Amal e la fame dello Yemen. L’importanza del reportage senza filtri

Si chiamava Amal e aveva solo 7 anni. È morta di fame in Yemen, in un campo profughi. E come spesso accade, grazie a un crudo scatto fotografico, ora finalmente la situazione dello Stato all’estremità della penisola Araba è sotto gli occhi di tutti.

Di ciò che stesse avvenendo in Yemen ne avevamo già parlato lo scorso anno, sempre grazie alla sensibilità di un fotografo, Igor Dobrowolski. L‘artista polacco, con i suoi scatti provocatori, aveva paragonato il Natale dei bimbi in Yemen con quello di qualsivoglia paese ricco. Puoi vedere i suoi lavoro qui.

In Yemen, si diceva, muore un bambino ogni 10 minuti, secondo quanto riportato da Unicef. Nel corso del conflitto – come dichiarato da Amnesty International – fino al 2017 sono stati 4.600 i civili uccisi durante il conflitto in corso, oltre 8mila i feriti. I bambini che hanno perso la vita, invece, erano già 1.200. Oggi la situazione è peggiorata. secondo le Nazioni Unite, la guerra in corso ha ridotto alla fame circa 1,8 milioni di bambini, di cui 400mila sono considerati gravemente malati. Possiamo infatti parlare ormai della più grave crisi umanitaria degli ultimi anni.

Così Amal Hussain, la piccola yemenita immortalata il 26 ottobre dal premio Pulitzer Tyler Hicks e raccontata dal giornalista Declan Walsh (New York Times), oggi è il simbolo di tutti i bimbi che, come lei, hanno visto la loro vita rubata a causa, ancora una volta, della civiltà dei poteri forti sui deboli. In Yemen è infatti in corso un conflitto tra Arabia Saudita e Iran e rispettivi alleati, tra i quali, ça va sans dire, anche la civile Europa. La guerra si combatte da marzo 2015, ad essere in conflitto tra loro sono la fazione dell’ex presidente yemenita Abdel Rabbo Mansour Hadi, appoggiato dall’Arabia Saudita, e i ribelli houthi, appoggiati dall’Iran. Secondo i dati dell’ONU, gli yemeniti che oggi dipendono dagli aiuti internazionali sono 8 milioni, ma potrebbero diventare velocemente 14 milioni, ovvero circa metà della popolazione del paese.

Riprendendo le dichiarazioni di Amnesty International, inoltre, Stati Uniti, Francia, Spagna, Canada e Turchia hanno trasferito circa 5,9milioni di dollari per l’approvvigionamento di armamenti all’Arabia Saudita tra il 2015 e il 2016. Sono stati così acquistati droni, bombe, missili, proiettili esplosivi e razzi “per essere usati per facilitare gravi violazioni nello Yemen”.

Sulla sua morte si è espresso anche Sebastiano Nino Fezza, il cinereporter Rai che abbiamo intervistato qualche settimana fa e che dedica la sua professione alla difesa dei bambini. «Usiamo spesso la frase “stiamo morendo di fame” – ha scritto sulla sua pagina Facebook – noi confondiamo la fame con l’appetito. La vera fame è quella che ha rubato la vita Amal».

Lo stesso Fezza, nella sua intervista ci ha aiutato a capire il valore delle immagini cruente, di fronte a chi lamenta la presunta mancanza di sensibilità del giornalismo: «Ormai la gente confonde la fiction con la realtà. Allora devi dare segnali forti se vuoi essere visibile e attirare l’attenzione, perché lo scopo è quello. In Italia abbiamo una politica e un giornalismo molto provinciale. Ci occupiamo solo di politica nazionale. Ci vogliono mille morti per dire che è successo qualcosa in Siria, ad esempio. Quindi bisogna in qualche maniera dire alla gente: “Guardate che la vita è molto più dura di quella che immaginiamo noi”. La vita non è un film, la vita è fatta di colore, di strazio».

La vicenda di Amal ci sbatte quindi in faccia, oggi più che mai, l’importanza del reportage, senza peli sulla lingua o condimenti. È importante parlare, condividere, mostrare, affinché non dimentichiamo – ma ricordiamo – di essere tutti esseri umani, sullo stesso pianeta. Alcuni di noi, però, pare abbiano più diritto a vivere di altri. Andiamo oltre, e torniamo tutti sullo stesso piano, quello della dignità della vita.

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