Arrivederci, amici miei! – ovvero, tutto ciò che ho imparato dal Senegal

Silenzio.

Cosmico è il silenzio che scorre stanotte tra gli anfratti oscuri, le saracinesche abbassate, i muri scrostati e gli ingressi legnosi che sembrano fatti di vento, pronti a svanire al primo sbatter di ciglia. È dicembre e così appare Dakar nella notte. Lunare è lo spazio, le strade come lunghe superfici di polverosa terra ed asfalto, deserto notturno ed immobile privo di suoni. Poi, d’improvviso, uno sferragliare di serrande, uno stridere di vetri e sabbiosi passi di uomini come ombre allungate che ora siedono immobili davanti ai loro negozi vuoti. Sono quasi le cinque.

Quando riapro gli occhi, nulla è rimasto dello spaziale universo notturno: tutto è luce, incredibile luce, che si irradia dai sacchi di riso, dai banconi disordinatamente ricolmi, dai disegni semplificati di polli e di tori sulla porta spalancata di un macellaio. Vi ci vendono cose, miriadi di cose: reti di cipolle, baguette incartate, lattine, caramelle, bagnoschiuma, merendine, deodoranti e chiodi. Le serrande ricoperte di pubblicità recitano ‘Caffé Kangoo’, ‘cibo senegalese 100%’, e così fanno tanti altri cartelli, sbiaditi e grattati. Una donna giovane cammina lenta lungo la strada con passi strisciati – i capelli fasciati stretti, le labbra chiuse. Poi si ferma e parla con la voce forte dell’Africa.

Chiudo la finestra della stanza e le narici mi si riempiono del soffice aroma della colazione al mattino. Ha il suono del pane croccante, l’asprezza della marmellata di lime e il sorriso lento di tre donne vestite a colori. Hanno gambe tenaci, mani laboriose e lo sguardo limpido di chi non teme il tempo che scorre.

Piedi.

Allungati e magri, polverosi piedi che ciabattano nella terra sabbiosa e fine di Malikounda. Poi le ciabatte si arruffano, rotolano, si fermano, dimenticate davanti alla porta di scuola. Le pareti intonacate di ocra, la lavagna nera bucata e graffiata da parole e disegni, una mappa grande dell’Africa e banchi a rettangolo in legno chiaro, sporchi di inchiostro e di tempera. I bambini de ‘La Maison des énfants‘ studiano qui sui loro quaderni magri di pagine, tracciando tremolanti panciuti alfabeti, come tutti i bambini del mondo. Ma è ora di pranzo e quindi si corre ad una stanzetta ombrosa: nelle loro piccole ciotole senza posate i bambini mangiano voraci del riso e del pollo.

Qualche volta, a scuola, si fa anche la doccia, in uno stretto vano umido di cemento bagnato. Damba, il responsabile del centro, ci mostra le riserve di quaderni, di penne e matite ancora incartate: “Vengono spediti dall’Europa o lasciati dai viaggiatori come voi”. Ci spiega che centocinquanta bambini si recano qui a turno, due o tre volte a settimana, perché il centro non è abbastanza grande per ospitarli tutti insieme. Damba è giovane ma ha gli occhi ben spalancati. Mentre racconta, vede chiaro tutto quello che manca. Ha i modi gentili di un maestro buono, il sorriso grande e bianchissimo di chi vorrebbe fare più dell’immenso.

I bambini saltellano, ridono, corrono, vogliono indossare i nostri occhiali da sole, giocare a pallone, scattare fotografie. Si abbracciano, si tirano, si sovrappongono, sono libellule dalle gambe sottili, scrivono con un pennarello il loro nome sulla nostra pelle. C’è un bambino che non si arruffa, non grida, ci segue a passi ovattati e ci mostra la sua matita, orgoglioso. Indossa una maglia arancione dalle maniche lunghe e ciabatte troppo grandi per i suoi piedi. Ha il sorriso splendido dei bambini ma lo sguardo d’acqua di chi sta provando a essere felice.

Conchiglie.

Migliaia di conchiglie bianche scricchiolano sotto i nostri piedi che camminano per le vie di Fadiouth. Sono piuttosto grandi e robuste, un enorme tappeto di gusci riversatisi nei secoli dal mare e pazientemente raccolti dagli abitanti. Per arrivare a Fadiouth si attraversa un lungo ponte di legno, unico collegamento con la città di Joal. Le conchiglie sono ovunque: per terra, tra gli alberi, nei muri delle case. Porcellini piccoli e grassottelli gironzolano per le strette vie della cittadina, singolari custodi dell’isola.

