Centro per donne e bambini migranti: «Integrazione? Con la quotidianità»

Centro di prima accoglienza per migranti donne e bambini, è La Casa di Taino (Provincia di Varese), struttura parte della Cooperativa Sociale Farsi Prossimo di Milano. Per conoscere meglio come funziona questa realtà, immersa nel verde delle montagne lombarde, abbiamo intervistato la responsabile, Elena Panosetti.

Intervista realizzata in collaborazione con Paola Consolaro

Con lei, lavorano anche un assistente sociale (Silvia Foralosso) e 4 educatori (Francesca Rabattoni e  Barbara Villa), tra cui 2 mediatori (Françoise Kofache Aissatou leggi qui la sua intervista – e Lucia Gamba) e due educatrici professionali (Maria Rosa Bella). Il team si completa con due cuoche e un custode-autista che sorveglia la struttura di notte e accompagna le ragazze negli spostamenti. Il centro è aperto 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno ed è sempre presidiato, anche nel fine settimana.

Quali sono i vostri compiti e le vostre responsabilità verso le donne immigrate e i loro bambini?

«Le assistiamo nel percorso dal loro arrivo, al completamento dell’iter (la risposta della commissione territoriale, positiva o negativa che sia). Nei casi di risposta negativa si passa anche dal ricorso contro questo diniego.

Inoltre ci occupiamo di percorsi di integrazione previsti dal bando che abbiamo in corso con la Prefettura di Varese. Si prevedono percorsi di integrazione che passino attraverso l’insegnamento della lingua italiana, corsi professionalizzanti che permettono di acquisire competenze di svariata natura che così potranno confluire nel percorso lavorativo e tutto ciò che può permettere l’avvicinamento alla cultura italiana.

Cerchiamo di trasmettere quindi le norme di educazione civica del nostro sistema, a livello democratico e sanitario. Così le ragazze possono essere facilitate nello step successivo, qualora ottengano una forma di protezione e possano rimanere nel nostro Paese.

Con il CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) di Gallarate (VA) abbiamo stipulato una convenzione con l’associazione Cittadini del Mondo di Sesto Calende che fornisce un servizio scolastico di insegnamento della lingua italiana. Si parte dall’alfabetizzazione a corsi più avanzati fino all’acquisizione del diploma di terza media.

Le ragazze frequentano questa scuola due pomeriggi a settimana e, a integrazione di queste ore, abbiamo organizzato un corso interno di due giorni a settimana grazie a una nostra collega che ha l’attestazione per l’insegnamento alle lingue.

Inoltre, nei mesi precedenti, con il Centro Formazione Professionale Ticino Malpensa abbiamo organizzato un corso personalizzante per colf. Lo ha seguito Françoise per cercare di dare loro delle norme di base per un lavoro futuro come collaboratrice domestica. Il corso si è sviluppato su lezioni teoriche dove sono state date norme generali su igiene e sistema della famiglia italiana e su lezioni pratiche dove hanno cucinato con l’insegnante tipiche pietanze italiane o hanno messo in scena la pulizia di alcuni spazi con le normali attrezzature che si utilizzano per questo lavoro. Il corso è durato 50 ore, due mesi circa: vi hanno partecipato una 15ina di ragazze individuate nel gruppo in base a criteri di comprensione della lingua italiana (essendo uno step successivo, necessitavano di avere già questa competenza) e poi anche in base al percorso che avevano avuto all’interno del centro.

La risposta da parte loro è stata molto positiva. Hanno avuto uno spaccato nella realtà concretamente. È servito anche a potenziare il discorso linguistico: hanno avuto modo di parlare la lingua italiana con dei professori e quindi rafforzare le competenze già apprese nel tempo. In generale il bilancio è stato positivo e ci auguriamo si possa replicare nel prossimo autunno per le nuove ragazze.

