25 anni di Emergency. Manuela Valenti e l’Afghanistan al femminile

Già alla prima conversazione con la dottoressa Manuela Valenti, responsabile della divisione pediatrica di Emergency, non solo era stato evidente quanto si potesse imparare da una professionista di tale calibro, ma avevo anche intuito, a titolo squisitamente personale, che quell’incontro avrebbe potuto rinfrancare la genuinità di tante scelte e tante mie “storie d’origine”, se mi è consentita la metafora fumettistica. In una piovosa serata primaverile, il suo umorismo estremamente pragmatico, la sua passione schietta per una categoria di mestiere di certo non comune, e il suo abbracciarmi subito con gli occhi e con le parole mi ricordavano l’umano e il medico a cui ho sempre pensato valesse la pena tendere, anche prima di scoprire come la sua storia d’origine abbia punti di contatto e similitudine con la mia.

Qualche settimana dopo, nel giardino di Casa Emergency in Porta Ticinese a Milano, ho avuto il privilegio di continuare a discorrere con Manuela di professione e professioniste/i, di che cosa significhi far politica oggi, di Afghanistan (dove Emergency ha fondato e gestisce un centro ginecologico-pediatrico), del presente e futuro delle donne e dei loro occhi.

Manuela, ti va di raccontare come sei arrivata a Emergency e qual è stato il tuo percorso nell’organizzazione?

Il mio percorso è cominciato quando, molto molto piccola, ho visto La Mia Africa e mi sono detta “io voglio andare in quel posto lì”. Poi piano piano è diventato “voglio fare il dottore”: comunque ho sempre pensato che chi è più fortunato degli altri debba avere la possibilità di restituire. C’è quasi sempre stata l’idea di fare pediatria, un po’ perché mi sono sempre trovata bene a interagire coi bambini, che hanno una sensibilità particolare e ancora l’innocenza e una visione del mondo priva di sovrastrutture. Mi piaceva molto l’idea di occuparmi di loro, anche perché ho sempre pensato appunto che quando un bambino non sta bene non può essere bambino.

Il mio percorso di studio è sempre stato con l’idea di questo tipo di futuro e di attività: ho studiato medicina a Milano, ho fatto la specialità in pediatria all’ospedale San Paolo e poi ho iniziato a lavorare all’ospedale di Melegnano. Piano piano ho cominciato a interessarmi all’attività di Emergency già dal corso di laurea. Chiaramente ne avevo sentito parlare vedendo Gino (Strada, ndr) nelle interviste tv e anche perché da qualche anno avevo cominciato a comprare i regali di Natale per le mie compagne di corso ai mercatini di Emergency. Essendo di Milano è stato più facile avvicinarmici e informarmi sulle attività dell’associazione, che mi sono sempre piaciute fin dall’inizio perché avevano l’approccio alla medicina che era il mio, cioè non soltanto curare i pazienti, ma proprio prendersi cura a 360° delle persone. L’altro aspetto che è fondamentale in tutti i progetti di Emergency è il teaching al personale locale. Piacendomi i bambini un’altra cosa che mi era passata per il cervello era l’insegnamento, e quindi si potevano coniugare questi due aspetti.

Ho lavorato cinque anni a Melegnano, per accumulare l’esperienza richiesta da Emergency post specialità. Ho mandato poi la mia candidatura, ho fatto il mio colloquio e di lì a qualche mese mi hanno richiamata per la prima missione. Inizialmente si era parlato anche della possibilità di andare in Sudan, quindi in qualche modo avrei realizzato quello che era in maniera ingenua “l’idea dell’Africa”; invece un mese prima della partenza mi è arrivata una telefonata: «se invece di mandarti in Africa ti mandassimo in Afghanistan?». E devo dire che senza pensare troppo anche alla situazione dell’Afghanistan ho detto sì con curiosità, e sono stata molto felice di questo cambio di destinazione finale, perché vi ho scoperto un popolo e un Paese incredibile.

