fatto che ho trovato lavoro in Italia solo dopo un anno dal mio arrivo e parlo bene la lingua”.

Ci lasci la tua canzone preferita?

“Io Canto di Laura Pausini. Invece dal Camerun, ‘X-Maleya’”.

Vuoi aggiungere qualcosa?

“La mia grande speranza è per i miei figli: che un giorno sappiano che le persone sono persone ovunque e che la vita non è facile. Io so cosa dico: la vita non è facile, bisogna rispettare le persone”. 

Nella foto, Françoise, il marito Umberto e i figli in Italia

Camerun

Copyright © 2016 Sguardi di Confine è un marchio di Beatmark Communication di Valentina Colombo – All rights Reserved – p. iva 03404200127

redazione@sguardidiconfine.com – Testata registrata presso il Tribunale di Busto Arsizio n. 447/2016 – Direttore Responsabile: Valentina Colombo