Il cimitero di Fadiouth emerge dalla bassa marea come luce riflessa dalle sue tombe bianche di conchiglia. Qui riposano insieme cristiani e musulmani all’ombra dei grandi baobab che si allungano verso il cielo. Nella chiesa di Fadiouth anche le acquasantiere hanno forma di conchiglia. Tra le travi del soffitto, alcuni uccellini hanno costruito un nido e l’intera chiesa risuona allegrissima del loro canto.

Le incisioni della Via Crucis sono in francese e in lingua wolof, le panche sono lunghe e semplici e un presepe è illuminato davanti all’altare. Lì davanti, un gruppo di bambini piccoli: i loro capelli sono biondi o scurissimi, la loro pelle è bianca o nera, sono inginocchiati, le manine giunte, gli occhi estatici davanti alle lucine della capanna. Ora più che mai ricordo che il mondo, se vissuto insieme, è un luogo bellissimo.

Camminando sulle conchigli, Joal Fadiouth, Senegal
Camminando sulle conchigli, Joal Fadiouth, Senegal

Brace.

Ousmane muove la brace con le dita. Sembra uno stregone per la tunica scura che indossa quando sposta veloce e sicuro i bicchierini del tè, sminuzza la menta, scioglie lo zucchero. Ousmane è di Mbour, lo abbiamo conosciuto al tramonto sulla spiaggia, insieme a suo nipote Alain. Avevano promesso di tornare con lo zio Adam e li sentiamo arrivare camminando sulla sabbia asciutta – le loro mani grandi che picchiano i tamburi e separano i rami per accendere un fuoco. Sono gentili, parlano in francese e sono belli, di quella bellezza che si vede anche al buio. Nessuno ha chiesto loro di tornare, di regalarci il loro tempo attorno al fuoco, di raccontarci di loro e di sapere di noi. Noi e Loro, Loro e Noi, con i piedi sepolti nella sabbia, abbracciati sotto una coperta.

Il sole di Mbour è già tramontato da un pezzo quando assaporo il primo sorso di tè ataya alla menta. È buio, i volti si fanno sfocati dal baluginare del fuoco, il corpo stanco è avvolto da una coltre di sabbia, il mare è dolcissimo stasera. È rosa, rosso, viola, poi è nero, come la notte stellata sopra di noi, come la pelle delle mani di Ousmane, come le pesanti coperte che ci riscaldano. Questa notte dormiremo pieni di quella che, qui in Senegal, chiamano tutti Teranga, che è gioiosa accoglienza e generosa amicizia, di cui tanto avevo sentito parlare.

Mani.

Piccolissime mani che salutano già da lontano sul bordo della balaustra, grandi mani che si allungano per aiutarci a scendere dalla traballante piroga e poi ancora mani, piccolissime mani, che si aggrappano a un braccio, a un lembo di camicia perché bisogna stare insieme per camminare davvero. Il villaggio di Djogan sul fiume Saloum è un campo di fiori parlanti: i bambini sono tanti, splendenti nei loro coloratissimi abiti e, quando ci prendono per mano, hanno già scelto di fidarsi di noi. Sorridono con ogni sorriso possibile, grati, soavi, ridenti. Si appendono ai rami, alle punte delle barche, si siedono – gambe a penzoloni – sul pontile. Conoscono le pose migliori per le fotografie, ci accarezzano i capelli, ci ascoltano parlare, ci vogliono vedere ridere. Hanno abiti un po’ larghi, le dita dei piedi scappano sempre dalle loro ciabatte.

I capelli delle bambine sono trucioli neri pieni di perline o fiocchetti. Ci raccontano tutto: “quella è la mia casa”, “lei è mia cugina”, “noi siamo sorelle”, “là vive mia zia”. Donnine tenaci, entusiaste di tutto, dalle parole ingarbugliate di francese e wolof e, se non ci si capisce nulla, non importa, ché alla fine si ride lo stesso. Le donne anziane e giovani sono sedute vicino al molo con lo sguardo basso: i loro foulard sono splendidi come pietre preziose dai mille colori. I loro mariti e padri, invece, sono distesi all’ombra degli alberi, hanno braccia lunghe e caviglie sottili, i movimenti lenti e la fronte corrugata dal sole. Senegal, arcobaleno di uomini.

Assi.

