Cambiamento climatico: «Tra le principali minacce ai diritti umani»

Lo scorso 24 giugno, Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite, ha portato all’attenzione del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU l’indissolubile legame esistente tra il cambiamento climatico e i diritti umani. Il rapporto presentato da Alston, infatti, descrive la crisi ambientale odierna come uno dei principali fattori di segregazione del XXI secolo, arrivando a parlare di “Apartheid climatico”.

L’espressione utilizzata dallo studioso australiano potrebbe sembrare molto forte o perfino eccessiva, ma a una riflessione più approfondita risulta adeguata per definire uno scenario in cui i cambiamenti climatici rendono più grandi le disuguaglianze economiche e sociali, al punto da consentire ai più ricchi di proteggersi spostandosi in aree più fresche e meno colpite dalle conseguenze del surriscaldamento globale, mentre i più poveri sono costretti a soffrire alle prese con fame, malattie, distruzione degli ecosistemi, siccità, inondazioni e altri fenomeni che colpiscono più duramente le regioni a sud del mondo.

Per questo motivo, si è parlato del cambiamento climatico come di un “Robin Hood al contrario” che sta contribuendo a rendere i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Infatti, mentre i pesci, le piante e altre risorse naturali su cui molti paesi in via di sviluppo basano il proprio sostentamento migrano a nord, seguite da individui e comunità benestanti, le popolazioni meno abbienti portano sulle proprie spalle il 75% del peso di un problema che, considerando il quantitativo di emissioni nocive storicamente emesse, hanno contribuito a creare solo per il 10%.

Basandosi sui recenti studi scientifici delle Università di Rutgers, Princeton, Yale e Arizona e della National Academy of Sciences, Alston non risparmia le critiche a diversi esponenti politici e perfino alla stessa ONU per aver adottato misure “palesemente inadeguate” a evitare il disastro odierno, compiendo sforzi “completamente sproporzionati rispetto all’urgenza e alla portata del pericolo” in favore di molti “passi miopi nella direzione sbagliata”. Inoltre, di fronte al parziale fallimento degli accordi internazionali che non stanno dando i risultati sperati, Alston chiede spiegazioni anche agli esperti del clima che oggi definiscono “lo scenario migliore” ciò che solo poco tempo fa era, invece, presentato come “catastrofico”.

Tuttavia, le critiche più accese sembrano essere rivolte proprio agli studiosi dei diritti umani, di cui egli stesso costituisce un esempio. Partendo da una riconsiderazione dei propri studi del passato, il funzionario dell’ONU sottolinea la necessità di porre la crisi ambientale al centro dell’ambito di studio, in quanto il cambiamento climatico costituisce (e costituirà in misura sempre maggiore) una delle principali minacce ai diritti umani.

Al progressivo cambiamento dei territori e degli ecosistemi seguono, infatti, scarsità di acqua e di cibo e, con essi, un grave pericolo per il diritto umano alla vita. Inoltre, si prevede che entro il 2030 il cambiamento climatico determinerà un aumento della povertà che coinvolgerà circa 120 milioni di persone.

Se a quest’ultimo dato aggiungiamo che fenomeni come l’innalzamento del livello dei mari e l’estrema siccità stanno rendendo inabitabili aree sempre più grandi, notiamo la diretta conseguenza di un futuro aumento nelle migrazioni di massa che, a sua volta, potrebbe determinare tensioni e addirittura conflitti. A questo riguardo, Alston spiega che “la democrazia, la legge e una varietà di diritti civili e politici sono in pericolo. Appare ormai chiaro che il rischio di malcontento nelle comunità, di disuguaglianze che si accentuano e di privazioni sempre maggiori all’interno di alcuni gruppi porteranno a risposte nazionaliste, xenofobe e razziste. Mantenere un approccio bilanciato in ambito dei diritti civili e politici diventerà sempre più complesso”.

Oltre a portare alla luce le criticità del presente, però, lo studioso australiano individua delle possibilità per il futuro: le difficoltà del presente e la preparazione alle sfide del futuro possono costituire per ciascuno Stato un’occasione per riconsiderare le proprie decisioni in fatto di diritti economici, civili e sociali che, purtroppo, spesso vengono accantonati.

A questo riguardo, Ashfaq Khalfan, esponente di Amnesty International, aggiunge che “la prima responsabilità nella protezione dei diritti umani delle persone appartiene agli Stati. Uno Stato che rifiuta di fare i passi necessari per la riduzione dei gas serra sta violando l’obbligo di proteggere i diritti umani dei propri cittadini”.

Con questo in mente, sembra appropriato interrogarsi sull’operato politico del nostro paese in cui, come appare evidente dai fatti delle ultime ore riguardanti l’arrivo della nave Sea Watch a Lampedusa, quello dell’immigrazione è un tema caldo. Se da un lato l’approccio politico generale si mostra inflessibile nell’adottare una linea ferrea e perfino discutibile in fatto di immigrazione, dall’altro lo scorso 5 giugno il Senato ha rifiutato di dichiarare lo stato di emergenza climatica e, quindi, di adottare misure volte a ridurre i fenomeni migratori che deriveranno dal peggioramento della situazione ambientale.

Da questo punto di vista, quindi, sembra esistere una contraddizione sulla quale è bene riflettere, perché tale decisione risulta in contrasto sia con la linea politica promossa che con l’obbligo dello Stato alla tutela dei diritti umani dei migranti e dei suoi stessi cittadini.

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