Issam, il detenuto musulmano: “Ci volevano dipingere terroristi”

Issam, 34enne musulmano originario del Marocco, da 6 anni è detenuto nel carcere di Busto Arsizio (Va) con una pena di 14 anni per un cumulo di differenti reati commessi.

Ma ora è in Articolo 21, ovvero la legge che gli permette di svolgere lavori all’esterno del penitenziario grazie alla buona condotta: “Ultimamente mi hanno fatto uno sconto di pena – ci spiega – mi hanno scalato 2 anni e 3 mesi, quindi mi mancano poco più di 4 anni, ho superato la metà della pena. E sto aspettano una misura per andare in affidamento provvisorio sul territorio con i servizi sociali, se me lo concede il Magistrato.

Collaboro con VoceLibera, il giornale del carcere, come un hobby. Il mio vero lavoro ora è all’interno del carcere (durante il weekend perché partecipo al laboratorio di creazione borse Manolesta) e faccio carichi e scarichi delle aziende tra Cassano Magnago, Gallarate e Busto Arsizio, non posso uscire oltre questi tre Comuni. A gennaio inizio a fare il mio mestiere, ovvero il verniciatore industriale, a Lonate Pozzolo, in affidamento se me lo danno, oppure in Articolo 21. Una ditta con la quale ho lavorato mi ha proposto questa collaborazione. Se resto in Articolo 21 lavorerò full time e poi torno in carcere, se mi danno l’affidamento tornerò a dormire a casa mia.

Da 6 mesi sono in Articolo 21: esco alle 8 del mattino e alle 19 devo essere davanti al cancello, se non mi presento iniziano le ricerche”.

Intervista realizzata in collaborazione con Claudio Bottan

Prima di entrare in carcere com’era la tua vita?

Un po’ mista diciamo. Ho sempre lavorato ma, oltre a quello, facevo lavori non in regola. Tra spaccio, rapine, furti, oltraggi e risse…. Ho fatto di tutto, altrimenti non avrei questa condanna di 14 anni, un po’ di errori ne ho fatti”.

A che età hai iniziato questa vita?

“Da bambino, già da quando sono uscito sapevano com’ero… sono la pecora nera della famiglia”.

Pensi che ciò che hai fatto dipenda dal tuo carattere?

“Un po’ sì. Un po’ no. Un po’ perché, alcune cose non sono da me ma, frequentando persone sbagliate, gente che non va bene, ho fatto delle cose che non volevo farle. Ma alcune cose le ho fatte”.

E ora, dopo 6 anni di carcere, come pensi a quei momenti?

Adesso mi fanno schifo. E spero di non tornare a fare quello che ho fatto. Mi sono pentito di ciò che ho fatto. Anche se alcune le ho fatte per necessità, non perché mi piaceva farle”.

Cosa intendi che alcune cose le hai fatte per necessità?

“Intendo che volevo aiutare la famiglia per una vita più agiata. Però si poteva fare anche guadagnando 800 euro al mese”.

Com’è la tua famiglia?

“Sta bene. Non è una famiglia ricca ma benestante. Siamo 5 fratelli, 4 in Italia me compreso. Ho due sorelle laureate. Mia madre non c’è più mentre mio padre e un mio fratello sono rimasti in Marocco a gestire negozi di famiglia. Ora è tornata anche una sorella più grande lì per dare una mano ma, ogni tanto, torna su”.

A che età sei venuto in Italia?

“Da ragazzino, avevo 17 anni. Sono venuto come parecchi che vediamo in televisione oggi. Sono venuto dalla Libia raggiungendo l’Europa solo per togliermi la curiosità di vedere l’Italia. Anche perché c’era già mio fratello qui che studiava a Bologna. Sentivo dire dai miei connazionali che in Europa si guadagna e si fa la bella vita.

Quindi sono stato quasi un mese e mezzo in Libia e ho pagato per venire a vedere questa Europa com’è. Ho rischiato, ho visto la morte più di una volta, sia là che qua. Mi hanno sparato più di una volta ma sono ancora in piedi”.

Ti hanno sparato anche in Italia? Com’è successo?

“Ho avuto un po’ di discussioni nel giro che facevo, con le persone che frequentavo”.