Calpestare di assi di legno chiaro sotto i tonfi dei passi che si arrampicano su piroghe gracchianti e stanche. Djiffer è un pianeta che odora di crostacei sgusciati, che suona stridente davanti ai nostri occhi attoniti. Cher, il nostro autista, un gigante silenzioso, cammina davanti a noi e guarda spesso indietro per controllare che nessuno si allontani. Ci sprona a camminare più in fretta quando i raggi del sole già scompaiono lenti dietro a quel piatto orizzonte: dopo il tramonto non è più sicuro qui. Cammino con l’incedere leggero delle visioni e scorgo piroghe arenate e vuote su cui stanno accucciati crocchi di ragazzi dalle gambe lunghe e dagli sguardi attenti. Ci scrutano, a volte ridono, sgomenti, di quella strana diversità che ora sento pesarmi addosso come un macigno.

Ci sono uomini dagli sguardi severi che si passano casse di pesce, ci sono donne che puliscono ostriche con le mani piene di calli e di graffi e il cuore, forse anche quello, ché i guanti di stoffa non le proteggono più. Sono pescatori nomadi che vivono cinque mesi all’anno in questo accartocciarsi di casupole cartonate e instabili, in questa baraonda di uomini e di scarti di pesce, ammassi di vite sempre uguali, scandite dalle stagioni, da un destino che sembra essere l’unico possibile tra le piroghe tirate a riva di Djiffer.

Le abitazioni sono scatolette sporche e lì si cucina, si mangia, si dorme, si vende, si gioca in una fanghiglia melmosa e rancida. Forse ci vuole questo odore nelle narici, la diffidenza di sguardi graffianti, l’apatia della noncuranza delle cose e lo scorrere insano del tempo. Ci vuole forse questo per comprendere quanto le vite degli uomini possano essere drammaticamente diverse, in uno o in un altro luogo del mondo? Se fossi un neonato portato in un fagotto sulla schiena di una pulitrice di ostriche a Djiffer, quanto sarebbe stata differente la mia vita intera? Come avrei potuto diventare me stessa?

Oasi.

Oasi di silenzioso vento, di arbusti di sabbia, oasi per l’anima che si era mescolata a tutti quei volti, a quell’umanità fiera dall’incedere lento e dalle figure esili. Siamo noi, siamo solo noi e lo spazio che abbiamo davanti: un orizzonte per rivedere ogni viso, per ridisegnare ogni immagine di questo Senegal, inimmaginabile Senegal, che stiamo poco alla volta imparando a conoscere. Lampoul è un deserto vivo, di notte emergono tutti i suoi fantasmi danzanti intorno ai fuochi, si sentono le loro risate tra lo scoppiettare dei ciocchi di legno, dopo ogni tonfo di tamburo. Qualcuno canta, ed è un canto di gioia, senza freni si volteggia, si pestano i piedi, si frullano le mani nell’aria blu di cenere e stelle.

Ibrahima lavora da anni al campo tendato di Lampoul. “Non sopporto chi ancora oggi sta a guardare il colore della pelle. Siamo tutti uguali, siamo tutti uomini”, mi dice, la sua voce è triste. Fa male sentire quelle parole da un ragazzo che vive tutte le sue giornate con gente che arriva da un altrove. Poi però il suo buio finisce e Ibrahima riprende a cantare.

Balliamo insieme, qualcuno ci guarda divertito, altri parlano con parole scaldate dal fuoco. Solo allora indossiamo di nuovo le scarpe, anche la sabbia trema nella notte. Questa sera nel deserto di Lampoul ci sono una luna rotonda e le mie mani che smuovono la sabbia come granelli di zucchero. Ci siamo noi, seduti sul tramonto rosso, con le braccia intrecciate dietro la schiena e palpebre chiuse al vento come chi si sente invincibile.

Polvere.

Polvere come braccia che si sollevano, leggera come i corpi dei lottatori velati di sabbia. Ecco che questi non sono più uomini ma tigri, leoni, rinoceronti, serpenti. Sono belve selvagge e superbe: ogni passo è una carica, ogni sguardo una lama di coltello. La lotta senegalese è un incanto: gli avversari si prendono le mani – testa contro testa, durezza di sguardi – e non siamo più in un cerchio di sabbia circondato da seggiole bianche, siamo all’inizio del mondo, belve che combattono per valore e vanità – “non sarò io il primo a desistere”.

Nella casa della signora Mariane ci sono tantissime donne: c’è lei, la seconda moglie di suo marito, sua figlia, la figlia della seconda moglie, la moglie di suo figlio, e tante altre donne, incantevoli nei loro turbanti africani che pazientemente legano stretti anche a noi. Siamo benvenute e accolte come figlie rimaste a lungo lontane. Mariane vende verdura al mercato di Sokone, si sveglia prestissimo ogni mattina per andarci. “Le travail est un trésor”, il lavoro è un tesoro, ci dice, ma oggi non ha fretta perché siamo sue ospiti e non ci lascia sole. Mangiamo insieme, da un unico piatto grandissimo, pane come posate.

