Alessia Nobile, trans MtF: «Siamo “figlie di nessuno”»

La vita non sempre le ha sorriso, i suoi amici le hanno voltato le spalle e i suoi genitori non l’hanno minimamente affiancata nel suo percorso. Ma Alessia Nobile ha sempre lottato. Lei è la prima transgender MtF (da uomo a donna) ad aver ottenuto il cambio anagrafico in Puglia.

Forte e determinata, dopo la laurea in scienze sociali ha affrontato da sola il percorso per la transizione. Ora vive libera per i suoi viaggi, in tutta Italia e all’Estero, ma legata per una condizione: la prostituzione. Perché, racconta, trovare un altro lavoro “in regola” per lei è impossibile. Di fatto, il risultato di ogni colloquio si traduce sempre solo in un “le faremo sapere”.

Il suo nome, tra l’altro, è salito più volte tra le pagine di gossip nazionale come – caso più eclatante – “la escort più richiesta durante il Festival di Sanremo”. Ma Alessia Nobile, nella sua facciata di “macchietta solare”, come ammette lei stessa, rivela un mondo a tratti profondo e solo, a tratti forte e resiliente. E noi le auguriamo di poter vivere, davvero, quel cambiamento che attende per la sua vita.

Di seguito, la nostra intervista ad Alessia Nobile.

Chi è Alessia Nobile?

«Sono una ragazza transgender, la prima in Puglia ad aver ottenuto il cambio anagrafico pur non avendo fatto l’intervento di riassegnazione. Per lo Stato sono donna, non ho più traccia della mia identità nel passato.

Sono laureata in scienze sociali ma non ho mai lavorato a causa del pregiudizio. È una questione diffusa in Italia, è dura trovare lavoro come trans».

Chi era Alessia prima del cambio anagrafico?

«Sono stata sempre donna, in un involucro maschile. Mi sono sempre sentita tale. Quando sei piccola, cresci in fretta. A scuola elementare avevo già capito che qualcosa non andava come gli altri. Avevo capito che c’era qualcosa che non mi rendeva comune agli altri maschietti.

Ovviamente a quell’età, senza impulso sessuale, non capivo precisamente cosa significasse. Preferivo giocare con le amiche, mi sentivo più affine alle bimbe rispetto che ai bimbi.

Per anni poi sono rimasta in quell’involucro maschile. Quando sei piccolo non puoi raccontare ai tuoi genitori che qualcosa non sta andando. Di fatto, non ho avuto un supporto familiare. Non avevo la possibilità di raccontarmi».

Da piccola quindi ti nascondevi?

«Facevo tutto quello che sentivo, mettevo i jeans attillati, giocavo con giocattoli solitamente associati alla “femminilità”, non giocavo a calcio, avevo tutte amiche femmine. Insomma ero calata nella dimensione femminile. Poi, crescendo, è arrivato anche l’impulso sessuale. Sentivo attrazione per gli uomini.

In seguito ho iniziato a mettermi vestiti femminili e mettevo anche una base di fondotinta. Ma tutto questo non potevo raccontarlo ai miei, loro sono molto chiusi e non hanno ancora accettato. Dopo l’università, ho deciso di riprendermi la mia identità».

Hai affrontato tutto da sola?

«Esatto. Ai miei genitori non ho detto nulla. Nel frattempo avevo iniziato a fare crescere i capelli e altre piccole cose che potevano ancora essere “accettate” anche per un ragazzo. Appena laureata, ho iniziato a fare il laser, ho iniziato a prendere forma perché in quel corpo maschile non potevo più stare.

All’epoca la disforia di genere era ritenuta una malattia: sono andata in un reparto a Bari per le prime sedute psicologiche. Visto che i tempi per effettuare il percorso completo, però, erano lunghi, decisi di fare tutto da sola, non passando per la sanità pubblica».

Ti sei rivolta a un ospedale privato?

«Sì. Durante gli anni di università, d’estate, lavoravo come barista per mantenermi. Ho continuato a fare questo lavoro anche dopo la laurea, così ho potuto mettere da parte i soldi per essere operata: verso i 22 anni mi feci il seno a Firenze. Intanto avevo eliminato la peluria dal volto e avevo i capelli lunghi. In precedenza mi ero rifatta anche il naso, grazie alla rinoplastica, al policlinico di Bari.

