Bangladesh e Birmania: L’emergenza Rohingya parte da un tweet

Riuscire a compattare un pensiero o uno stato d’animo in 140 caratteri è un’opera che richiede abilità e sicuramente una buona dose di concentrazione, l’esatto opposto di quello che in genere si prova quando il desiderio di condividere uno sfogo con più persone possibili diventa una necessità.

E’ facile grazie alle piattaforme social centrare questo obiettivo ma è frequente, proprio a causa della tensione emotiva e dell’obbligo di sintetizzare, che il proprio messaggio venga male interpretato o si trasformi in una scintilla da cui scaturiscono reazioni fuori controllo.

Succede quotidianamente, soprattutto a quelle persone che in veste di utenti godono di un grande seguito legato al loro essere delle celebrità o più semplicemente al vantaggio (in certi casi al limite) di avere un’immagine pubblica o istituzionale. Tale ruolo, anche nella sua controparte digitale, convive con il potere di scavalcare le barriere dell’indifferenza e portare in primo piano vicende che senza questo tipo di mediazione difficilmente raggiungerebbero ampie porzioni dell’opinione pubblica, pur dotate queste ultime di fonti d’informazione aggiornate in tempo reale.

E’ così che il cinguettio online di Malala Yousafzai (nella foto), giovane attivista pakistana, si è trasformato in un grido lanciato verso l’intera comunità di Twitter, per portare la giusta attenzione su un dramma umanitario che si sta consumando da mesi e nei confronti del quale abbonda l’indifferenza.

Malala non è una militante qualsiasi bensì la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace ricevuto a soli 17 anni nel 2014, in virtù della sua coraggiosa battaglia per il diritto all’istruzione, bandito dai taliban per le donne di Mingora, sua città di origine.

L’appello dichiaratamente polemico è rivolto ad una donna di 72 anni, Aung San Suu Kyi, membro del Consiglio di Stato in Birmania. Anche Aung, come Malala, ha a cuore la difesa dei diritti umani, ne ha fatto una battaglia personale per tutta la vita e nel 1991 ha ricevuto il primo premio Nobel per la pace.

E’ quindi su Twitter che Malala esorta la compagna a prendere una posizione forte, di denuncia e a suo dire ancora assente in merito al massacro del popolo Rohingya, in corso da mesi nella Repubblica del Myanmar.

Alla rabbia di Malala e all’indignazione di Aung, che ha prodotto il più tradizionale dei battibecchi, si è aggiunta nelle ultime ore la voce dell’Onu che ha parlato di pulizia etnica in corso, appellandosi alle forze militari della Birmania per interrompere la repressione.

Se il diverbio a suon di tweet appare paradossale quando le protagoniste sono schierate per i medesimi valori (per i quali hanno fronteggiato il carcere e gli attentati terroristici), la notizia della diatriba ha sicuramente conferito più visibilità alla questione Rohingya.

Ma chi è questo popolo Rohingya e in cosa consiste il dramma?

I Rohingya, gruppo etnico di religione islamica, sono originari dello Stato di Rakhine, situato nell’area occidentale della Birmania. Si distinguono per una identità linguistica forte, tanto che già a fine ‘700 un importante medico scozzese, Buchanan Hamilton, li citava in un suo report specificando la presenza di un dialetto che riteneva fosse diffuso in tutto l’Impero Birmano.

La ragione attorno a cui ruota l’attuale emergenza ha però dei contorni politici e religiosi, forti già all’inizio del secolo scorso, motivo per i Rohingya di gravi problemi di convivenza sul territorio.

La fede musulmana di questa minoranza collide con il credo buddista praticato dalla quasi totalità della popolazione, molto diffuso soprattutto nell’area di Rakhine. Lo scontro entico religioso, già forte a inizio ‘900 quando lo Stato si trova sotto il dominio coloniale britannico, si inasprisce durante il secondo conflitto mondiale, per poi esplodere definitivamente nel dopoguerra.