Quindi sei arrivato qui solo per vedere com’era l’Europa poi hai pensato di restarci?

In realtà avevo voglia di tornare. Dopo un paio di mesi, io ero giovane mentre mio fratello studiava in università e lavorava di sera in un hotel per pagarsi gli studi: pensavo di stare con lui ma non vedevo possibilità di lavorare. Almeno in Marocco mi alzavo all’ora in cui volevo, avevo mamma, papà, tutta la famiglia. Non avevo nessun peso. Arrivi qui e non trovi nessuno, trovi un clima diverso, non sai la lingua, non sai niente. Quindi esci dalla porta alla mattina e ti chiedi con chi devi parlare.

E poi la vergogna: se torno ora in Marocco cosa racconto alle persone, ai miei familiari? Cosa ho portato? Avevo vergogna di tornare e dire di non aver fatto niente. Poi mi dicevo che le cose sarebbero cambiate nel tempo. Avevo speso più di 4mila euro per andare in Europa senza fare niente? Non è la vita che pensavo. Ci sono quelli che, dopo essere venuti in Europa, tornano con le macchine, con i soldi, fanno appartamenti e vanno a divertirsi tutti i giorni….”.

Mentre per te non è andata così…

“Non che non è andata così. Poteva andare così. Potevo anche starmene dove stavo senza venire qui a rompere a nessuno. Però è andata come è andata. Ho iniziato a fare il muratore, poi sono andato a lavorare in fabbrica, poi sono andato a fare il verniciatore, poi ho iniziato a frequentare spacciatori etc e la vita si è mischiata. Poi le cose sono andate come sono andate”.

Com’è il carcere?

“Ho avuto esperienze già prima di questa ultima carcerazione. Questa è tosta. Il carcere l’ho vissuto come tutti gli altri: ho sofferto dentro in carcere e soffro dentro di me. Non so come spiegare il carcere. Se ti fai i fatti tuoi, non rompi a nessuno, nessuno ti viene a rompere. Ma, se tu inizi a rompere, qualcuno verrà a rompere te.

Ho fatto tutte le attività possibili in carcere. Ho 14 tra attestati e diplomi.  Ho frequentato tutti i corsi. Mi sono sempre impegnato, non mi sono mai tirato indietro, qualsiasi cosa c’era che potesse impegnarmi. Cercavo di occupare il tempo per non sentire il carcere, ma qualsiasi cosa la facevo per voglia di farla”.

Pensi che le attività in carcere aiutino la persona?

“Certo. Se non ci fossero state le attività in carcere, non penso che stavamo qui seduti a parlare ora. Chissà dov’ero. Magari la mia condanna aumentava pure. Perché se non ci sono attività, ti fanno andare fuori di testa. Poi magari commetti un reato dentro il carcere. Se non te la prendi con i compagni, te la prendi con le guardie: la maggior parte fanno così”.

Tu, invece, sei sempre stato tranquillo in carcere?

“Sì, vedo le cose ma le tengo dentro. Meglio che soffro io altrimenti faccio soffrire ancora i miei familiari e soffro io di più dentro e non aveva senso. L’ho giocata così: faccio il bravo per raggiungere un obiettivo. E, fino adesso, mi sto comportando bene per raggiungere i miei obiettivi, per essere in libertà, ma soprattutto per essere diverso”.

Questa sofferenza, sotto quale aspetto è maggiore?

“Sotto tutti gli aspetti. Il carcere è una sofferenza, solo la parola carcere è sofferenza. Avevo scritto un articolo per VoceLibera dove dicevo che il carcere è come un veleno mortale di un serpente, per tutto”.

Quindi, se partecipi alle attività e tieni la sofferenza dentro, riesci a non farti mordere dal serpente?

“Esatto. Però è lo stesso una sofferenza. Magari passi un giorno, una settimana, un mese che stai bene. Arriva poi un cretino che non risponde neppure a un tuo ‘buongiorno’ e ti fa stare male”.

Come va il rapporto con i compagni di cella? Hai avuto problemi per la tua religione, visto che sei musulmano?