Ho fatto alcune missioni di 6 mesi – questa è la richiesta di tempo per dare continuità al progetto di insegnamento – in Afghanistan e in Sudan, e da qualche anno sono la responsabile della divisione pediatrica, che significa semplicemente coordinare i progetti di competenza. Adesso sono di base a Milano, durante l’anno giro tutti i progetti pediatrici per vedere se ci sia qualcosa da implementare, cambiare, migliorare, e per il resto del tempo mi occupo di colloqui per i colleghi che vogliono partire, linee guida e coordinamento.

Che cosa significa Emergency per te?

Da un certo punto di vista è la realizzazione in concreto di quello che avevo sempre pensato da sola nella mia cameretta. È stato un grosso impegno, sicuramente non una cosa facile. Non che me l’aspettassi, nessuno me l’aveva promesso, anzi.

Quello che mi piace di più è la messa in pratica quotidiana di tutta una serie di diritti per pazienti, dipendenti, persone che incontriamo nei nostri progetti: Emergency si occupa di molti aspetti, per esempio organizza corsi professionali per ex pazienti che avevano perso uno o più arti sulle mine antiuomo nel Kurdistan iracheno, e poi tramite cooperative fornisce prestiti di microcredito per far nascere le loro attività nei piccoli villaggi. Questo è proprio prendersi cura a 360°. Per non parlare di tutto quello che è l’indotto di un ospedale: aldilà del personale e dei pazienti, ci sono altre persone che lavorano per noi nelle varie filiere. Banalmente, comprare cibo e farmaci per gli ammalati. Anche per la manutenzione dell’ospedale utilizziamo personale locale, per cui tutta una serie di figure professionali non strettamente legate all’ambito sanitario.

Essendo la responsabile della divisione pediatrica, possiamo dire che tu abbia una posizione di autorità?

Ho dato la mia disponibilità. Le cose succedono nel modo giusto al momento giusto: Emergency voleva ricreare in sede lo stesso tipo di figure professionali che si ritrovano nei progetti, per poter facilitare il lavoro delle persone e avere dei referenti con cui potersi confrontare nelle diverse specialità, una divisione medica con il coordinatore per l’anestesia, per la chirurgia, per la pediatria… Come avviene per le altre figure professionali: adesso qui in sede ci sono anche delle persone che si occupano della logistica, dell’amministrazione, di modo che esistano delle desk di riferimento per ogni professione. Ero l’unica pediatra disponibile, banalmente abitavo a Milano, quindi è stato un destino già scritto in questo senso.

Sei comunque una donna a dirigere.

In realtà la storia di Emergency è donna. I presidenti di Emergency sono sempre state donne; certo, esiste la figura di Gino, ma per esempio in tantissimi nostri progetti, anche nei Paesi a religione musulmana, i coordinatori medici sono donne. All’inizio la prima missione non è stata semplice, lavorando in Afghanistan con colleghi uomini c’è voluto un poco perché esistesse fiducia nei miei confronti, ma a parte quello posso proprio dire che Emergency è donna, ed è una cosa alla quale tutti sono sempre stati abituati, che non sorprende e non crea problemi. È anche nata in maniera naturale, senza che ci fosse un particolare pensiero dietro.

Credits: Mathieu Willcocks/EMERGENCY

Parlando di Afghanistan, potresti darci un quadro generale della situazione del Paese dopo quasi 40 anni di guerra ininterrotta?

Inizierei con un fatto che a noi era sempre stato chiaro, ovviamente: questa è stata una guerra assolutamente inutile, e pare che sia anche dichiarato. Non so quanti lo sappiano, ma in questo momento gli USA si stanno sedendo in tentativi di negoziati di pace con i Talebani: se vogliamo considerare solo la guerra iniziata nel 2001, avrebbero potuto farlo 18 anni fa e avrebbero risparmiato morti, feriti e la devastazione completa del Paese.