Così, poi sono tornata a casa dai miei. Ho detto: “Eccomi, io sono questa”. Mia madre ha avuto uno “shock”.  E tutt’ora non condivide la questione. Di fatto, ho imparato la differenza tra accettare e accogliere: vivo una situazione di accettazione, non di accoglienza. Ho fatto tutto da sola e non mi è stato chiesto neppure perché l’ho fatto. Per me accogliere significherebbe voler sentire quello che ho passato, quello che sento, se ho sofferto, a chi mi sono rivolta. Ma loro non mi hanno mia fatto domande».

Allora, se i tuoi genitori ti ascoltassero, cosa vorresti dire loro?

«Spero che possano riflettere, così come altri genitori che si trovano nella stessa situazione. Perché un genitore capisce che c’è qualcosa che non va, fin da quando il figlio o la figlia sono piccole. Quindi poi non si può cadere dalle nuvole.

Vorrei sapere prima di tutto, ad oggi, qual è il loro pensiero. Non so proprio cosa ne pensano. Non ne abbiamo mai parlato. Quando ho dei problemi relativi al fatto di non trovare lavoro, ad esempio, non posso confidarmi con loro. Loro mi direbbero: “L’hai voluto tu per quello che hai fatto”.

Mio padre, poi, mi ignora proprio. È una presenza più che un dialogo. Effettivamente, iniziando questo percorso, ho perso tutto. Ho perso gli amici storici, mi hanno girato le spalle. E ho perso la possibilità di lavorare. Quindi gli unici che potrebbero rimanere sono i genitori, se non hai nemmeno quelli, di cosa stiamo parlando? Avrei voluto una famiglia presente, che mi avrebbe accompagnata in ospedale ad esempio. Sono andata sotto i ferri senza poter dire a nessuno dov’ero. Quando sono stata ricoverata mi hanno chiesto un numero telefonico da chiamare in caso di necessità: non sapevo quale numero poter lasciare.

Dopo l’anestesia, ho preso la borsa e me ne sono andata via da sola. Non ho avuto nemmeno la gioia di poter condividere con mia madre o mio padre quanto accaduto. Ma lasciare i figli in balia delle onde significa portarli anche a cadere in brutti giri. Per fortuna io sono riuscita a evitarli, ma c’è questa possibilità.

È vero, non mi hanno mai messo fuori dalla porta in ogni caso. E la loro stessa rigidità mi ha portata a non perdermi. Però ho fatto tutto questo percorso da sola, ho rischiato la vita, ho rischiato di entrare a contatto con la tossicodipendenza. Ma mi sono salvata».

Cosa intendi con rischiare la vita?

«Innanzitutto, facendo un intervento rischi la vita. Però, dove rischio di più, è il fatto di prostituirmi. Sono costretta a prostituirmi visto che ogni volta che mi presento per un colloquio di lavoro mi sbattono la porta in faccia. E in qualche modo devo pur mantenermi. Ora per vivere bisogna prostituirsi. Altrimenti cosa fai? Il mondo ti gira le spalle. Se proprio trovi un mezzo lavoro, ti bullizzano».

Cosa succede quando cerchi un lavoro? “Percepisci” di essere discriminata oppure è evidente?

Fino a qualche anno fa, quando avevo i documenti ancora al maschile, era ancora peggio. Ora invio il curriculum al femminile e non dico nulla, allora mi chiamano per il colloquio. Poi, dopo il colloquio, resto sempre al “ti facciamo sapere”. E non ti chiamano più. Non solo per un lavoro ma anche per una casa da affittare».

Quindi non riesci neppure a trovare una casa in affitto?

«No, per fortuna ho una casa mia. Almeno da quel punto di vista sono tranquilla. Però il lavoro niente, una trans non trova lavoro. E allora come devo fare per vivere? Anche se vivessi e fossi mantenuta dai miei genitori (nella peggiore delle ipotesi), non ti possono comunque mantenere a vita.

Insomma, non riuscire a trovare lavoro ti distrugge. E anche prostituirti ti distrugge. Così come avere una laurea, delle competenze, e venire scartata solo per essere transgender. Questo nel tempo ti distrugge. Lo stesso è il dover lavorare come prostituta con gli annunci: nel tempo ti distrugge.