“No, mai. C’è sempre un rispetto. Come io ho rispetto per la tua religione, devi avere tu lo stesso per me. Se non vado d’accordo con qualcuno, essendo il ‘vecchio’ della cella, posso consigliare di fare il cambio cella. Non ho mai dato fastidio a nessuno perché prego: la preghiera dura solo 3 minuti, al massimo 7 se la fai lunga. Dipende anche dal rispetto delle persone.

E dipende da chi hai in cella con te: appena esce qualcuno si inizia a pensare chi si vorrebbe nella propria cella. Speri sempre che arrivi uno che non russa, uno pulito, uno che non rompe le scatole a nessuno, uno che deve mangiare come mangi tu… e poi c’è sempre il mese di prova, come si fa per il lavoro. Se vedi che uno è pulito, non russa, è ordinato, va bene.

Ci sono persone che si adeguano subito, vedendo come fai tu. Alcuni invece hanno bisogno di spiegazioni per la convivenza… alcuni arrivano alle minacce o alle mani per queste questioni. Insomma, alcuni si adeguano altri no. Altrimenti c’è il cambio cella. Anche le guardie cercano di risolvere questo problema. I problemi, tra noi detenuti, sono solo questi.

Poi, però, ci sono i problemi con le guardie e con chi è più alto. Solo per avere una telefonata con mio figlio, sai quante domande ho fatto? Quante istanze al Magistrato solo per avere una telefonata”.

Quindi hai un figlio e non puoi sentirlo al telefono?

“Ora che sono in Articolo 21 sì. Ma prima, per sentirlo… ti faccio vedere un fascicolo: sono centinaia e centinaia di richieste. Si ha una chiamata a settimana, con il cellulare due al mese. Se non fai i colloqui. Se viene qualcuno per sorpresa a trovarti, hai perso quella chiamata e devi aspettare altri 15 giorni. Perché dicono che hai già avuto notizie dall’esterno, chiunque sia.

Ho perso la mia ex compagna, è morta a maggio. Per due volte mi hanno avvisato e quindi, per legge, secondo il codice penitenziario, avrei avuto il diritto di chiamare. Ma non mi hanno fatto chiamare, né quel giorno, né dopo tre giorni. Non vedo il perché. Era una questione grave, non volevo parlare al telefono per chiedere un favore.

Anche quando è morta mia madre lo stesso: non ho potuto chiamare nessuno fino alla settimana dopo. Non ho potuto sentire nessuno dei miei familiari prima nonostante mi toccasse per legge. So bene che è un processo lungo per il passaggio di cariche, quindi passano i giorni. E per questo molti vanno fuori di testa… capita che alcuni tirino cazzotti a chi hanno davanti. Io tengo dentro. Ma non puoi negare una cosa che ti tocca di diritto. Ti senti che sei senza diritti, sei già negato di libertà, poi ti negano anche ciò che ti tocca… nonostante sia una questione grave come la morte.

Insomma, io ho sempre cercato di trattenermi. Ho sempre pensato a mio figlio e alla mia famiglia. Durante la chiamata della settimana, le prime domande sono sempre ‘come stai, hai avuto problemi?’. Poi si parla del resto. Insomma non voglio dare altre preoccupazioni a loro. Certo, se ci avessi pensato prima, non sarei nemmeno arrivato in carcere”.

Hai tenuto in mano in Vangelo durante il Giubileo dei Detenuti, di fronte a Papa Francesco in Vaticano. Come hai vissuto questa esperienza?

“Non ho parole. Ero troppo emozionato. È qualcosa che non avrei mai pensato di fare. Per me è un personaggio. Non sono cristiano ma per me è un personaggio. Non avrei mai pensato di salutarlo e stare vicino a lui. Ogni tanto ci penso: riguardo il video e, nel mentre, sento ancora l’emozione di quel momento.

Ho tenuto il Vangelo, sono stato con lui più di 10 minuti… in quel momento non so neppure quante ore sono passate. È stata una cosa più forte di me. Poi, basta entrare in Vaticano e vedi tutti emozionati, felici, contenti. Vedi i sorrisi nei visi delle persone. È una bella cosa”.

detenuto musulmano dal Papa

Foto: miopapa.it

Penso agli attentati del 2015. Molti pensano musulmano uguale terrorista. Cosa rispondi?

