L’unica lingua di Call Me by Your Name

Esperienza, dal latino “experīri”, cioè provare, tentare, imparare a conoscere, è il termine che salta alla mente quando si pensa a Call Me By Your Name (Chiamami Col Tuo Nome), il capolavoro cinematografico di Luca Guadagnino a produzione congiunta statunitense e italiana, nelle sale dal 25 gennaio.

Sceneggiata dal grandissimo James Ivory (A Room With A View, The Remains Of The Day) e tratta dall’omonimo romanzo di André Aciman, l’ultima fatica del regista italo-algerino è “semplicemente” una storia d’amore. Nell’estate del 1983 i Perlman trascorrono le vacanze, come di consueto, nella villa seicentesca di campagna di loro proprietà “da qualche parte nel nord Italia” (il film è stato girato in Lombardia, tra Crema, Bergamo e Sirmione).

Questa famiglia ebrea è l’epitomo di cosmopolitismo: madre italo-francese, Annella (Amira Casar), traduttrice in cinque lingue; padre italo-americano, Samuel (uno stupendo Michael Stuhlbarg), universitario studioso della cultura e dell’arte classica; figlio diciassettenne, Elio (Timothée Chalamet), prodigio musicale, polistrumentista e acculturato poliglotta; amici e ospiti peculiari e variegatamente internazionali che si avvicendano a pranzo e a cena.

Ogni estate, i Perlman invitano uno studente dottorando a trascorrere con loro sei settimane, durante le quali lavori alla sua dissertazione e assista il professore nelle incombenze accademiche. Sotto lo sguardo schivo ma curioso di Elio, lo studente di turno si rivela essere il ventiquattrenne Oliver (Armie Hammer), americano del New England, statuario nella sua bellezza e apparentemente indistruttibile self-confidence, tanto da guadagnarsi l’immediato soprannome “la muvi star”. In un alternarsi in crescendo di confidenze e malintesi, deviazioni e scambio culturale, attrazione innegabile e allontanamenti, Elio e Oliver cederanno infine a un sentimento appassionato e tenero, seppur destinato a inevitabile epilogo.

Call Me By Your Name è quindi la storia di due persone che si innamorano, e poco importa, ai fini dell’opera e del suo messaggio – e a un certo punto anche allo spettatore -, che esse siano due uomini, pur straordinariamente interpretati da Chalamet (Homeland, Interstellar) e Hammer (The Social Network, The Man From U.N.C.L.E.); i due hanno una chimica stratosferica, di quelle che si vedono ogni vent’anni sullo schermo, ricondotta da loro stessi a «un colpo di fortuna dell’universo e al genio del casting di Luca» (Guadagnino, ndr).

Timothée Chalamet, in particolare, dimostra una maturità artistica con pochi precedenti per la sua giovane età (mutatis mutandis, viene in mente il DiCaprio degli esordi), e strappa applausi nell’ultima sequenza del film, in un indimenticabile e commovente primo piano lungo più di tre minuti.

Potremmo discorrere del linguaggio sensuale e deliberatamente provocatorio messo in atto dal regista con abili sinestesie, nel fare della campagna lombarda un piccolo idillio e consentirci quasi di sentire l’estate italiana, i frutti maturi, di udire lo scorrere dell’acqua del fiume, mai così eracliteo nel suo significato visivo, di accarezzare le statue ellenistiche dalle forme voluttuose.

Oppure di come la camera di Guadagnino e del direttore della fotografia tailandese Sayombhu Mukdeeprom, singola, con un’unica lente a 35mm per riprendere la scena col maggior realismo possibile, racconti la storia dal punto di vista del più giovane dei protagonisti, solo saltuariamente usando il fuoco per cambiare la prospettiva o fondere gli sguardi; o anche delle innumerevoli citazioni bertolucciane in ambientazione, e di altri grandi cineasti come Rohmer o Pialat; o ancora dello squisito uso degli spazi, dei parallelismi, del continuo concedersi e ritrarsi del contatto fisico tra i protagonisti (consiglio questo saggio in proposito), della meticolosa ricostruzione storica scenografica e musicale – i più attenti avranno riconosciuto ad esempio Radio Varsavia di Franco Battiato a sottofondo di un momento iconico – con alternanza di brani pop anni ’80 come Love My Way degli Psychedelic Furs a John Adams, Ravel, Bach e tre pezzi di Sufjan Stevens, due dei quali originali.