Le mire espansionistiche del Giappone, nemico comune per un popolo sotto attacco, costringono alla difesa armata dei propri territori, che coinvolge in una lunga sequenza di morti entrambe le comunità.

Terminati gli eventi bellici, causa per i Rohingya di un massiccio esodo oltre i confini, il futuro del gruppo assume dei connotati politici che trovano forma in un inedito partito e in una nuova ambizione: creare uno stato autonomo.

Fino agli anni ’60 l’obiettivo è considerato realizzabile e i Rohingya intravedono la possibilità di ottenere la separazione dalla Birmania, complice il supporto del Pakistan, paese confinante a cui unirsi nella complessa fase finale. A interrompere i piani dei leader musulmani subentra il pugno duro dell’apparato militare governativo (già afflitto dal declino economico che segue la guerra) il quale sotto la spinta del nazionalismo mette in moto quel meccanismo di repressione che perseguita incessantemente i Rohingya fino ai giorni nostri.

Dagli anni ’70 ad oggi infatti due fattori si moltiplicano senza sosta ai danni di questo popolo: le violazioni dei diritti umani e le fughe in Bangladesh di chi riesce a mettersi in salvo. In merito alla questione umanitaria Amnesty International già nel 2004 evidenziava una serie di sconvolgenti soprusi. Ai Rohingya non viene più riconosciuta la cittadinanza, la loro libertà di movimento è fortemente limitata, sono sottoposti a varie forme di estorsione e di tassazione arbitraria. A simili restrizioni si sommano la confisca delle terre, lo sfratto e la distruzione delle abitazioni. Molti Rohingya infine vengono arrestati e impiegato come lavoratori schiavi nei campi militari.

Nel maggio 2012 lo stupro e l’omicidio di una ragazza buddista, attribuito a tre giovani Rohingya, porta ad una nuova scia di violenza e di migrazioni verso il Bangladesh, lo specchio degli eventi verificatisi nelle ultime settimane, il segno di una frattura forse definitiva nelle dinamiche di convivenza dei due popoli, scenario confermato dai numeri della crisi: centinaia di abitazioni rase al suolo, più di 400 morti, tra cui molti bambini, 370.000 persone in fuga verso il Bangladesh, ancora di salvezza per i Rohingya, paese a cui si appellano come rifugiati quando il conflitto in Birmania raggiunge livelli insostenibili.

Un ultimo capitolo in questa vicenda è riservato al mondo delle Ong attorno al quale le polemiche che si susseguono dall’inverno scorso hanno attraversato tutta la stagione estiva, mantenendo stabile la convinzione di alcuni schieramenti politici relativa ai presunti legami tra organizzazioni e scafisti, con interessi economici di fondo.

Medici Senza Frontiere e Moas, dopo gli ultimi accordi europei raggiunti nella conferenza di Parigi, hanno deciso di abbandonare il Mediterraneo per l’impossibilità di collaborare con la guardia costiera libica (considerati i dossier resi pubblici sul destino dei migranti che fanno ritorno in Libia, dopo essere stati intercettati e vengono rinchiusi in veri e propri centri di prigionia, costretti a vivere ammassati e in condizioni disastrose).

Moas nello specifico, dopo aver aderito al protocollo di Minniti pur di continuare ad operare secondo le nuove condizioni dettate dal governo italiano, sposterà la sua imbarcazione Phoenix nel Golfo del Bengala per prestare assistenza via mare all’esodo disperato dei Rohingya. Msf invece, da subito contraria al nuovo codice di condotta, sta già allestendo campi medici di primo soccorso lungo il confine che unisce la Birmania al Bangladesh, prendendosi cura di migliaia di persone ancora bloccate, ferite in modo grave e debilitate.

Nonostante il dispiacere per una importante missione che si interrompe in modo brusco e prematuro, il nuovo impegno delle due Ong riconferma, come se ce ne fosse bisogno, lo scopo reale delle operazioni in mare e via terra: mettere al sicuro vite umane in pericolo. 

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