“Che non siamo uguali, siamo diversi. Ci volevano dipingere così. Anche da noi ci sono i bravi e i cattivi. Ci sono i malati di cervello. Penso che noi musulmani non siamo quelli che fanno vedere in televisione che fanno queste bombe, questi kamikaze. Nel Corano non c’è scritto che devi andare a fare saltare in aria quella persona. Io prego tutti i giorni e ho letto tutto il Corano, lo leggo tutti i giorni e non mi dice di certo di andare ad ammazzare una persona o di tagliare la testa a un cristiano. Oppure non farmi intervistare da una cristiana.

Queste cose non le ho mai lette. Siamo per la pace. Ho tenuto il Vangelo al Papa anche per far capire alla gente la questione. Sono nato, cresciuto e muoio mussulmano. Non mi cambia il fatto di aver tenuto in mano il Vangelo. Non mi cambia nulla. E cosa cambia quando un cristiano prende il Corano in mano? Insomma non c’è scritto che io non possa tenere il Vangelo in mano, anzi. Dovevo farlo per fare capire alle persone come siamo”.

Rispetto al fondamentalismo, com’è vissuto in carcere?

“Non ho mai avuto problemi… anche se mi hanno scambiato per un terrorista. Quando è deceduta mia madre, proprio durante il Ramadan e tutti sapevano che, alla fine, si fa festa in carcere. Durante quella festa mi hanno chiesto di fare una preghiera per mia madre. Già non mi andava perché ero giù di morale e non avevo mai fatto l’Imam, ma i miei coinquilini di cella mi hanno convinto e ho scritto una preghiera dal Corano per una persona morta.

Eravamo una 50ina di persone e quindi ho fatto la preghiera: in quel momento ho letto il biglietto e tutti i musulmani hanno alzato le mani al cielo e qualcuno ha pensato male. Pensavano che stessi invocando qualcosa di negativo. Qualche guardia ha fatto la segnalazione al comandante e lui l’ha fatta alla questura. Quindi alcuni mi pensano un terrorista”.

Ti hanno interrogato per chiederti cosa significasse quel gesto?

“No, hanno interrogato altri. Non mi hanno mai chiesto nulla. Hanno fatto perquisizioni in cella senza dirmi i motivi e stop. E non ho avuto modo di dire la mia. Basta scrivere una lettera ai superiori per denunciare una persona e quella persona è tenuta d’occhio. Nonostante non sia vero… vedi me, sono andato persino dal Papa”.

In molte carcere alcuni si stanno convertendo….

“Ma questo all’interno di Busto Arsizio succede meno. Perché non facciamo neppure gruppi per pregare. Io prego nella mia cella. È l’unico carcere senza una Moschea e senza Imam che viene da fuori, come avviene dalle altre parti. Anche la preghiera tocca di diritto. Nel 2013 si usciva insieme per pregare all’aria. Erano una 40ina circa… erano tanti.

Ma dal 2014 in poi non c’è più perché anche le persone hanno paura… hanno paura di essere fraintesi perché pregano e quindi pensano ‘meglio che lascio perdere’. In carcere ho sempre pregato per conto mio… non è che devo fare vedere a te che sto pregando. Prego per la mia famiglia, non per farmi vedere dalle telecamere”.

Dopo gli attentati, il clima è cambiato?

“Molto. Hanno messo sotto controllo tutti. C’era molta tensione. Quindi è stato tagliato tutto”.

Vuoi aggiungere altro?

“Speriamo che all’interno delle carceri cambino molte cose. Ora vedo che le condizioni stanno migliorando, ma c’è tanto da cambiare. In qualsiasi cosa, sia per la religione che per le misure alternative. C’è molto da lavorare”.

Come vedi la tua vita in futuro?

“Non posso vederla. Fino ad ora mantengo il comportamento che mi consente di raggiungere un obiettivo e penso a quello. Ma ci sono giorni diversi dagli altri, non puoi mai sapere come cambiano le cose. Cerco sempre di rigare dritto e farmi i fatti miei, voglio trovarmi un posto di lavoro e farmi una famiglia. Al carcere dico basta. Il primo obiettivo, fuori dal carcere, è il lavoro: per ora guadagno 400 euro al mese. Una volta uscito dal carcere dovrò trovare, prima di tutto, un lavoro per vivere”.

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