All’arrivo a Sokone il comitato di accoglienza del villaggio aveva cantato per noi, seduti in un cerchio, una splendida canzone: popoli diversi e amici, incontri attraverso i sensi, preziosità della pace tra culture del mondo. Mi accorgo davanti ad un piatto di carne consumato a terra che attraverso Mariane e quelle splendide donne che sto imparando a guardare me stessa.

Spazi.

Spazi disordinati, di una vacuità piena, assemblaggio di uomini e oggetti fuoriusciti dal tempo. Saint Louis è una città immaginata dove aleggia prepotente il passato nella decadenza che c’è, tra eleganza ostentata di un tempo e precipitare di cose. L’Hôtel de la Poste è uno spaccato di vita coloniale, impossibile non immaginarvi aviatori postali stanchi, addormentati sui suoi letti laccati, fumi di sigari e sacchi di lettere.

Alla foce del fiume Senegal, la Saint Louis coloniale risorge nelle facciate sfumate di bianco o di ocra, nei balconi in ferro battuto: larghi viali alberati deserti, le cancellate serrate di una scuola per ragazze mulatte, le panchine imbiancate sotto alberi dalle larghe foglie, il frusciare leggero dell’acqua, la sottile nebbia intoccabile che avvolge i luoghi fermi nel tempo.

Il nostro calesse procede lento, un viaggio in discesa verso il quartiere di Guet N Dar, il mercato dei pescatori. Ancora una volta, si rompe quell’immobilità a noi così cara, si squarcia il velo che ci rende immuni da quel Senegal che abbiamo voluto fortemente toccare: è di nuovo baccano, subbuglio di uomini e cose, piroghe arenate, fluorescenti reti attorcigliate per strada, giocare di bambini, brucare di animali senza padrone, rotolare di pneumatici, incedere di donne dagli stretti vestiti sgargianti, sbiadirsi di uomini silenziosi sulla porta di casa.

Disteso su una montagna di spazzatura, un ragazzo legge un libro di favole a dei bambini. Ovunque è l’odore acre del pesce, pungente della spazzatura che si ammassa, rotola, si guasta dentro ad un tremendo andirivieni umano che è insana bellezza, delirante splendore. E noi, spettatori ammaliati da quell’incomoda vita che sgocciola ovunque – sulle nostre mani pulite, sulle nostre scarpe allacciate – travolti da un’illogica voglia di non essere più solo noi stessi; scardinati da quel vorticoso mondo mescolato e bellissimo di scarti e di genti.

Con il calesse, sfioriamo la caserma di addestramento per i cecchini della Seconda Guerra Mondiale, desolata. Vediamo un teatro, un officio postale, un circolo. Tutto pare dismesso, cascante, eppure, a qualche ora del giorno, è pieno di vita, di quella vita ammucchiata e scomposta, fatta di colori, sorrisi e parole parlate forte. La cena stasera è Chez Dasso, un ristorante-cucina dove preparano per noi i piatti senegalesi che conosciamo ormai così bene: profumano di zenzero, di lime e di casa. A tarda sera, rientrando a piedi, Saint Louis è ancora più quieta. Non abbiamo mai paura, il nostro Cher è con noi, gigante silenzioso nella notte.

Strisce.

Brulicante è la spiaggia di Kayar, decine e decine di piroghe sono lì pronte a partire o a tornare. Miscuglio di voci e di oggetti, di mani frenetiche che si passano reti, pesci pescati, casse stracolme. Trasportatori pagati, col loro copricapo a cuscino, sorreggono le pesanti casse, dalle barche rientrate alla spiaggia e da lì al mercato. Polvere di legno raschiato dai costruttori di piroghe che sfregano assi, pitturano fianchi. “Più belli sono i colori, più fortunata sarà la piroga”, ci spiega Bamba, la nostra guida: “In lingua wolof, la piroga si chiama galSene-gal significa ‘la nostra piroga’”.

Poco lontano, odore mordace di sale: il pescato è immerso per giorni in un liquido salino e poi essiccato al sole su grandi pedane quadrangolari. Piccole nuvole di fumo ci conducono alla zona di affumicatura con cumuli di cenere aperti o versati in strutture tonde provviste di griglia.

