Alidad Shiri: la non-scelta di essere via dalla pazza guerra

Afghanistan. Pakistan, Iran, Turchia, Grecia. Italia. L’odissea di Alidad Shiri spazia 6000 km ed è durata 4 anni e 6 mesi. Al contrario del re d’Itaca, però, e come gli altri 70 milioni di rifugiati nel mondo, il ventisettenne di Ghazni non ha scelto il viaggio come avventura fantastica, ma è stato costretto a lasciare il suo Paese. Dopo che i talebani gli avevano ucciso il padre, e la madre, la sorella e la nonna erano cadute vittima di un bombardamento, è scappato in Pakistan con la famiglia dello zio, e poi da solo verso l’Europa ad appena dieci anni.

«Una storia come tante», ha detto Alidad. «Non mi sono fermato perché non avevo altra scelta e volevo avere la possibilità di studiare.» E anche continuando a lavorare in nero la notte come faceva in Iran per pochi soldi, probabilmente non sarebbe riuscito a portare avanti la sua istruzione. Dalla Turchia alla Grecia si è poi affidato ai trafficanti, restando vittima di abusi e di esperienze traumatiche condivise con altre persone in fuga.

È arrivato in Italia dopo un viaggio di due giorni terribili, legato all’asse anteriore di un camion che transitava da Patrasso a Venezia; ma dal suo ingresso al centro per minori stranieri non accompagnati del Sud-Tirolo dove è stato subito accolto, Alidad ha davvero “cambiato le sue stelle”. Ha imparato la lingua, si è iscritto a scuola, è andato a vivere a 18 anni con la famiglia del direttore del centro, e con l’aiuto di insegnanti e amici è riuscito, faticosamente ma inesorabilmente, a inserirsi nella nuova comunità e nel nuovo Paese, con una resilienza invidiabile. Insieme alla sua professoressa Gina Abbati, ha perfino scritto un libro autobiografico già tradotto in diverse lingue, Via Dalla Pazza Guerra (Il Margine, 2007).

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Oggi racconta con generosità questa sua storia nelle scuole e associazioni di tutta Italia dove viene invitato, o durante gli incontri di sensibilizzazione promossi da UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), con cui collabora, e alla cui raccolta narrativa illustrata Anche Superman Era Un Rifugiato (Piemme, 2018) ha contribuito un capitolo; è inoltre laureando in filosofia politica a Trento e scrive per due giornali locali.

Abbiamo voluto intervistarlo in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, durante la quale aderiamo alla campagna #WithRefugees di UNHCR. Come noterete, le nostre domande sono state veicolate da una scelta precisa: nel rispetto del suo vissuto, abbiamo cercato di chiamare in appello la dimensione positiva, ottimista, rivolta alla speranza, di cui il suo messaggio ci pareva essere impregnato.

Ringraziamo Alidad del tempo prezioso che ha voluto dedicarci, pur tra i mille impegni, e della gentilezza innata nel regalare una parte di sé.

Che cosa rappresentava l’Italia per te quando sei partito più di 15 anni fa, e che cosa rappresenta ora?

Quando sono partito non sapevo niente dell’Italia e ci sono arrivato pensando che fosse una via di passaggio. Ora invece è quasi il mio Paese, dove mi sono formato, che ho percorso il lungo e in largo, invitato da tante scuole, associazioni, realtà sociali, che mi hanno fatto conoscere realtà molto diverse.

Quali progressi pensi abbia fatto il Paese in termini di apertura all’ “altro da sé”?

Rispetto al mio arrivo, ormai 15 anni fa, ho conosciuto molte realtà di apertura, però riconosco che nell’ultimo periodo sta prevalendo una mentalità di chiusura e paura, questo per una manipolazione delle persone, da parte di certi politici che si sentono leader.

Avresti suggerimenti per la gestione dei corridori umanitari e dei flussi migratori via mare? Ne avresti, invece, per le persone che hanno deciso di intraprendere il tuo stesso viaggio?

Penso che i corridoi umanitari debbano essere aumentati per salvare vite umane e per togliere i guadagni ai trafficanti. Nel mondo ci sono tanti conflitti e persecuzioni da cui la gente cerca comunque di scappare. Fa parte della nostra natura cercare di salvarci la vita. È sempre più difficile cercare di intraprendere un viaggio come ho fatto io, attraversando tanti Paesi, perché ci sono blocchi più rigidi, soprattutto in Turchia e in Grecia e anche in Italia. Faccio fatica in questa situazione a dare suggerimenti. La situazione è sempre più drammatica e tante persone si trovano bloccate in Turchia, in Grecia, in Libia in condizioni assolutamente disumane, oggetto di violenze inimmaginabili che hanno denunciato più volte l’UNHCR e diverse ONG.

