Caccioni, Centro Antiviolenza Mascherona: “Donne, valorizziamo la nostra identità”

In occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, che si celebra ogni anno il 25 novembre, abbiamo intervistato la responsabile del Centro Antiviolenza Mascherona, Manuela Caccioni. A capo del più grande centro antiviolenza donne della Liguria (qui i contatti), svolge questo lavoro da 18 anni. La sua esperienza e la sua sensibilità verso la causa ci hanno permesso di far emergere diversi ambiti di riflessione, tra questi: la necessità di rafforzare l’autonomia, il senso di vergogna, l’influenza culturale e il giudizio.

Quella di Caccioni è una battaglia per far comprendere alle donne, prima di tutto, quanto ognuna possa “essere”, ed “essere ciò che vuole”. Allo Stato italiano e a tutte le Istituzioni, invece, insieme al Centro Antiviolenza Mascherona, lancia un messaggio: non dimentichiamo la Convenzione di Istanbul, ovvero il primo trattato internazionale che riconosce la violenza contro le donne come violazione dei diritti umani, e come forma di persecuzione, ai sensi della Convenzione di Ginevra sui Rifugiati. Perché spesso, a volte, anche le Istituzioni dimenticano il rispetto per le donne violentate e si fanno influenzare culturalmente.  

Quali donne si rivolgono al vostro centro antiviolenza?

«Qualsiasi tipo di donna. Proprio come la Convenzione di Istanbul ricorda, qualunque donna può essere vittima di violenza. Si tratta di un problema culturale, radicato nella società. Ci sono italiane, ci sono straniere, ci sono ventenni, cinquantenni, ottantenni. L’identikit della donna vittima di violenza non c’è: ogni donna è a rischio perché c’è un rischio culturale. Purtroppo non c’è stato un passaggio culturale riguardo la libertà di scelta. Pensiamo alle leggi per le donne: sono recentissime. Di fatti, diverse donne vengono da noi convinte che sia ancora in vigore la legge sull’abbandono del tetto coniugale. A livello culturale non è ancora passato il messaggio che le donne hanno libertà di scelta e di azione.

Si rivolgono a noi anche donne laureate, quindi non si tratta neppure di un problema di mancata istruzione. Ho iniziato 20anni fa e allora il problema dell’abbandono scolastico era presente. Ora no, ma l’idea che la donna sia un oggetto dell’uomo è ancora radicata. Nel nostro centro, per questo, realizziamo campagne di sensibilizzazione nelle scuole. La libertà di essere, di scegliere, di poter essere, deve partite da piccoli. Dalla materna, dalle elementari: in quegli anni i bimbi sono delle spugne e possono captare e comprendere come le opportunità siano le stesse… l’astronauta può essere anche femmina, ad esempio».

Mentre ancora è raro vedere figure femminili svolgere compiti così “prestigiosi”…

«È raro vederle perché le donne, ancora, devono fare il doppio della fatica per esordire in svariati ambiti. Pensiamo anche al calcio femminile, si inizia a parlarne ora di più ma viene pubblicizzato molto ancora solo quello maschile. Ecco dove nasce la violenza di genere: dal fatto che la donna è considerata inferiore all’uomo».

Mi ha colpito una frase che hai pronunciato in un’altra intervista: “Bisogna cambiare il poter essere, perché tutti possiamo essere chi vogliamo”…

«Esatto, una donna può scegliere di essere e di fare. Non è vincolata al non poter essere o non poter fare perché “moglie di” o “figlia di”. Abbiamo un’identità e bisogna valorizzarla. L’obiettivo dei centri antiviolenza è quello di autodeterminare il pensiero delle donne. Non realizzo mai un progetto io su una donna, altrimenti sarebbe violenza psicologica.

Lavoro da 18 anni attorno a questa tematica ma non obbligo mai una donna a fare denuncia, a separarsi o a fare qualcosa che lei non voglia. Il mio è un lavoro di valorizzazione dell’identità e di ricerca di ciò che davvero lei vuole.

Per noi la violenza è un aspetto molto importante: una donna non può accettare uno schiaffo perché vuole uscire con un’amica o vuole uscire con un collega di lavoro che le ha mandato un messaggio. Abbiamo donne che sono state fatte licenziare dal marito per gelosia, altre donne il cui marito scorta la moglie fino al lavoro e conosce il datore perché non si fida. Ecco che la libertà della donna viene meno.

Lo stesso è a livello economico: spesso lo stipendio viene gestito dal marito, nel caso loro lavorino. Queste donne non hanno nemmeno la possibilità di acquistare il biglietto dell’autobus per venire al centro antiviolenza».

Insomma, il vostro compito è quello di far raggiungere l’autonomia alle donne che si rivolgono a voi

«Esatto, anche con l’inserimento nelle case protette. Certo, prima di tutto deve passare un periodo di tranquillità: subire violenza per anni non fa bene, né alla mente, né al corpo. Quando le donne arrivano da noi in emergenza, le inseriamo nelle case protette. Dopo un mese, quando le rivediamo qui al centro, quasi non le riconosciamo. Le donne cambiano volto, ritornano rilassate, solari, sono belle. Scaricano la tensione e si sentono al sicuro. E così inizia la valorizzazione del loro essere donna. Fino a quel momento invece sono concentrate solo a evitare di essere picchiate».

Quanto conta l’influenza della “vergogna” nel dichiarare di subire violenza dal marito e quanto invece l’idea che il proprio uomo sia perfetto e giustificabile per ogni azione?