Kayar è acquarello di strisce: l’azzurro del cielo – vastissimo, largo – la spuma bianca del mare agitato, il blu accecante dei flutti arricciati, la striscia decisa delle onde spiegate, il grigio-specchio della riva, il giallo della sabbia bagnata. E poi, altre strisce, incredibili strisce di genti che camminano verso il mare coi loro abiti sgargianti, i loro foulard annodati. Ogni creatura è una striscia che si dipinge fortissima sulla sabbia rigonfia, è un’ombra di tinte tracciate rapide e intense. Umanità disegnata dal vento che soffia forte lungo l’oceano.

Catene.

Un battello pieno di gente ci porta a Île de Gorée. È verdeggiante, rigogliosa, allegrissima e piena di fiori dove un tempo strisciavano solo catene. Il Museo della Schiavitù è graffiante: stanze piccole e vuote, mute, enigmatiche, e una porticina aperta sul mare. Senza Ibrahim, la nostra guida, sarebbe impossibile comprendere.

Dal XV secolo Gorée fu punto strategico per la tratta di schiavi africani verso l’America del Nord e il Brasile. Quelle stanze vuote, un tempo, erano piene di voci: la stanza delle donne giovani, fruibile oggetto dei colonizzatori, la stanza degli uomini di scarso peso, nutriti per diventare schiavi al di là dell’oceano, la stanza delle donne anziane, cuoche e cameriere, e la stanza dei bambini, addestrati al lavoro. Davanti al museo, una statua rappresenta un disperato abbraccio tirato verso il cielo – i polsi ancora asserviti a pesanti catene, il viso tirato in un grido.

Dall’altra parte del mare, a Dakar, un’altra statua svetta su un promontorio gradinato. É una statua di uomo dalle braccia alte e rigonfie di forza, le gambe come colonne di marmo incastrate nella roccia castana. Tiene in braccio un bambino accucciato che indica lontano. Una donna di pietra lo guarda, quasi sospinta all’indietro dal vento contrario, il braccio destro teso a fendere l’aria, come aspettasse qualcuno.

Da qui, dall’alto del Monumento del Rinascimento Africano, Dakar è un’assemblea di costruzioni color terra: ce ne sono di chiare, di scure e di quasi bianche. Ovunque si scorgono mondi interrotti, edifici-fantasma. Il vecchi aeroporto attraversa la città, indisponente, mentre tutto il centro moderno è sfavillante di luci di Natale a intermittenza: pare quasi di essere altrove.

Scocca mezzanotte, è il nuovo anno. Penso che mai prima di questo viaggio sono stata capace di incontrare qualcuno con lo stesso timoroso fervore, la stessa disarmante meraviglia. Ho ben due orecchie e una sola bocca, forse che sia un segno, che io debba ascoltare il doppio delle parole che dico? Ascoltare… sorseggio dal mio bicchiere mentre ticchettano su qualche orologio i minuti dell’anno-neonato.

Un viaggio come una vita: ho sentito il frullare di ali dei cormorani e il gracchiare affamato dei pellicani neri nel parco di Djouj; il trottare dei cavalli e lo schiacciare di ghiaia dei carri al confine con la Mauritania: alle briglie, uomini dai visi magri e i nasi sottili, occhi appuntiti, pelle scura e liscia sotto tuniche ampie e morbidi turbanti rigonfi. Mi sono risvegliata al cantare di un gallo o sulle strofe dolenti del muezzin nella notte – le sue invocazioni disciolte negli spazi piatti e infiniti, tagliati da un’unica strada; e ho applaudito, in una chiesa bianca e gremita, la melodiosa preghiera corale dell’anno nuovo.

Ho lavato le mani insieme ad altre mani nell’acqua fresca e sapone su un tappeto pesante nel patio di Mariane, portato alla bocca verdure, pezzetti di carne e di storie raccontate a bassa voce; ho abbracciato persone – gli occhi lacrimosi, il profumo di Africa nelle narici – la sensazione perfetta di aver cercato ciò di cui si era poveri e averlo potuto imparare da te, Senegal. Au revoir, mes amis – cantano le signore colorate di Sokone – Arrivederci, amici miei.

Foto Federica Cioccoloni e Micol Candiani

Senegal
Pescatori di ritorno alla spiaggia, Kayar, Senegal
Pescatori di ritorno alla spiaggia, Kayar, Senegal
Mamma e figlia, Djiffer, Senegal
Mamma e figlia, Djiffer, Senegal
Senegal
Bambini giocano sulla spiaggia, Mbour, Senegal
Bambini giocano sulla spiaggia, Mbour, Senegal
Negozio di Dakar, Senegal
Negozio di Dakar, Senegal
Negozio di Dakar, Senegal
Negozio di Dakar, Senegal
Bambine del Delta del Sine Saloum, Senegal
Bambine del Delta del Sine Saloum, Senegal

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