In questi anni non è stata esportata democrazia, è vero che soprattutto le donne hanno cominciato ad avere qualche diritto in più, che sicuramente negli anni scorsi avevano perso, ma non è un Paese che abbia mai particolarmente dato diritti alle donne. Inoltre continuano a mancare le infrastrutture, le scuole, un sistema economico stabile e quant’altro. È stata una guerra, come spesso succede, particolarmente fallimentare e devastante. Curioso anche che questi colloqui di pace vengano instaurati solo con i Talebani e il governo ufficiale sia molto poco coinvolto in queste trattative. Di nuovo abbiamo la misura del fallimento dell’esportazione della democrazia: per quanto adesso esista un governo “eletto” – chissà con quale metodo di scrutinio – tre quarti delle province sono ancora controllate dai Talebani, che a loro volta hanno una sorta di governo parallelo.

Poi esistono anche ministri donna, qualche posizione apicale rivestita da donne: se dovessero ritornare ufficialmente i Talebani si perderebbe anche quello. Però la posizione della donna afghana non è molto cambiata. Chiaramente bisogna fare dei grossi distinguo fra le zone cittadine e le zone periferiche/rurali, perché sono realtà che stanno ad anni luce di differenza, ma mi verrebbe da dire che anche in Italia la situazione non sia così diversa.

Quali sono le maggiori problematiche di genere che avete incontrato, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento dell’identità?

A Kabul, la capitale, le donne si candidano anche alle elezioni, vengono elette, studiano. Quello che succede nelle periferie e nelle campagne è ben diverso, a partire dal diritto di esistere e di nascere: non esiste un’anagrafe in cui i genitori vanno a registrare la nascita di una persona. Nelle grandi città esistono gli uffici, ma chi vive molto lontano e non ha motivo pratico di avere un documento di identità, non fa neanche la strada fino alla capitale per chiederlo e per registrare la nascita di un figlio, men che meno della figlia. I documenti sono costosi, e spesso vengono chieste anche delle “mazzette” dal funzionario che dovrebbe rilasciarli. Il viaggio è altrettanto costoso ed è difficile che un genitore lo intraprenda per riconoscere una figlia femmina.

Da qualche anno anche qui si stanno facendo grosse battaglie, e nel nostro centro maternità che è un punto nascita da 600 parti al mese abbiamo la possibilità di rilasciare certificati di nascita ai bambini; questo è un passo avanti ma una piccolissima goccia in un grandissimo mare.

Poi manca assolutamente il diritto all’istruzione: anche quella di primo grado è costosa per le famiglie, molto spesso implica spostamenti, non sempre i libri vengono forniti dalla scuola. È chiaro che per una famiglia estremamente povera, dove magari il capofamiglia è morto o non ha un lavoro stabile, diventa una grossa spesa investire sull’istruzione soprattutto di una figlia femmina, dato che si sa che il suo destino sarà semplicemente quello di madre. Se si deve decidere si fa studiare il figlio maschio, la femmina magari solo per il ciclo primario, perché impari a leggere e scrivere.

Lo stesso discorso vale per il diritto alla sanità: la stragrande maggioranza di medici sono ancora uomini, soprattutto nei villaggi e nelle zone rurali. Anche se un medico è nell’esercizio della professione comunque non tocca e non si avvicina alla paziente femmina: questo toglie molte possibilità cliniche, aldilà dell’aspetto economico.

I matrimoni sono ancora in larga parte combinati e decisi dalla famiglia, dove magari la ragazza ha possibilità di scelta fra due o tre pretendenti comunque imposti dai genitori. La vita della donna rimane assolutamente difficile. Di contro sono assolutamente certa che se qualcosa dovesse cambiare in un Paese come l’Afghanistan questo dovrà passare attraverso l’istruzione delle donne e delle ragazze: è l’unica possibilità di modificare le loro condizioni.

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Come funziona la sanità per le donne, da un lato e dall’altro del lettino, cioè come utenza e come professioniste?

Per quanto riguarda l’utenza, io vedo da 10 anni sempre le stesse storie. Donne che spesso arrivano all’ultimo momento, perché è difficile raggiungere l’ospedale o perché si sono rivolte prima al santone o perché nessun uomo della famiglia era disponibile ad accompagnarle e loro non possono viaggiare da sole. Quello che ho visto invece cambiare moltissimo è dall’altra parte del lettino, nel senso che le prime che hanno cominciato a lavorare con noi nel centro maternità erano semplicemente ragazze del villaggio o di Kabul, e il requisito era che la famiglia desse loro il permesso di venire a lavorare anche facendo i turni di notte. Non avevano competenza professionale pregressa e imparavano da noi il mestiere: bastava sapessero dire «good morning» e altre due parole in inglese.