«La vergogna è tanta, noi donne ci mettiamo sempre in discussione e ci colpevolizziamo. Nella dinamica del maltrattamento in famiglia, il partner ti fa sempre sentire in colpa: è colpa tua se lui è nervoso perché torna stanco dal lavoro e tu non lo capisci, è colpa tua perché non sai accudire i figli, è colpa tua perché non sai cucinare o non lo assecondi.

Le donne vivono con un radicato senso di colpa: se lui ti picchia, sei tu ad averlo provocato. Dopo una decina di anni che ti senti dire che la colpa sia tua, sei convinta sia così. Non è raro che le donne, qui al centro, vengono a dirmi: “È colpa mia se succede questa cosa”.  

La vergogna è enorme, è un fenomeno sottostimato e non abbastanza raccontato. Oggi ai centri antiviolenza arriva 1 donna su 3: le altre 2 ancora non riescono a fare il primo passo.

Tra le ultime donne che si sono rivolte a noi c’è stata una signora di 80 anni. Solo dopo la morte del marito è riuscita a farsi avanti. Ci ha raccontato di aver subito violenza tutta la vita, aveva paura del nostro giudizio perché temeva che le avremmo detto di lasciare il marito. Secondo il suo sistema famigliare, questo non poteva essere contemplato: “Devi accettare il marito per ciò che è ed avere pazienza“, le è stato insegnato.

Un altro aspetto importante è la paura di non essere credute: questa donna, con grande sofferenza, ha raccontato che ogni giorno della sua vita, nel tragitto da casa al negozio dove lavorava, passava davanti ai carabinieri. Di fronte alla porta, ogni giorno, si chiedeva se entrare o no. Alla fine non entrava temendo di non essere creduta. E così, per 50anni, ha subito di tutto: violenza sessuale e violenza fisica, tra cui una spalla rotta.

La paura di non essere creduta e giudicata, fa sì che le donne siano bloccate. I centri antiviolenza invece hanno, come mission, il non giudizio: non giudico nessuno sulla propria vita e sulla propria situazione. Sappiamo bene che la cultura è basata su questo standard di famiglia: mamma, papà e figlio. E da lì non si può scappare. Questo di fatti è poi rispecchiato nei percorsi di separazione: i servizi sociali stessi fanno seguire percorsi di mediazione familiare, terapie familiari. I due sono visti come “i genitori di”, nel caso avessero figli. Ma questo aspetto devasta: i bambini hanno visto quello che succedeva in casa e la donna stessa non si può porre al pari dell’uomo che ha usato violenza su di lei.  E così queste terapie non vanno mai a buon fine: la prepotenza dell’uomo è talmente alta che la donna asseconderà tutto per paura.

Per questo stiamo realizzando una campagna per la Convenzione di Istanbul. Lanciamo oggi, 25 novembre, un’agenda da distribuire a Tribunali e Servizi Sociali: qui viene ben specificato che la mediazione familiare, in casi di violenza, non si fa. Ancora oggi molte donne vengono da noi disperate perché, in caso di separazione, vengono convocate in tribunale per la mediazione familiare. Purtroppo, culturalmente, in Italia è così. Abbiamo firmato dal 2013 ma ancora non è applicata».

Quali sono le altre vostre iniziative in occasione del 25 novembre?

«Domani, nella Sala Trasparenza della Regione Liguria, inauguriamo, simbolicamente, la nostra nuova casa rifugio, Casa Elisa. L’abbiamo ottenuta grazie a un finanziamento di Regione Liguria e di Costa Crociere Foundation. L’abbiamo ristrutturata e dedicata alle donne che scappano da situazioni altamente a rischio. È la prima casa dove le donne vengono inserite immediatamente in casi di emergenza. Ci teniamo al fatto che la cittadinanza la veda: è un luogo accogliente che abbiamo il piacere di mostrare.

Sempre martedì 26 lanciamo la campagna delle agende: 12 mesi contro la violenza a tema Convenzione di Istanbul. Tra i vari articoli, citiamo il numero 23, quello sulle case rifugio. Tutti coloro che operano nel settore devono avere ben chiara la Convenzione. Altrimenti violiamo i diritti di queste donne, che già subiscono violenza e rischiano una secondaria violenza, quelle delle istituzioni che non credono alle parole delle donne».

La vita dopo il passaggio dal centro antiviolenza per donne: quali tutele? C’è il rischio di ritrovarsi l’ex marito al seguito?

«Diciamo che la nostra è un’azione di presa di consapevolezza, emersione del problema, protezione nelle strutture. È vero però che manca un piccolo anello, quello della presa in carico dell’uomo maltrattante. Sta iniziando ora il monitoraggio: ci sono sportelli per uomini che commettono violenza. Ma, se le donne fanno fatica a farsi avanti, non parliamo degli uomini. Non è facile affermare di commettere violenza contro la propria moglie. Tendenzialmente sono persone amate e apprezzate socialmente e lavorativamente.

In America dopo una denuncia di maltrattamento, il compagno è obbligato ad andare in questi centri. In Italia ancora no, è solo “consigliato” dal giudice. Qualcuno lo fa, magari per ridursi la pena».

Un tuo commento a proposito dei dati Istat su centri antiviolenza

«I numeri sono sempre altissimi. Bisogna prestare molta attenzione e, soprattutto, far sì che chi si occupa di violenza contro le donne sia un esperto. Noi siamo il più grosso centro della Liguria: da gennaio al 31 ottobre ci hanno contattato 434 donne, abbiamo realizzato 1.113 colloqui. Rispecchiamo quindi l’analisi dell’Istat a livello nazionale. Ovviamente il sommerso è tanto: molte donne chiamano e poi non vengono. Magari chiamano dopo due anni e finalmente vengono da noi. Questo perché si spera sempre che la situazione migliori».

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