Ho partecipato a un convegno a Bari, con Giuseppe Cruciani (giornalista di Radio24 ndr.), dal tema “la legalità della prostituzione”. Alcuni sostenevano di legalizzarla, altri no. Così mi alzai e presi la parola: “Io parlo perché mi prostituisco”, dissi al microfono davanti a tutti.

Io pago le tasse ma non è corretto – dissi nel mio intervento – Per poter pagare le tasse, tu Stato devi darmi la possibilità di scegliere. Ma se mi hai  negato il diritto al lavoro, perché devo pagare le tasse? Allora sono costretta a fare un lavoro in nero e ti devo pagare le tasse?”. E loro mi dissero che la prostituzione in Italia non è reato. È reato l’istigazione e il favoreggiamento.

Ecco, spesso si pensa che una trans allora sia mantenuta. Ma io non faccio una vita lussuosa, vivo del minimo indispensabile per vivere. Allora ci si nasconde dietro gli specchi. Il fatto che una persona possa guadagnare di più prostituendosi è un altro conto. Non è certo il motivo per cui lo si fa. Lo faccio perché la situazione mi ha costretto. Se guadagnassi pure “poco” allora sarebbe il danno oltre la beffa.

Quando li metti di fronte alla verità, allora ti chiedono se ti potrebbe andare bene vivere con 800euro al mese per 8 ore al giorno. È normale? E come potrei vivere da sola? È una filastrocca che si ripete costantemente».

Quindi ora vivi grazie alla prostituzione come escort?

«Sì, lavoro con annunci, da casa. E nel frattempo sto scrivendo un libro per raccontare la mia storia. In futuro vorrei aprirmi un mio piccolo negozio di vestiti. Questo perché mi piace molto il mondo della moda. Il mio percorso di studi l’ho seguito “obbligata” dai miei genitori. Poi, iniziando la transizione, ho pure abbandonato gli ambiti di mio interesse. Così ora mi piacerebbe mettere dei soldi da parte e aprirmi qualcosa di mio.

Visto che è difficile che mi assumano, meglio se cerco di aprire qualcosa di mio. E la stessa difficoltà la trovo per l’ambito degli affetti. Facendo la escort non posso nemmeno costituire una famiglia. Per lo Stato sono donna, quindi potrei sposarmi tranquillamente, potrei adottare bambini. Ma la mia condizione attuale non me lo permette. Facendo questo lavoro è impossibile. Ci sono stati uomini che mi hanno detto: “Non mi importa se sei una escort, puoi continuare a farlo lo stesso”. Quelli sono uomini che non ti vogliono bene, che non vogliono il tuo bene. Magari vogliono pure appoggiarsi a te, economicamente parlando.

Insomma, il quadro non è bello. E, torno a ribadire, avere un genitore dalla propria parte, al quale raccontare quello che sto raccontando a te, sarebbe la cosa più bella. Ma spesso non succede».

Nel tuo libro vuoi raccontare la tua storia?

«Sì, nel mio libro ci sarà una prima parte autobiografica, partendo da come mi sono riscoperta, da quando ho iniziato a capire chi ero. Voglio far capire come sia stata una cosa naturale. Non c’è stato un giorno preciso in cui l’ho capito, è sempre stato così dentro di me. E lo stesso è stato per i cambiamenti fisici che ho deciso di intraprendere. Li ho fatti e basta».

L’intervista continua sotto la foto

Alessia Nobile trans mtf Puglia

Non hai iniziato un percorso psicologico che affiancasse la tua transizione?

«Sì ma l’ho interrotto e poi l’ho ripreso per un anno. Questo è servito per diagnosticare la disforia di genere per avere poi il cambio anagrafico e l’eventuale intervento di riassegnazione».

Per quanto riguarda invece la prostituzione, hai paura?

«La paura c’è sempre. Una mia amica è stata persino uccisa. Devi sempre avere mille precauzioni.  Tanti ti chiedono di non usare il preservativo pagandoti di più. E chi ha bisogno di soldi rischia di accettare ma rischia anche la vita. Devi dire di no. Perché un rapporto non protetto potrebbe essere fatale.

Inoltre, la notte non ricevo, così elimino una certa categoria di persone. Questo mi fa da garanzia. La notte invece circolano con le droghe, così evito.

Pensa che la Costituzione lo ricorda dove si parla del valore della persona: “Nessun prezzo equivale al danno che subisci ogni volta che ti concedi”. Quindi mi puoi dare mari e monti ma il corpo umano ha un valore inestimabile e nessun compenso tappa il danno che subisci.