In questi anni le cose sono cambiate tantissimo e adesso quasi tutte le ragazze che lavorano per noi hanno almeno un diploma, da infermiera o ostetrica, per cui magari devono specializzare la loro preparazione, ma esiste un percorso dietro. La cosa meravigliosa è che il nostro centro di maternità è stato riconosciuto anche come centro di formazione per le ginecologhe nella specialità post lauream, e quindi possiamo lavorare con colleghe nazionali che hanno fatto un corso di istruzione. Una nuova generazione con delle possibilità completamente diverse. Fermo restando che le differenze fra capitale e villaggi si mantengono.

Ricordiamo che l’Afghanistan è un altopiano di 1800m…

Esatto, anche geograficamente è molto difficile spostarsi, andare a studiare. È veramente una roulette: la fortuna decide dove farti nascere. Credo ci siano alcune donne di una certa età mai uscite dal loro villaggio, che non hanno visto la capitale né hanno accesso ai media. Situazione ben diversa è quella delle studentesse universitarie di Kabul che hanno possibilità quasi come le coetanee in tante altre parti del mondo.

Hai citato l’impegno di Emergency nella formazione. Come ci si approccia alle figure professionali nazionali?

Sì, l’impegno di Emergency è a 360° e con i professionisti di tutti i tipi che assume nei progetti, dallo staff sanitario a quello tecnico e amministrativo. Lo scopo finale è diventare inutili e lasciare tutta la struttura completamente nelle mani dello staff locale. In tutti i progetti abbiamo cominciato a fare training on the job, giro visite al letto del paziente accanto ai colleghi nazionali, con anche lezioni teoriche quando ci si rendeva conto che soprattutto in alcuni periodi bellici l’insegnamento universitario era venuto meno. Piano piano, sia in Afghanistan che in altri progetti siamo stati riconosciuti dai diversi ministeri come centri di formazione, e quindi la stessa è cambiata: per quanto riguarda la pediatria, esiste ormai un programma del ministero con tutte le lezioni frontali nei tre anni di specialità post lauream, che noi teniamo, con l’esame finale dopo ogni anno, sostenuto all’università di Kabul, e la discussione della tesi alla fine del percorso. L’anno scorso si è specializzato il primo pediatra formato da noi. In questi giorni se ne specializzano altri tre.

Un gran traguardo.

Ci abbiamo messo 15 anni ma alla fine ci siamo arrivati. In Sudan nel centro cardiochirurgico, dopo una decina d’anni di attività siamo stati riconosciuti come centro di formazione per gli specializzandi in cardiochirurgia e anestesia, e invece nell’ospedale che aprirà l’anno prossimo di chirurgia pediatrica in Uganda (progettato da Renzo Piano, ndr) stiamo già facendo i passaggi burocratici col ministero per iniziare da formatori. Alcuni esponenti del governo ugandese hanno avuto la possibilità di visitare il nostro ospedale in Sudan e quindi siamo partiti in quella direzione da subito.

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A livello più tecnico-medico, quali sono i protocolli che avete dovuto implementare?

A livello generale, non sono poi così diversi da quelli che utilizziamo in Italia. Vengono tutti dai protocolli dell’OMS, che i colleghi nazionali conoscono più facilmente, aggiornati a seconda delle realtà regionali del singolo progetto, prendendo in esame le linee guida internazionali. Faccio un esempio. In alcune zone della regione sub-sahariana l’anemia falciforme è più che endemica, e quasi nessun Paese la tratta come si deve, perché il farmaco anti-blastico che serve è molto costoso e necessita di una serie di accertamenti: nel nostro centro di Port Sudan, dove il 30% della popolazione è portatrice, abbiamo applicato il protocollo nazionale italiano, adattandolo certamente a quelle che sono le disponibilità di laboratorio, le conoscenze specifiche locali e le possibilità di spostamenti per le visite di follow-up.

