Don Gallo e Fabrizio De Andrè, una vita spesa per gli ultimi

Quando si parla degli “ultimi”, prima ancora di pensare alle persone che questa parola descrive, si pensa a Don Gallo e a Fabrizio De Andrè. Don Gallo ha dedicato materialmente loro la vita mentre De Andrè ha approfondito questo lato più con la poetica delle liriche delle sue canzoni.

Due vite intrecciate come sono intrecciati i carruggi di quella che è Genova, la loro città. Ed è proprio nei carruggi che hanno potuto conoscere quelli che per molti sono definiti scarti della società ma che per loro sono stati il senso di una vita.

La vita di Don Gallo, è stata spesa per soccorrere e aiutare vite che sarebbero potute essersi perse e salvare quelle anime tormentate da un’esistenza che spesso non hanno potuto scegliere. Oppure vite che senza un suo aiuto non sarebbero state capaci di rimediare agli errori. Perché giudicare è facile, ognuno di noi può trovare un pulpito, guardare più in basso e lasciar sfogo alla bocca. Ognuno di noi può scordarsi dell’esistenza di un pulpito più in alto, proprio per questo “siamo tutti coinvolti”.

Fabrizio de Andrè era colpito dal “prete da marciapiede” – come amava definirsi Don Gallo – e sebbene quest’ultimo non riuscì a convertirlo alla religione cattolica, riuscì tuttavia ad insegnare al giovane e anarchico Fabrizio l’umanità tipica del cristianesimo. Non per niente De Andrè definì Gesù, parlando dell’uomo e non della divinità, il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.

Il partigiano Andrea Gallo, d’altra parte, non poteva che diventare un prete anomalo. Un prete sopra le righe che fu trasferito in quanto definito comunista dalla borghesia sconcertata dalle sue omelie in cui cercò di far comprendere che più della droga fa male il linguaggio che tende a emarginare i meno fortunati.

Un uomo che ha lottato contro l’istituzione chiesa che lo voleva collocato in quei parametri retrogradi vicini forse alla Bibbia ma che hanno poco a che vedere con la figura di Cristo. Un sacerdote che ha dovuto sopportare il fuoco amico facendosi forza con la sua gente che era sporca esternamente ma trasudante di verità e limpidezza. Un  prete di strada che fece della carità cristiana una filosofia di vita e a cui tanti devono molto se non tutto.

Ma Don Gallo fu anche il prete che, sfidando ancora una volta l’impettita istituzione vaticana, disse queste parole: “I miei vangeli non sono quattro… Noi seguiamo da anni e anni il vangelo secondo De André, un cammino cioè in direzione ostinata e contraria. E possiamo confermarlo, constatarlo: dai diamanti non nasce niente, dal letame sbocciano i fiori”.

E che dedicò all’amico Faber questa bellissima lettera:

Caro Faber,

da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te e con tanti ragazzi in Comunità.
Quanti «Geordie» o «Michè», «Marinella» o «Bocca di Rosa» vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua. Anch’io ogni giorno, come prete, «verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e fame». Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione.
E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza.

Abbiamo riscoperto tutta la tua «antologia dell’amore», una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà.
E soprattutto, il tuo ricordo, le tue canzoni, ci stimolano ad andare avanti.
Caro Faber, tu non ci sei più ma restano gli emarginati, i pregiudizi, i diversi, restano l’ignoranza, l’arroganza, il potere, l’indifferenza.
La Comunità di san Benedetto ha aperto una porta in città. Nel 1971, mentre ascoltavamo il tuo album, Tutti morimmo a stento, in Comunità bussavano tanti personaggi derelitti e abbandonati: impiccati, migranti, tossicomani, suicidi, adolescenti traviate, bimbi impazziti per l’esplosione atomica.

Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente (che era ed è la nostra vita quotidiana) abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, alla solitudine può seguire l’amore, come a ogni inverno segue la primavera [«Ma tu che vai, ma tu rimani / anche la neve morirà domani / l’amore ancora ci passerà vicino / nella stagione del biancospino», da L’amore, ndr].
È vero, Faber, di loro, degli esclusi, dei loro «occhi troppo belli», la mia Comunità si sente parte. Loro sanno essere i nostri occhi belli.
Caro Faber, grazie!

Ti abbiamo lasciato cantando Storia di un impiegato, Canzone di Maggio. Ci sembrano troppo attuali. Ti sentiamo oggi così vicino, così stretto a noi. Grazie.

E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

Caro Faber, parli all’uomo, amando l’uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista.
Grazie.
Le ragazze e i ragazzi con don Andrea Gallo,
prete da marciapiede.

[In cammino con Francesco, Don Andrea Gallo, Chiarelettere ]

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