Sicuramente, il fatto di ospitare donne e in particolare donne e bambini ci distingue dagli altri centri presenti in provincia, che sono prevalentemente a partecipazione maschile. I centri femminili sono pochi: quelli che accolgono donne con minori sono ancora meno. Questo tipo di utenza richiede attenzioni e competenze specifiche, soprattutto rispetto ai bisogni di una donna che può essere incinta o avere un bimbo molto piccolo. Ci occupiamo dagli aiuti di base come l’accudire e le modalità di cura ma anche di tutto l’aspetto sanitario.

Spesso, il lavoro che si fa, è quello di accompagnarle nell’iter di un neonato. Quindi controlli dal pediatra, visite preparto etc. In questa fase la loro autonomia è molto limitata, sia per il discorso linguistico che le pone in difficoltà quando devono confrontarsi con strutture esterne e poi anche per la condizione stessa di essere donne sole con bambini. Quindi hanno difficoltà negli spostamenti e una maggiore vulnerabilità. Detto tutto questo, la nostra presenza risulta essere per loro fonte di sicurezza quando si devono rapportare con figure istituzionali con un medico o un pediatra. E anche pratica vista l’oggettiva difficoltà nel muoversi o spostarsi.

Altra parte importante del lavoro con loro è quella di ascolto e di aiuto, quando possibile, anche di tipo psicologico rispetto alle situazioni che hanno vissuto nei loro Paesi di origine, fino al transito del viaggio che le ha portate in Italia. Questo pezzo risulta essere particolarmente difficoltoso, sia da parte nostra che da parte delle donne: c’è molta riservatezza e difficoltà a parlare di ciò che hanno visto e subito.

Qui subentrano anche questioni culturali: c’è molta vergogna, spesso, nel raccontare, soprattutto se si tratta di situazioni di violenza. Spesso si vergognano e faticano a raccontare ed esprimere il proprio vissuto. Evitiamo, soprattutto all’inizio, di essere molto invasivi. Cerchiamo di rispettare il più possibile i loro tempi di “guarigione emotiva”, aspettando che si crei con noi un legame anche di fiducia. Questo permette loro di vivere il racconto in maniera sicuramente dolorosa ma con la consapevolezza che, chi ti sta ascoltando, lo sta facendo in una funzione di aiuto e con la prospettiva di evolvere da questa situazione.

In questo, l’aiuto di mediatori in lingua è molto importante. Bene o male, tutti i nostri operatori riescono a parlare sia in inglese che francese ma, soprattutto la presenza di Françoise (in quanto donna proveniente dall’Africa), rende alcune situazioni facilitanti per il consolidarsi del rapporto di fiducia con loro. Non con tutte è possibile arrivare a un rapporto confidenziale che permetta loro di raccontarsi: anche in questo caso le si rispetta. Non tutte hanno il sentimento di poter raccontare, per loro a volte è più semplice dimenticare o comunque congelare quel pezzo della loro vita e lasciarlo lì, non toccarlo più, proprio perché è fonte di grande sofferenza.

Le ragazze sono provenienti per la maggior parte dalla Nigeria, poi dalla Costa d’Avorio, un piccolo gruppo sono Eritree, alcune del Senegal, della Sierra Leone e del Gambia e dell’Uganda. Nell’ultimo tempo, sono arrivate due donne Somale. A seconda del Paese di provenienza non è differente il racconto rispetto a ciò che è stato vissuto durante il viaggio e poi durante la permanenza in Libia. Sembrano essere alloggi di un Paese dove, non essendoci stabilità politica, queste persone vengono abbandonate e lasciate nelle mani di trafficanti di esseri umani che le considerano vere e proprie merci di scambio».

Il viaggio (disorganizzato) dei migranti africani: l’inconsapevolezza di essere nelle mani di trafficanti di esseri umani

«I racconti sono molto spesso passaggi di mano in mano di vari trafficanti che chiedono soldi per questo viaggio. Spesso emerge inconsapevolezza della persona stessa di essersi trovata all’interno di un traffico di esseri umani. Questa consapevolezza arriva successivamente, quasi tutti i racconti partono con “siamo partiti dal nostro paese dove c’era una situazione di povertà e/o instabilità politica”. Nel corso del viaggio, o addirittura una volta in Italia, raggiungono la consapevolezza di essere stati trafficati o inserti in qualcosa che è più grande di loro.