Ecco, ancora una volta: se avessi avuto il supporto psicologico dei miei genitori (non dico quello economico), mi sarei potuta dedicare anche ad altri aspetti della mia vita. Ma mi sono dovuta occupare da sola di ogni aspetto della transizione, ho affrontato tutto da sola e le mie energie erano investite tutte lì. Con un supporto familiare sarebbe stato tutto diverso. Avrei avuto tempo di seguire i miei sogni, invece ho trascurato tutto il resto».

Ti sei rivolta ad associazioni o enti?

«Mi sono rivolta al Comune. Sai cosa mi hanno detto? “Perché non te ne vai fuori dall’Italia?”. E perché dovrei? Questo è il mio Stato. Sarebbe opportuno realizzare anche progetti di inserimento per persone transessuali, come vengono effettuati per migranti o altre minoranze. Così avremmo modo anche di farci conoscere. Molti, non conoscendoci, giudicano per pregiudizio. Invece se il Comune, prima di tutto, ci inserisse, acquisiremmo credibilità anche agli occhi delle altre persone.

Insomma, la verità è che me ne andrei domani a Berlino ad abitare. O a Londra. Perché lì è tutto un altro mondo. Ma perché dovrei essere costretta io a emigrare perché tu (Stato o Comune) non vuoi sbloccarti? Perché nel momento in cui mi consigli di andare in un altro Stato, stai ammettendo di essere in un Italia sconfitta. Stai ammettendo la sconfitta.

Anche per questo sto pensando di dare vita ad una associazione esclusiva per persone transgender. Dovrebbe esserci più apertura, le istituzioni dovrebbero imporre questa apertura».

Mi hai detto che anche gli amici storici ti hanno voltato le spalle…

«Sì, li ho persi tutti. Come dico sempre, tutti gli amici che ho conosciuto dopo la transizione, sono quelli che contano. Quelli di prima mi hanno delusa. E per lo stesso motivo definisco i miei clienti “angeli”. Perché è anche grazie a loro che vado avanti. Molti di loro sono abituali, sono sposati, hanno figli e vengono da me con frequenza».

Invece secondo te all’Estero la situazione è differente? Mi dicevi di Berlino…

«Sì, quest’anno ci sono stata già 6 volte. Ci vado spesso. Lì è evidente l’indifferenza. In Puglia, in Italia, mi sento fissare di continuo, anche se di insulti o altro non ne ho mai subiti per fortuna. In Germania invece non mi guarda nessuno».

Cos’è per te la vita?

«La vita… me la voglio godere fino alla fine. È un tuffarsi in tante esperienze. Per come l’ho vissuta io, mi ha dato modo di capire tante cose. È un percorso di crescita infinito. Non arrivi mai alla fine, c’è sempre da imparare e da scoprire. E sto benissimo in questo percorso. Il motivo per il quale ho deciso di prostituirmi e di farlo è proprio per salvaguardare la vita.

Nel disagio, tante transgender hanno messo fine alla propria vita. Per me la vita è un dono e allora io la tutelo. Piuttosto faccio cose che non mi piacciono ma non mettendo a repentaglio la vita, perché è sacra. Insomma tutelo la mia vita, in base alla mia morale e ai miei principi».

Visto che parli di sacralità e di morale: sei credente?

«Sì, sono credente. In passato frequentavo la chiesa. Poi mi sono distaccata dal clero ma la mia fede è rimasta. Credo in Dio, non in chi lo rappresenta. Proprio per questo dico che è un dono e la salvaguardo. Ho però un padre spirituale, don Angelo Cassano, molto vicino alle tematiche degli ultimi.

E pensando sempre alla bellezza della vita, apprezzo il lato positivo della mia situazione: il lavoro che svolgo mi permette di girare sempre e alloggiare spesso in diverse città (Milano, Torino, Ravenna, Pescara…). Ecco, così scopro posti nuovi e incontro nuove persone».

Come fai ad organizzare appuntamenti in altre città?

«Mi appoggio a forum e siti online. Per stare online spendo più di 1.000euro al mese, sono registrata su almeno 4 siti. Li avviso dei miei spostamenti e loro indicano sul sito la città dove prevedo di andare. In alcuni forum ti possono mettere le recensioni, quindi ovviamente devi essere predisposta ad essere super attiva e super educata, altrimenti ti rovinano.

