Anatomia di un vile e lo sbaglio del “noi”

Il vile non ha nazionalità.

La parola “vile” – che dipinge Amedeo Mancini – la scova, incastrata in un mattino afoso, il mio più caro amico che mi guarda con occhi di brace al pensiero che infiamma entrambi.

Lo sa bene quella ragazza che si sentì dire “Italiana di merda, fatti far male, troia, meriti solo questo, voglio sentire come si grida aiuto in italiano” da un irlandese dalle svastiche tatuate.

La stupì quasi prima dello spavento, perché non aveva mai pensato che, nella sua vita, sarebbe stata vittima di quel razzismo nazionalistico tanto popolare a casa sua.

Quante volte si sente dire “tornatene a casa tua”, in Italia?

Ecco, quel giorno le carte in tavola si rivoltarono e un’italiana si sentì dire la stessa identica frase, come se coi suoi passi stesse in qualche modo sporcando il terreno irlandese senza averne diritto.

La sabbia del mare circola per baciare mille spiagge, ma noi non siamo sabbia; tanti “noi siamo”, sono scogli ancorati nel magma di un mondo indemoniato.

Mondo che, per qualche contorsione cerebrale, ci mette l’uno contro l’altro come se nelle nostre vene non scorresse sangue biologicamente fatto delle stesse sostanze.

C’è uno sbaglio profondo in tutto questo ed è lo sbaglio del “noi”.

Non è “l’irlandese”, o “l’italiano”, o “l’arabo”: non è la terra a descrivere chi la abita. Colui che si macchia di crimine efferato è apolide, rifiuto della concezione stessa di nazione.

Colui che commette un omicidio ha un nome di battesimo e solo con quello si può dargli un colore che lo descriva. Da dove venga, dove sia cresciuto o quale emisfero abbia visto la sua nascita, sono scatole vuote di nessuna importanza.

Essere orgogliosi del proprio Paese è un sentimento alto e giusto, ma vale solo se si fa qualcosa per rendere il Paese bello, quale lo si dipinge. Il fatto di abitarlo non è abbastanza per farne vessillo di grandezza personale.

Penso ad Emmanuel ed a sua moglie Chinyery ed ancora sento le parole del mio amico: “un vile”, colui che lo ha ucciso per una motivazione che mi vergogno anche ad concepire come tale.

L’offesa razziale nel 2016: quando il mondo gira e noi lo giriamo scoprendone sfaccettature dalle mille sfumature diverse. Le presunte giustificazioni per uno squilibrato che meriterebbe solo la comprensione del male che ha diffuso attorno a sé, perché ne verrebbe annegato.

Oggi ancora l’eco di quelle parole risuona a lutto nelle orecchie della ragazza italiana, stuprata da chi, desiderando la luna e non potendola avere, è disposto a distruggerla.

L’invidia rade al suolo ogni traccia di umanità.

Che ci si pensi, la prossima volta che ci sorprendiamo a pensare “no, non sono razzista, MA…”.

(Arrivi a Chinyery il mio silenzioso abbraccio).

Foto: © Creative Commons – Flickr: Riccardo Cuppini – Zen

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