Li si fa riflettere, nel momento in cui si affrontano queste tematiche: Ok, se hai fatto un viaggio, ti avranno chiesto dei soldi, no?”. A volte, le risposte sono confuse a riguardo: da una parte perché si tratta sempre dell’idea di dover mantenere il segreto (pensano sia meglio non dire alcune cose, per non finire nei guai), dall’altra perché non si sono neppure resi conto di quello che ci sta dietro. È come se venissero inseriti nel traffico senza una vera e propria consapevolezza. Quando si trovano di fronte a chi chiede dei soldi sono spiazzati.

Per quanto riguarda il viaggio, è sicuramente una cosa per noi occidentali molto distante. Sembra quasi che, da un giorno all’altro, maturi in loro questa idea, non c’è una organizzazione vera e propria. Noi siamo abituati ad organizzare ogni cosa nella nostra vita: dalla mattina quando ci alziamo, alla sera quando andiamo a letto. Ognuno di noi ha un planning settimanale e giornaliero. Abbiamo avuto modo di vedere invece che la loro organizzazione del viaggio è campata per aria: “Ho deciso di partire perché la situazione era degenerata”.

Tutti gli step successivi sono poi gestiti da chi li traffica: è come se si trovassero a scorrere in questo fiume senza una volontà o un progetto. Per dire: “Mi sposto, arrivo lì e si vede cosa succede”, come un sasso che viene buttato in un fiume. Si buttano, senza progettazione e consapevolezza. Così è nella maggior parte dei casi, anche perché sono quasi tutti provenienti da paesi Sud Sahariani, quindi attraversano il deserto con mezzi di fortuna (non stiamo parlando di bus o mezzi sicuri, spesso sono grossi camion dove salgono anche 50 persone alla volta in strade non sicure) e già arrivare in Libia è un traguardo».

Migranti: in Libia come prigionieri

«Arrivano quindi in Libia: il tempo di durata del viaggio è vario, ci è capitato di sentire racconti di donne partite 2 anni prima dal Paese di origine. In Libia stanno dai 6 mesi a un anno prima di riuscire a partire. Altre sono arrivate in Italia in pochi mesi. Il motivo di questi scarti, facciamo fatica ancora oggi anche noi a capirlo. Probabilmente dipende sempre dal passaggio di mani dei vari trafficanti. Molte raccontano che in Libia vengono tenute in stato di prigionia, spesso definiscono questi campi di detenzione libici come delle prigioni dove non hanno possibilità di uscire, dove vengono stipati tutti insieme. Spesso vengono messi in atto torture o veri e propri omicidi verso chi tenta ribellioni o di fuggire, quando si rendono conto che questo viaggio della speranza si sta tramutando in qualcosa di molto crudele e duro».

Il viaggio in mare verso l’Italia su barconi di fortuna. La vita nelle mani di Dio

«Arriva poi il giorno della partenza verso l’Italia: è descritto sempre in maniera abbastanza confusa. C’è chi dice che, a seguito di disordini nei centri dove si trovavano, sono riusciti a fuggire. Poi vengono diretti verso i porti dove partono i barconi. Poi c’è la traversata. Come durata si parla di 2 o 3 giorni in mare, a seconda delle condizioni atmosferiche e del barcone. Come noto le condizioni dei barconi sono precarissime, sono barconi pienissimi di persone, molto fatiscenti, dove il carburante deve essere rabboccato in viaggio: abbiamo avuto donne con delle bruciature derivanti da rabbocchi fatti durante la traversata perché la benzina si disperde nel barcone e quindi i vestiti si bagnano e la benzina brucia la pelle.