Ecco, in un lavoro “normale” avrei la metà delle spese: non pagherei siti, viaggi, trasferte. Sarebbe già una bella fetta di soldi da non spendere. E pensa che se devo comprarmi un televisore, non posso pagare con bonifico. Devo pagare in contanti. Non posso acquistare nulla se non in contanti.

Ho la macchina perché me l’ha comprata un cliente. Lavora in banca e ha deciso di comprarmela al mio posto, così per 3 anni mi sono concessa gratuitamente. Poi abbiamo pareggiato i conti e lui ha ripreso a pagarmi gli incontri.

Ecco, vedi quante problematiche in più rispetto ad un lavoro consueto. Per me la felicità è un’utopia. Ma la serenità si può raggiungere».

Cosa sarebbe per te la serenità?

«Sarebbe vivere come “tutti”. Per me non sono importanti i beni materiali, vorrei solo un lavoro “normale” e viaggiare. Vorrei vivere con poco, sono per il minimalismo. Anche perché, più hai, più devi faticare per mantenere quello standard. Invece la serenità per me sarebbe riuscire semplicemente a garantire il mio benessere fisico (perché quello psicologico, per fortuna, ce l’ho) e avere un compagno. Poi viaggiare quando si può. E basta. Questa è la serenità. Non chiedo altro. E attualmente questa serenità non ce l’ho».

Hai paura per il futuro?

«Ho sempre detto che non mi do per vinta. Ma se mi chiedi cosa vedo: vedo un tunnel e poi buio e vuoto. Ma so anche che ho sempre combattuto e che la vita mi potrà riservare occasioni improvvise e avere una svolta. Prima di tutto dovrò riuscire a non svolgere più questo lavoro, altrimenti non potrò avere l’amore.

Insomma mi chiedo: fino a quando potrò fare questo lavoro? Un giorno non riuscirò più. E poi ci sono anche le domeniche, quei giorni in cui non vengono i clienti e mi ritrovo sola. E quando tutti quei messaggi giornalieri non arriveranno più, quando la bellezza non ci sarà più, svanirà tutto. Perché io ora vivo di quello. È un discorso che devo affrontare e spero in una svolta. Non mi rassegno. Sono realista e consapevole della mia situazione».

Cosa vorresti che ti chiedessero e invece nessuno ti chiede mai?

«“Come stai?”. Ecco, tanti danno per scontato che va tutto bene. Perché “noi” siamo sempre allegre, siamo delle macchiette e lavoriamo e “possiamo permetterci tutto”. Ecco quel “come stai” non ci viene mai chiesto.

L’altra questione è che nessuno crede al fatto che io dipinga questo lavoro negativamente. Pensano che sia impossibile che non mi piaccia. Pensano che io stia bene perché sono una escort, perché “ti piace scopare”. Invece in quel momento non c’è piacere. Il rapporto diventa freddo e meccanico».

Insomma avere un rapporto non ti fa “schifo” ma insomma non lo fai con piacere?

«Diciamo che cerco di non riversare lo “schifo” verso un cliente. Se un cliente non mi piace, cerco di trasformare il mio “schifo” in sensibilità. Anche il peggiore, o il più “sporco” non lo tratto male. Cerco coccole e carezze. In modo delicato, al massimo, invito a darci una sciacquata “così siamo più freschi”…».

Devi mantenere la macchietta della persona allegra?

«Sì, una trans non viene presa sul serio. Visto questo, molti non pensano che tu possa avere competenze, un cuore e delle emozioni. Pensano che tu sia superficiale, poco raccomandabile e non in grado di leggere o comprendere».

La tua canzone preferita?

«Figli di Nessuno di Fabrizio Moro. Mi sono sempre ritrovata in tutte le sue canzoni, perché lui canta la realtà ma in Figli di Nessuno vedo la “mia” canzone. Lui dice che “siamo figli ma siamo stati lasciati allo sbaraglio”.

Ecco, avendo vissuto questa transizione come “figlia di nessuno”, mi sento così. E mi sento figlia di nessuno perché tante cose non posso raccontarle ai miei genitori. Sono stata lasciata al vento, allo sbaraglio. Ecco, per me tutte le “trans” nella mia stessa condizione sono “figlie di nessuno”».

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