Per fortuna in medicina “non ci si inventa niente”: esiste una marea di protocolli liberi e fruibili, che si adattano alle realtà e circostanze. Per esempio, con la drepanocitosi (= anemia falciforme, ndr) siamo gli unici ad aver iniziato il trattamento con l’idrossiurea in tre Paesi; chiaramente non possiamo fare trapianto di midollo, ma possiamo tenere a bada la patologia con questo protocollo cambiando la qualità di vita del paziente. Ci occupiamo anche del paziente cronico e di quelle che possono essere le conseguenze a lungo termine, pur essendo una NGO e pur avendo cominciato con l’emergenza, perché quando ci si trova in questi contesti si vedono le necessità e ci si rimbocca le maniche con qualunque cosa ci sia da fare. Le donazioni internazionali sul cronico non esistono: tutti si occupano soltanto dell’emergenza.

Questo è un problema anche dell’Occidente.

Sì, e poi le emergenze finiscono quando i donors decidono che siano finite, ma non è proprio così. Raramente la situazione nei Paesi cambia talmente tanto da poter asserire che non esista più l’emergenza: semplicemente le realtà si cronicizzano.


Credits: Mathieu Willcocks/EMERGENCY

Invece, per quanto riguarda i protocolli peri-natali in Afghanistan?

Lì è stato fatto un grossissimo lavoro. Quando abbiamo aperto il centro maternità, che ha 12 anni, ci è stato detto che eravamo pazzi e che nessuno sarebbe venuto a partorire da noi, data la situazione delle donne in Afghanistan. Facevamo una trentina di parti al mese; poi piano piano col passaparola i parti son sempre più aumentati, nonostante siano gli uomini a dare il permesso di venire a partorire da noi – fra gli altri diritti mancanti alle donne c’è quello di poter decidere del proprio corpo, e per qualunque intervento la donna deve avere il consenso scritto del marito o di un famigliare maschio.

4 anni fa ci siamo stabilizzati a più di 600 parti al mese, e abbiamo dovuto costruire una nuova maternità. Il livello di assistenza neonatale che possiamo garantire è sovrapponibile a quella di un ospedale di secondo livello: abbiamo incubatrici, lampade per fototerapia, pompe siringa e infusione e come assistenza ventilatoria arriviamo alla C-PAP (ventilazione meccanica a pressione positiva continua, usata per evitare ostruzioni delle vie aeree, ndr). Quindi è un ottimo livello di assistenza, soprattutto se si pensa che siamo in un Paese dove il 70-80% delle donne partorisce a casa senza alcun tipo di assistenza qualificata per lei o il neonato, e la mortalità neonatale è circa 80 volte quella italiana. Sapere i dati precisi è difficile perché non è possibile censirle. Credo però che si sia raggiunto un livello soddisfacente anche a livello ginecologico, dove abbiamo il farmaco salvavita, il sangue: la gran parte della mortalità femminile peri-partum avviene per emorragia, soprattutto extra-ospedaliera.

Cerchiamo di salvaguardare in primis la vita della donna, per cui evitiamo il più possibile i parti cesarei: l’OMS raccomanda di stare intorno al 10% e noi siamo addirittura sotto questa percentuale, verso l’8%; in Italia si parla di 40%, e la media significa che in alcuni centri se ne fanno di più, mentre noi tentiamo sempre di dare alla donna una chance di partorire per via vaginale, naturale, anche se ha avuto precedenti cesarei, se si tratta di un parto gemellare o se c’è presentazione podalica. Tutte situazioni in cui in Italia si fa per norma cesareo elettivo. Al centro si fanno solamente cesarei di emergenza e in situazioni complesse per la donna, che spesso viene a partorire da noi senza aver fatto alcun tipo di controllo pre-natale, o che è rimasta incinta molto giovane e/o ha avuto tantissime gravidanze anche ravvicinate, avendone il fisico estremamente impoverito.

E lo staff al centro, a parte i pediatri, è tutto femminile.