Poi c’è a speranza di essere salvati. Quando finalmente le nostre squadre di soccorso li individuano, lì c’è la felicità: quasi sempre, tutte loro dicono: “Dio ci ha protetto, ha guardato il nostro cammino e ci ha salvato”. Sicuramente, la non progettazione e il non essere organizzati nel viaggio, fa sì che il loro destino venga messo nelle mani di Dio, che sia cristiano o musulmano. Sentono molto forte questo aspetto. L’essere arrivati sani e salvi nonostante le violenze e le situazioni drammatiche, lo considerano come una volontà che Dio ha avuto di salvarli.

A volte, durante il viaggio – ci è già capitato – alcune donne hanno partorito nel corso della traversata. Una sulla nave dei soccorsi, l’altra sul barcone a poche ore dalla partenza in Libia. Era al termine della gravidanza e ha avuto questo parto in condizioni drammatiche e inimmaginabili per noi che viviamo il momento della nascita come ospedalizzato e medicalizzato. Questo aspetto della nascita, che può essere bello e gioioso, è stato vissuto come drammatico. Ancora ora, a distanza di mesi, la ragazza molta fatica a parlare di questa cosa: immaginiamoci la condizione in cui si è trovata. Era sola perché il marito è restato in Libia: tra i due hanno scelto di far partire la moglie vista la situazione, pensando di poter dare migliori condizioni al bambino. Questo ci dà il polso del viaggio della speranza per loro: mettersi in viaggio, in mare, in qualsiasi condizione. A noi sembrerebbe inimmaginabile che una persona, al quarto/quinto mese di gravidanza, attraversi cinque o sei Paesi e attraversi il mare in condizioni assolutamente proibitive, non è immaginabile per una persona in buone condizioni, immaginiamoci per una donna al termine di gravidanza. Per loro si tratta del viaggio che deve portare ad avere qualche possibilità e chance in più dal loro Paese di origine: “Molliamo tutto perché tanto qui, prima o poi, qualcosa di brutto ci succede, piuttosto andiamo e affidiamo la nostra vita a Dio”. Torna sempre il concetto di essersi messi nelle mani di Dio».

Quali sono le loro maggiori speranze, in generale?

«Di trovare un lavoro qui in Italia, riuscire a sistemarsi. Spesso hanno lasciato altri figli nei Paesi di origine e quindi il sogno è, una volta ricevuto un documento, di poter far venire anche il resto della famiglia in Italia. Basano tutto sulla speranza di una vita migliore supportata da un lavoro e una situazione di maggiore stabilità. È chiaro che hanno bene in mente che questa situazione che stanno vivendo nei centri di accoglienza è temporanea.

Sanno che l’aiuto è funzionale al fatto che lo Stato italiano sta valutando la loro posizione. Nel momento in cui la valutazione sarà terminata, se positiva, sanno che si devono poi dare da fare concretamente per inserirsi, trovare un lavoro e quindi potersi stabilire in maniera più tranquilla nel nostro paese. Diverso è nel momento in cui ricevono una risposta negativa. Chi riceve un diniego, all’oggi, ha la possibilità di presentare un ricorso che rivede ciò che loro hanno raccontato in prima istanza nella commissione. Per tutta la durata del primo ricorso hanno la possibilità di restare nel centro di accoglienza. Se anche il ricorso dovesse dare esito negativo, hanno possibilità del secondo grado di appello e lì la normativa non è ben chiara: se hanno possibilità di restare nel centro o allontanarsi e trovare una diversa sistemazione. Ancora al secondo appello, con le nostre ragazze, non ci siamo arrivati, siamo ancora nei primi step, ai primi dinieghi. Le ragazze sono seguite da avvocati ai quali si rivolgono con un sostegno gratuito non avendo la possibilità di pagarli. Ci auguriamo che poi possano avere una protezione visto che ci sono di mezzo anche bambini».

È possibile l’integrazione reale, una volta usciti dal centro? Quali sono le maggiori difficoltà?

«Dal nostro punto di vista è possibile nella misura in cui, da ambo le parti (straniero e contesto sociale di inserimento) c’è la volontà di integrarsi. Non può essere sicuramente una cosa che viene calata dall’alto: tu in prima battuta devi essere il primo attore di questa integrazione. Diciamo alle ragazze che devono sforzarsi per fare dei passi loro verso la nostra cultura, il nostro modo di vivere, verso il sistema di vita italiano, perché stanno chiedendo all’Italia di accoglierle.

