Per Debora Tartari e suo marito Piero, “una pagina bianca è un’occasione persa”. E così dal 2014 hanno percorso oltre 260mila km in sella alla loro due ruote alla scoperta di paesi e storie meno fortunati. Perché quella grave malattia che coinvolse Debora, per la giovane coppia lombarda (di Milano lui, di Bergamo lei) è stata una scossa nella vita.
Così, dopo la completa asportazione della palpebra destra (per exenteratio) a causa di un carcinoma adenosquamoso alla ghiandola lacrimale e l’abbattimento completo del tumore grazie all’adroterapia (una delle più moderne tecniche di radioterapia oncologica, praticabile in meno di 6 centri in tutto il mondo), il motto che accompagna le giornate di Debora e Pietro è In Sella per la Vita.
Si tratta del il nome dell’associazione no profit che i due hanno costituito nel 2014, appena dopo la guarigione di lei, con lo scopo di organizzare raccolte fondi, viaggi, eventi, incontri, conferenze mediche a scopo di prevenzione ed educazione alimentare, soprattutto per i più piccoli.
Da questa esperienza è stato tratto anche un libro, scritto da Debora stessa, “Ma io urlo. Una battaglia per la vita”. L’opera racconta come da un evento doloroso sia possibile trarre qualcosa di buono per gli altri, un modo per “urlare al mondo” che la malattia e il dolore possono comunque far trovare la forza per crescere e diventare persone migliori. “Esistono dei momenti nella vita nei quali bisogna decidere e, una volta presa la decisione, non si può più tornare indietro – spiega la coppia – Perché una pagina bianca è un’occasione persa”.
Chi sono Debora e Pietro?
“Siamo una coppia in apparenza normalissima, in realtà con anime in costante cambiamento. Amanti dei viaggi, dell’avventura, della buona cucina e dell’Asia, la nostra, probabilmente, prima vera casa. Un po’ lupi solitari, amiamo la compagnia ma non casuale e soprattutto non per forza.
La nostra debolezza? La sensibilità. Il nostro punto di forza? Il coraggio. Non ci manca, non ci piacciono le soluzioni semplici, arriviamo dritti alla questione e, per questo, non siamo compatibili con chiunque. Il silenzio per noi è solo motivo per osservare ciò che ci circonda, spunto per analizzare ed elaborare riflessioni e soluzioni”.
Come ha cambiato la vostra vita l’arrivo della malattia?
“Se fossimo presenti di persona a parlarne, la risposta sarebbe anticipata da una mezza risatina con l’angolo della bocca più sollevato da un lato… Insomma… ha cambiato la nostra vita sì e no, nel senso che, ciò che abbiamo cominciato, faceva già parte di discorsi affrontati in tempi non sospetti: il desiderio di essere utili per gli altri, sentire che non avremmo voluto investire la nostra intera vita lavorando come impiegati, pizzata nel weekend, vacanze a Ferragosto…
Insomma, non siamo mai stati tagliati per questo. Però, come spesso accade, tutto questo rimaneva un discorso fatto al tavolino di un locale davanti ad un drink e, il giorno dopo, ripartiva più o meno tutto come prima. Ci mancava quel quid, quella scossa che potesse renderci coscienti del fatto che tutto è possibile e raggiungibile se davvero lo desideri e ritieni sia la cosa giusta da fare.
La malattia è stata questo: la scossa. Sì, abbiamo entrambi pagato, pagato duramente: io toccata dalla malattia e da ogni conseguenza che ne è derivata e che purtroppo guarderò in “faccia” per tutta la vita e, per Piero, in un durissimo percorso dove ti chiedi sicuramente perché, perché si debba soffrire impotenti così tanto.
Desideri una vita tua, una nuova vita, perché non sempre anche i percorsi precedenti sono semplici e facili, ti fai un’idea di ciò che potrà essere ma non la immaginerai mai così in salita. Alla fine, però, ciò che conta è che abbiamo avuto una nuova occasione, è come se fossimo ripartiti da capo, azzerato gli orologi e oggi sentiamo di viverre veramente e aver aperto quel cassetto che ogni volta veniva richiuso”.
Quali progetti avete realizzato fino ad ora con In Sella per la Vita?
“In collaborazione con l’associazione ‘Aiutateci a salvare i bambini’ abbiamo da poco organizzato un viaggio in moto verso l’Europa dell’Est per portare direttamente bancali di medicinali alle piccole vittime della guerra in Ucraina. La preparazione ha richiesto 4 mesi tra raccolta di medicinali, richieste di collaborazioni, visti, ecc. Il viaggio è durato 16 giorni e 7000 Km.
In Africa, invece, stiamo inviando siringhe con ago retrattile e con ago di sicurezza da destinarsi ai frati del Malawi, Paese africano con il più alto tasso di incidenza e diffusione di Aids e altri virus a causa di siringhe infette.
La prossima spedizione prevista ha come destinazione l’Iran.
Un altro aspetto davvero importante che coinvolge l’associazione, riguarda l’organizzazione di seminari in collaborazione con medici ed esponenti alimentari per divulgare un’informazione corretta sul tema della buona salute e delle malattie che spesso sono collegate ad essa”.
Debora, qual è il messaggio del libro ‘Ma io urlo. Una battaglia per la vita’?