Sì, al centro maternità tutto il personale – infermiere, ostetriche, ginecologhe, cleaner – è composto da donne nel rispetto della cultura locale. Al momento gli specializzandi in pediatria sono tutti uomini perché in genere quando le donne si laureano in medicina preferiscono fare ginecologia: chiaramente è il campo in cui sono più richieste e hanno più possibilità di fare attività privata. Molto tristemente, vista anche l’alta mortalità dei bambini, la pediatria non è una specialità particolarmente ambita.

Come si bilancia il rispetto della cultura e della tradizione locale con la necessità di modernizzare ed approfondire l’approccio sanitario alle pazienti?

Questo non è stato un passaggio particolarmente difficile. Le persone non sanno di avere diritti e possibilità, manca l’informazione a monte, ma nel momento in cui una donna viene a sapere che esiste un ospedale dove anzitutto ti accolgono e ti trattano bene, hai visite e farmaci gratuiti, non è molto difficile che si faccia passaparola e si venga a vedere anche per curiosità. Credo che il biglietto da visita migliore sia fare effettivamente quello che diciamo di fare e ottenere risultati. Anche da questo punto di vista ho notato un cambiamento in 10 anni: le donne all’inizio venivano da noi capendo di avere più chance di sopravvivenza loro stesse, ma adesso sempre più arrivano per consentire al loro bambino di averne.

Per quanto riguarda invece il burqa, Gino Strada chiese ed ottenne con relativa facilità dal generale Massoūd la dispensa dalla sua vestizione per le donne che si rivolgessero al nostro centro. Sia per motivi di sicurezza intrinseca che sanitaria: la donna che entra in ospedale lascia il burqa in una sorta di guardaroba all’ingresso e poi lo ritira alla dimissione. La zona in cui è situato l’ospedale è prettamente rurale, con uno stile di vita arcaico, e in quella parte del Paese tutte le donne lo indossano, ma per esempio a Kabul avviene meno, le studentesse universitarie spesso utilizzano altri sistemi più leggeri e corti per coprire il capo.

In che modo da un lato la professionalità acquisita, dall’altro un trattamento umanizzante di accoglienza, calore, sicurezza, e almeno qualche accenno di educazione sanitaria e sessuale possono essere promotori di una seppur minima emancipazione?

È assolutamente fondamentale. Uno dei grossissimi problemi dei Paesi in via di sviluppo è la mancata informazione e la mancata messa in atto della contraccezione, perché le donne la vorrebbero ma non hanno possibilità di averla o conoscerla. Abbiamo cominciato pian piano, e di nuovo questa è una scelta che deve essere condivisa dal marito, perché le pratiche che vengono più utilizzate sono le iniezioni ogni 28 giorni o procedure più distanziate, se non addirittura la legatura delle tube, e ci vuole sempre il consenso del marito. È sufficiente parlare con le persone, capirne le necessità e le richieste, e spiegare che esistono possibilità. In un’economia precaria, è chiaro anche a loro che avere un numero limitato di figli, e magari in maniera distanziata, in una famiglia è più vantaggioso. Oltre alla questione di salute della donna, che può riprendersi meglio e con più serenità, senza andare in contro a complicanze e partorendo bambini più sani. Mediamente un’Afghana ha 6-7 gravidanze: è chiaro che se le distanzi, puoi garantire maggiore sopravvivenza. È una realtà evidente.

Per le ragazze che lavorano da noi è invece un mondo nuovo che si apre. Intanto assumono un ruolo sanitario ma anche sociale importantissimo, perché sono donne che stanno lavorando per altre donne e sono viste come eroine dalle loro amiche, parenti, conoscenti. Molto spesso lo stipendio che percepiscono da noi è quello che mantiene la famiglia, perché sono vedove o il marito ha perso arti in guerra e non ha impiego.

Credits: Mathieu Willcocks/EMERGENCY

Spesso ci si paragona con i Paesi in via di sviluppo per raccontarsi di quanto superiore sia la propria vita, perché diversa. A noi piacerebbe invece sapere quali sono i punti di contatto e di comunanza che hai trovato con le donne afghane.