Questo passa attraverso la lingua: puntiamo sul fatto che vadano a scuola e si impegnino nel percorso scolastico, si sforzino di parlare italiano appena possibile. Poi si passa dal cibo: da qui passano molte cose, per noi attraverso il cibo passa l’integrazione. Sarebbe comodo far cucinare solo africano o solo i piatti che sono abituati a mangiare. Ma pensiamo che un domani avranno a che fare con famiglie italiane, con italiani, magari andranno a lavorare in case di italiani e avranno figli che andranno in scuole italiane e quindi mangeranno italiano.

Pensiamo sia importante conoscere anche la ritualità della giornata e dei pasti: il sistema di funzionamento, anche rispetto agli orari, sia molto diverso rispetto al nostro. Siamo abituati a fare 5 pasti al giorno tra cibi principali e spuntini. Abbiamo osservato che nella cultura africana questo ritmo nei pasti non c’è. Probabilmente anche per le condizioni climatiche, ci sono altre usanze e altri stili. Quindi insistiamo sulla regolarità, sul rispettare pasti e orari, del pranzo e della cena. Attraverso tutto ciò che si svolge normalmente nella quotidianità insomma. L’integrazione è possibile ma se da ambo le parti c’è davvero la volontà di integrarsi e integrare. Insomma, speriamo sia possibile».

Come ci ha detto, loro si affidano all’aiuto di Dio. Come si può trasmettere in loro il bisogno di crearsi da sé la vita, senza sperare solo da una mano dall’alto?

«Sicuramente è una questione abbastanza complicata proprio perché lo stile di vita loro è affidato a Dio o comunque l’uomo non è protagonista nella stessa misura nostra, noi occidentali siamo abituati a crearci da soli. Poi c’è chi crede e chi no anche tra noi occidentali, però l’uomo è messo al centro delle scelte che autodetermina. Questo aspetto è una delle cose su cui anche noi fatichiamo di più: ti trovi di fronte proprio a uno scoglio culturale.

Come fare? Non ci sono massimi sistemi. Si fa un pezzettino per volta, si fa nella quotidianità, mostrando soprattutto alle donne, attraverso azioni quotidiane, attraverso quello che loro vedono che noi facciamo quotidianamente. Perché qui subentra anche un maggiore divario culturale, essendo donne: nei loro Paesi di provenienza sono considerate in modo differente rispetto all’Occidente. Abbiamo la fortuna di avere qui Françoise: quindi vedono una donna proveniente dall’Africa che si è formata sulla base delle sue capacità, non per meriti divini o di altri. Quindi penso che tutto passi attraverso l’esempio di ciò che hanno modo di sperimentare oggi, rispetto a quella che è stata la loro vita fino ad ora.

Le teorie o i grandi discorsi servono a poco: è davvero fondamentale mostrare quello che ciascuna di loro può fare per dare un cambiamento concreto alla propria vita. “Devo alzarmi tutte le mattine, devo lavare il mio bambino, devo preparare da mangiare al mio bambino, devo mettere in ordine la mia camera, devo andare a scuola. Devo fare una serie di cose che mi permetteranno di avere buoni risultati”. Tutto deve passare attraverso azioni concrete.

La fascia di età è molto bassa. Andiamo dai 18 ai 30 anni. La maggior parte ne ha 25. Sono donne molto giovani su cui è possibile fare un lavoro di consapevolezza e volto a renderle protagoniste della loro vita. In primis come donne: su questo ci crediamo tantissimo. E poi anche come cittadine italiane».

Ascoltando questi racconti, ci chiediamo: è possibile ipotizzare che molte di loro siano restate incinta dagli abusi sessuali subiti in Libia?