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Ci sono state tappe del tuo cammino dall’Afghanistan a Bressanone che ricordi almeno un poco infuse di speranza e positività?

Sì, ho avuto momenti che mi hanno fatto sperare nell’Umanità, come l’incontro con persone sensibili, che ho raccontato nel mio libro, quali il macellaio in Afghanistan, al confine con l’Iran, e il pastore, sulle montagne tra l’Iran e la Turchia; anche i poliziotti in Turchia che mi hanno aiutato, vedendo in me una persona bisognosa di soccorso e non un nemico da picchiare e rispedire.

Quale sarebbe la tua risposta, che probabilmente ti è già capitato di dare, a chi, non conoscendo o volutamente ignorando i numeri di una crisi reale (cfr. Libano), accusa i migranti e i richiedenti asilo di “invasione” e “pacchia”?

È facile giudicare dall’esterno per chi non ha visto la guerra e le sue crudeltà, come corpi smembrati lunghe le strade, o le salme dei tuoi cari riportati in un sacco a casa e il dolore e l’insicurezza continua nella vita di ogni giorno. È inimmaginabile per tanta gente qui la vita in un Paese dove è vietato sorridere, ascoltare musica, guardare la tv o andare a vedere una partita, perché lo stadio è diventato luogo dove si eseguono le condanne a morte. È inimmaginabile qui pensare che corri pericolo di morte anche solo andando a scuola. Chi usa quelle parole e proposito di richiedenti asilo vuole rimanere cieco. L’85% di coloro che scappano dalle guerre si rifugiano nei paesi confinanti fuori l’Occidente. Riflettiamo anche su un dato che dovrebbe sconvolgerci: il 53% dei 70.8 milioni (rifugiati, apolidi, sfollati interni) sono minori. Pensiamo ai nostri figli quando pronunciamo giudizi così superficiali.

Oltre alla professoressa Gina Abbate, chi è stato per te in Italia maestro, nell’accoglienza e/o nel percorso di integrazione e poi accademico? Che valore ha per te l’amicizia, e a chi ti senti di dire grazie?

Tante persone mi hanno sostenuto e hanno collaborato come catena nel mio percorso di inclusione. Non mi è possibile nominarle tutte perché mi ci vorrebbe più di una pagina. L’amicizia per me è fondamentale e la sento come una grande forza per andare avanti. Mi sento di dire grazie a tutte le persone che ho conosciuto, sia a quelle che mi hanno sostenuto sia a quelle che mi hanno criticato, perché tutti mi hanno aiutato a crescere.

Ci racconti il tuo lavoro insieme a UNHCR e l’idea dietro ad Anche Superman Era Un Rifugiato, che stai aiutando a promuovere?

Insieme all’UNHCR il mio è un lavoro di collaborazione per progetti di sensibilizzazione. Il libro Anche Superman Era Un Rifugiato, a cui ho collaborato con un capitolo e che contribuisco a promuovere, ha dietro l’idea fondamentale di tendere a una società più umana, raccontando storie di rifugiati di oggi, che sono persone, e di ieri, che gli studenti conoscono anche attraverso la mitologia.

Via dalla Pazza guerra, il tuo libro autobiografico, ha un titolo geniale probabilmente ispirato al classico di Thomas Hardy Via dalla Pazza Folla. Senza tentare paragoni ingenui tra un romanzo e la tua esperienza, come mai hai/avete scelto questo titolo? Ti ritrovi nella “fine” di questo “viaggio di formazione”?

Anzitutto il libro è alla tredicesima edizione, probabilmente uscirà con un Editore nuovo. Il titolo rispecchia il senso di quello che è il mio lungo percorso. Ovviamente l’ha scelto l’Editore, come in genere succede, ma rispecchia il mio racconto. Il mio viaggio continua, sperando in nuovi traguardi.

Chi o che cosa, se l’hai già trovata, è la tua Itaca?

La mia Itaca sono i Paesi bisognosi nel mondo, dove uomini, donne, bambini aspettano la realizzazione dei diritti umani fondamentali che possano rendere la loro vita dignitosa.

Come concludiamo ogni intervista, qual è la tua canzone preferita o la canzone che associ all’Italia?

La mia canzone preferita, che ovviamente non associo solo all’Italia, è Non Mi Avete Fatto Niente di Meta e Moro. Perché parla dell’assurdità della guerra che però non riesce a distruggere tutto.

Alidad è fuggito dalla “bocca dello squalo”, così vividamente descritta nella celebre poesia di Warsan Shire. Dice spesso, però, che il suo sogno sia tornarci da giornalista: forse per restituire un po’ di quella che lui descrive come la sua “fortuna”, o forse sperando che squalo, presto, la sua Terra non sia più. Il viaggio completo di un altro Ulisse.

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