Lo sfruttamento dell’industria della moda denunciato in immagini

Chi paga per il nostro benessere? Da cosa sono permessi i prezzi sempre più stracciati dei nostri capi d’abbigliamento nelle catene che affollano i centri commerciali? Domande che si è posto anche Igor Dobrowolski artista polacco in attività dal 2014 per denunciare lo sfruttamento dell’industria della moda.

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Con efficaci immagini, i suoi lavori (esposti a Varsavia) mostrano quanto dietro il lusso consumista della società occidentale ci siano fabbriche che, lontane anni luce da ogni fondamentale diritto del lavoratore, costringono bambini per ore a realizzare i nostri graditissimi jeans e maglioni ripagandoli (ovvio) solo pochi “centesimi” al giorno. Busta paga della schiavitù. Immagini che scuotono il petto per spingere sempre di più il dibattito iniziato da non molto tempo sul reinventare l’industria della moda in chiave sostenibile.

E basta leggere le didascalie delle foto di Igor (riguardanti i noti marchi H&M e Zara) per comprendere la tragedia dietro i nostri tiepidi e spensierati sorrisi, felici di indossare un nuovo (inutile) capo d’abbigliamento:

Fast Fashion. Bangladesh 1,134 persone morte dopo il collasso dell’edificio di un’azienda di vestiti.

3 delle 4 più grandi tragedie nella storia del lusso sono avvenute in Bangladesh nel 2013. Il numero delle le vittime fatali aumentano, anche i profitti delle aziende.

H&M è la più grande compagnia che produce in Bangladesh

Le compagnie stanno spingendo le aziende ad abbassare i prezzi dei prodotti.
I proprietari delle aziende non possono fare nulla ma solo accettare e lavorare più velocemente e a minor costo. Altrimenti, il rivenditore andrà in un’altra azienda. L’unica via d’uscita è ridurre i costi, ridurre i salari dei dipendenti, abbassare le condizioni di lavoro e la sicurezza e produrre senza rispetto dell’ambiente.

Così Igor riprende, nella spiegazione dei suoi lavori, una delle battaglie di Livia Giuggioli Firth, moglie di Colin Firth, da tempo in prima linea per questa denuncia. Nel 2015, infatti, in veste di produttrice esecutiva ha realizzato il documentario The True Cost, diretto da Andrew Morgan, incentrato sulla cosiddetta fast fashion, settore che rinnova in tempi rapidissimi i capi d’abbigliamento messi in vendita.

In viaggio in Bangladesh, Livia Giuggioli ha visitato una fabbrica  standard: una sola entrata, guardie armate di presidio, nessuna uscita di sicurezza, sbarre alle finestre, operaie obbligate per quattordici ore al giorno a produrre dai 100 ai 150 pezzi all’ora, una sola pausa per andare in bagno per il guadagno di 46 dollari al mese.

«Stiamo effettivamente approfittando della loro necessità di lavorare – è la citazione di Livia Giuggioli che Igor riporta nei suoi lavori – di usarli come schiavi e non sto dicendo che non dovremmo dare loro il lavoro, ma devono essere trattati con lo stesso rispetto dei nostri figli o amici. Non sono diversi da noi».

Abbiamo fatto un paio di domande a Igor per capire meglio il suo punto di vista. Cosa vuoi comunicare con questo lavoro?

«Voglio mostrare la vera faccia dell’avidità corporale o meglio dell’avidità delle persone che gestiscono queste corporazioni e cosa porta questa avidità. Non ho intenzione di fare la morale a nessuno perché, in precedenza, anche io ho acquistato abiti in queste società. Semplicemente, ora conosco meglio come stanno le cose». 

Dici che non vuoi fare la morale a nessuno ma, oltre a conoscere lo sfruttamento dell’industria della moda, cosa possiamo fare?

«Non voglio fare la morale a nessuno o dire quello che qualcuno dovrebbe fare, perché anche io compravo vestiti in queste società. Ora so qual è la verità e cerco di prendere decisioni coscienti. Non ho intenzione di dire alla gente cosa fare, non sono nessuno per istruire altri. Cerco di mostrare la verità, poi dipende dalle decisioni del singolo individuo. Perlomeno, chi conosce non prenderà decisioni senza essere consapevole di come sia la verità (danno)».

Cosa significa l’arte per te?

«Per me è un modo migliore per comunicare pensieri o sentimenti piuttosto che attraverso il linguaggio parlato».

Di cosa ti occupi nei tuoi lavori?

«I miei lavori toccano molti problemi sociali, molti di questi sono basati su storie reali. Il fattore che occupa il mio lavoro è la sofferenza, la speranza e il ricordo che la vita può essere terribilmente crudele. Così mostro che i nostri problemi non sono grandi in paragone alla tragedia mostrata».

Puoi seguire Igor su Facebook (igor.dobrowolski.5) o su Instagram (@igordobrowolski)

Le foto di Igor per le vie di Varsavia che denunciano lo sfruttamento dell’industria della moda e altri suoi lavori di street art a Berlino.

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