In generale nella vita non amo le etichette e le definizioni. Dire “in via di sviluppo” mi sembra sempre strano e lo trovo tipico del colonialista bianco che vuole appunto etichettare l’altro. L’Afghanistan ha una letteratura e una storia millenaria, che non ha niente da invidiare alla nostra. Andando in giro per il mondo mi sono sempre più resa conto che chiacchierando con le persone si trovano molti più punti di contatto che non quelli di non contatto. Se proprio vogliamo portare all’osso l’essenza dell’essere umano, i desideri e i sogni che hanno tutti sono semplicemente avere una casa e un lavoro possibilmente dignitosi, e soprattutto che i propri cari stiano bene.

Addentrandoci in aspetti più raffinati, mi viene in mente il discorso legato alla religione, che nei Paesi musulmani pervade la vita quotidiana ed è molto più sentita rispetto a quello che avviene da noi: anche in questo caso, le tre religioni monoteiste continuano ad avere molti più punti di contatto che differenze. Banalmente il culmine delle festività musulmane di Eid, la fine del Ramadan, è il fare regali ai bambini.

Una domanda forse “politica” sarebbe chiederti di raccontarci Gino Strada aldilà del personaggio, dal punto di vista di chi gli ha lavorato a fianco.

Intanto sarebbe bene precisare che cosa sia politica. Io credo che il termine “politica” in questi tempi sia stato svilito e ridotto alla tifoseria; ormai è diventato tutto un derby, e quindi dire che qualcuno faccia politica quasi equivale a un dispregiativo. Invece penso che voglia semplicemente dire “prendere parte a” e “mettersi dalla parte di”, una scelta quotidiana in tantissime cose che facciamo. Gino è, come tante persone, genio e sregolatezza: è integro e totale in qualsiasi cosa faccia, è un visionario, nel senso che ha in mente progetti e vuole metterli in atto.

Quest’anno Emergency compie 25 anni, e lui stesso non si immaginava che sarebbe riuscito a costruire tutto questo: in 25 anni Emergency ha lavorato in 18 Paesi e ha curato più di 10 milioni di persone. Gino ha una visione grandissima: ha pensato di aprire un centro cardiochirurgico in Sudan, un centro di maternità in Afghanistan, e in questo è sempre più avanti di molti dei suoi detrattori che si permettono di fare critiche seduti sul divano, ma credo che nessuno possa vantarsi di avere un’organizzazione che ha curato più di 10 milioni di persone.

Chi agisce è sempre più controverso di chi non agisce.

Esattamente. Poi c’è chi lo accusa di fare troppa politica, ma i fatti dicono che si tratti di una persona che ha vissuto gli ultimi 12 anni della sua vita a Khartoum facendo il cardiochirurgo e altri 7 anni della sua vita in Afghanistan a ricucire pezzi di esseri umani saltati in aria per la guerra. Credo che sia molto difficile imputargli qualcosa, a fronte di questi dati.

Per lasciarci, ci regali alcune cartoline sensoriali dell’Afghanistan?

Con l’olfatto dico l’odore del pane appena sfornato. In farsi si chiama “nan”, e ha una forma particolare, tonda o allungata. Viene cotto in buchi nel terreno e poi raccolto. Quando si passa dai bazaar e l’hanno appena sfornato si sente un profumo bellissimo.

Di immagini visive ne ho tre. La prima: in Afghanistan c’è una luce pazzesca e tutte le riprese e fotografie, nonostante siano meravigliose, comunque perdono rispetto alla realtà.

La seconda: le stellate nei villaggi di montagna sono visibili perché non c’è energia elettrica nelle stradine, ed è pazzesco come tutti questi villaggetti dispersi siano identici a quello che nel nostro immaginario è il presepe, e spiegarlo a loro è particolare.

La terza: gli occhi delle donne afghane ti raccontano storie che prendono tutti i sensi.

…e la cui origine non si vedrebbe l’ora di ascoltare.
Tanti auguri a Emergency e grazie dei suoi bellissimi 25 anni. Che sia davvero solo iniziata l’estate.

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