O anche del sottile inganno in cui ci conduce Guadagnino nell’almeno inizialmente relegare Oliver a mero destinatario, seppur principesco, dell’attrazione di Elio, sorprendendoci poi infinite volte con una sottigliezza, un non detto, uno sguardo con cui Armie Hammer rende il suo personaggio sempre più vulnerabile e complesso.

Tuttavia la grandezza di quest’opera, definita dall’autore l’ultima di una trilogia sul desiderio che comprende Io Sono L’Amore (2009) e A Bigger Splash (2015), e priva degli espedienti tipici della narrativa LGBTQ, che vedono i protagonisti afflitti prima o poi da una grave malattia o dal rifiuto famigliare, è nascosta in bella vista nel monologo memorabile affidato a Michael Stuhlbarg sul finale.

Al padre di Elio spetta il compito di aiutarlo a scendere a patti con la fine dell’esperienza vissuta, e invece di allinearsi con le posizioni dei padri duri e intolleranti già visti nelle decine di storie di relazioni queer, il professor Perlman, di fatto dimostrando non solo di accettare, ma addirittura di approvare e in qualche misura invidiare il rapporto che il figlio ha avuto con Oliver, dice: «sei troppo intelligente per non capire quanto speciale e raro sia quello che hai vissuto», e ancora «strappiamo via da noi stessi così tanto, per curarci dagli eventi più velocemente, che andiamo in bancarotta a trent’anni e abbiamo meno da offrire ogni volta che ricominciamo con qualcuno di nuovo. Non provare più nulla per evitare di provare qualcosa – che spreco!»

Che spreco, davvero, sembra dirci Call Me By Your Name; che spreco quando non siamo in grado di accettare noi stessi, né l’altro proprio in virtù della sua alterità; che spreco quando, parafrasando il meraviglioso pezzo di Ida Dominijanni per l’Internazionale, non riusciamo ad arrendere la nostra identitàChiamami col tuo nome, e io ti chiamerò con il mio») per amore, quando facciamo possesso e non espropriazione, rigonfiamento e non emorragia del nostro io.

«Il nostro cuore e corpo ci sono dati una volta sola, e prima che te ne accorga il tuo cuore sarà logorato, e per quanto riguarda il corpo, arriverà un punto in cui nessuno vorrà guardarlo, men che meno avvicinarcisi. In questo momento c’è dolore, sofferenza: non ucciderli, e con essi la gioia che hai provato» continua il professore.

In un mondo di false verità, dove la cultura è messa alla gogna e l’ignoranza giustificata, un mondo che si fa beffe di chi ammette di tenerci, di chi lotta per ciò in cui crede, di chi dimostra genuina passione, un mondo senza empatia, di gente saldamente arroccata solo al proprio lato del muro, reale o immaginario, Luca Guadagnino scarta il cinismo, i bastian contrari, gli ignoranti urlatori, gli eterni suoi critici, affranca Call Me By Your Name da qualsiasi etichetta di genere e lo eleva a opera universale, per apprezzare l’esperienza della quale è necessario semplicemente essere umani.

Call Me By Your Name è candidato a quattro premi Oscar: miglior film, miglior attore protagonista (Timothée Chalamet), miglior sceneggiatura non originale (James Ivory) e miglior canzone originale (Mystery of Love – Sufjan Stevens). Ha inoltre ricevuto altre centocinquanta nomination, vincendo finora circa cinquanta premi internazionali.

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