«C’è tabu su questo. Ci è capitato che alcune donne arrivino gravide qui e dichiarino apertamente che si tratta di gravidanze indesiderate perché frutto di violenza. Quindi chiedono aiuto per interrompere queste gravidanze perché la sofferenza che portano con sé è molto grande. In altri casi non ce lo si dice apertamente, abbiamo la sensazione che siano frutto di violenze ma vengono portate a termine e il percorso procede. Le situazioni sono seppur simili, molto diverse, anche rispetto a come viene vissuta questa orribile cosa che hanno dovuto passare».

È sufficiente il sostegno economico dello Stato?

«Lo Stato, per ciascun richiedente, dà 35€ al giorno. Di questi, 2,5€ vanno a loro, i restanti al gestore. È chiaro che, più cose vuoi fare con loro, più vuoi sperimentarti e aiutare nell’integrazione, più devi mettere in campo una serie di risorse, anche economiche. Se offri solo un tetto sopra la testa e un pasto, ci stai dentro con i soldi. Per il resto, devi mettere in campo qualcosa in più come gestore, sia intermini di pensiero, sia in termini concreti. Se fai accoglienza di un certo tipo e quindi non ti limiti a scodellare i pasti e dare un cambio di igiene ma vuoi fare accoglienza che frutti qualcosa, è difficile starci dentro. Poi c’è chi lo fa, per carità, ma noi pensiamo che accogliere voglia dire anche dare il maggior numero di possibilità e di scelte possibili. Questo ci auguriamo di riuscire a fare con le nostre ospiti».

Avete sperimentato un cambiamento reale nelle ragazze accolte?

«Assolutamente sì, se ritorno con la mente a un anno fa, la strada fatta è stata tanta. Sia nei termini di integrazione che nella costruzione dei legami. Sono quasi tutte strade positive. Poi c’è stato qualcuno che è caduto, non lo possiamo nascondere. Però il bilancio è positivo».

Françoise: «Vorrei che si raccontasse come è stato trascorso questo Capodanno da Elena. Mi ha dato una speranza troppo forte e grande, non si possono dimenticare le cose così».

Elena: «È proprio nell’ottica di quello che dicevamo prima. Il nostro lavoro è per 365 giorni l’anno e prende tutta la giornata. Durante le vacanze di Natale dei bimbi si sono ammalati. Un bimbo ha avuto un aggravamento la sera del 31 dicembre, la mamma si è molto spaventata. Prima di essere contattati dai medici, aveva chiamato le sue connazionali dicendo che il bambino era morto.

Effettivamente, il bambino ha avuto una crisi respiratoria e quindi è stato necessario trasferirlo in elisoccorso al centro operativo di Bergamo dove era presente una sala di rianimazione. Siamo stati messi in emergenza, quindi sono venuta al centro e con una collega sono partita per Bergamo. La mezzanotte l’abbiamo fatta in autostrada. Dà il peso del nostro lavoro e del modo in cui lo si vuole fare. Nessuno di noi ha obbligo di seguire il bimbo, dal momento in cui è presente la madre. Avremmo potuto evitare di andare subito. Ma proprio per come intendiamo questo lavoro, ci è sembrato spontaneo e naturale andare per sostenere la ragazza in un momento così drammatico. Per loro è come essere in una lavatrice: stai subendo un trauma, hai uno spavento grande, non parli la lingua».

Siete tutte donne nella squadra per scelta?

«Un po’ per caso, un po’ per scelta. L’essere donne è facilitante rispetto alle tematiche che si affrontano con loro. A volte, certo, la presenza di un uomo servirebbe un po’ perché noi donne ci facciamo prendere troppo dall’emotività.

Comunque lavoriamo tutte bene insieme: condividiamo ideali e un certo stile di lavoro. Ci siamo ritrovate tutte a pensare nella stessa maniera. La compattezza di pensiero e di azione fa tanto rispetto al gruppo degli ospiti. Il sentirci sicure e in armonia tra noi è più facile per effettuare poi il nostro lavoro».  

Venerdì prossimo, online l’intervista a una giovanissima ospite del centro di Taino.

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