“Mi piacerebbe che il mio dolore potesse essere di aiuto, di sostegno a chi soffre per una qualunque ragione, fisica, sentimentale. Vorrei tanto arrivare come un leggero soffio di vento, spostare dolcemente i ‘tuoi’ capelli ed entrarci come una mano con una carezza.
Perché purtroppo le persone non riescono a farti arrivare le parole che ti aspetti: quando sai tanto ascoltare spesso non vieni ascoltato e, se ti affanni per fare qualcosa di buono, gli altri quasi ne proveranno invidia criticandoti. Il vento non conosce sesso, non conosce razza, non conosce religione. Ma che sia giorno o che sia notte, con il sole o con la tempesta, ti attraverserà e porterà con se la sua energia. Per chi legge, vorrei essere questo breve spazio di energia”.
Come definireste la vostra vita? Prima di In Sella per la Vita era ordinaria o è sempre stata “fuori dalle righe”?
“In assoluto siamo sempre stati ‘fuori dalle righe’. La malattia è stata solo quel colpo sul trampolino che aiuta a fare il salto e, senza di essa, forse avremmo solo tardato la ‘partenza’. Probabilmente, se avessimo avuto un figlio, non avremmo potuto pensare di compiere viaggi e realizzare da subito progetti umanitari ma siamo certi che, comunque, con nostro figlio non avremmo consumato le vacanze nella riviera romagnola.
Attenzione! Massimo rispetto per chi sceglie di farlo, ciascuno di noi percepisce il piacere e ogni altro senso in maniera del tutto personale. Crediamo quasi con assoluta certezza che, nel nostro piccolo, avremmo integrato nostro figlio con il resto del mondo per renderlo da subito conscio di quanto la nostra terra sia varia e di quanta fortuna abbiamo ad essere nati, per un caso incomprensibile, in un puntino del pianeta così pacifico, solido, rassicurante sotto diversi punti di vista. A nostro figlio, se oggi fosse qui, diremmo: un giorno sarai felice, ma prima ti renderò forte”.
Qual è il vostro sogno oggi?
Debora: “Il sogno è ambizioso… Rispondo facendo riferimento a due film visti proprio negli ultimi giorni: ‘Joy’ (storia vera di una casalinga separata che inventò il mocio e rivoluzionato il sistema delle televendite) e ‘Zona d’ombra’ (medico che scopre la malattia CTE di cui si ammalano i giocatori di football americano, mettendosi contro alla enorme corporation).
Noi non siamo inventori, né medici, né abbiamo la presunzione di fare cose straordinarie meritevoli di film da Oscar. Però possiamo senza dubbio affermare che la malattia ci ha dato il coraggio di spogliarci dei nostri abiti, un po’ come Hulk abbiamo fatto emergere il nostro vero animo.
Questo ci ha fatto perdere amici, considerati tali per una vita, ci ha portati a scontrarci per idee e progetti che molti considerano perdenti, dall’inizio inutili perché il mondo non cambia per una goccia lanciata nell’oceano.
Ma, come insegnano i protagonisti dei film, se non lotti contro tutto e tutti non potrai mai realizzare nulla. Noi non pretendiamo che gli altri condividano il nostro nuovo percorso ma chiediamo comprensione. Niente di più, niente di meno. Noi l’Oscar lo riceveremo ogni qual volta avremo saputo donare un sorriso ad un essere umano, quando potremo vedere almeno un bambino, spacciato alla nascita che, aiutato da noi, avrà la possibilità di cominciare la propria vita con tutte le meravigliose sfide che essa comporta.
Se sarà una malattia: ben venga! Toglie qualcosa ma lascia qualcos’altro. Sogniamo di fare questo: una nostra Onlus con sede nel Paese che sentiremo casa nostra, dove consumare i nostri giorni, le nostre mani e il nostro fiato perché altrimenti… perché saremo passati da qui.
Piero: “A questo punto, molto silenziosamente, in punta di piedi, devo per forza aggiungere anch’io qualcosa. Sono Piero, il marito di questa folle donna bionda che, anche nei momenti peggiori di questi ultimi anni, non mancava di essere straordinariamente forte.
Ricordo il giorno di uno dei tanti interventi anzi, forse proprio quello che ha portato all’exenteratio (lo chiamano cosi quando devi rinunciare ad un occhio, forse per rendere la pillola un po’ meno amara): Si è presentata in ospedale con tacco 12 perché
‘la vita continua e io non mi farò sopraffare ma continuerò a viverla a testa alta!’.
Debora è esattamente così, è un vero dono di Dio, non solo per me ma anche per tutti coloro che la conoscono e l’hanno potuta frequentare. La sua voglia di vivere, di fare, fare, fare continuamente qualcosa per gli altri è, da una parte, coinvolgente e straordinaria e, dall’altra, difficile da seguire ogni giorno.
Sembra un vulcano con la sua lava inarrestabile che copre ogni cosa ma, in questo caso, donando sorrisi e buonumore a chi ne viene a contatto. Non voglio rubare spazio a quanto detto da Debora in modo molto preciso e compiuto ma aggiungere solo un’ultima cosa: siamo un bel gruppo insieme!”.
Qual è la vostra canzone preferita?
Debora: “Misread dei Kings of Convenience. Ci ricorda molto l’Asia, in particola Indonesia, Bali. Quando la ascolto mi sembra di sentire ancora le onde del mare e il profumo della sabbia”.