Ex tossicodipendente si rivolge ai giovani: “Parlate con i vostri genitori”

Destinazione Calabria, anno 1985: era la meta di C. giovane vissuto nell’Altomilanese ma di origini meridionali, per cercare di evadere da quella che, ormai, era diventata la sua quotidianità, l’eroina. Da lì, però, tutto è solo peggiorato…

[Leggi la prima parte della storia]

In Calabria alloggiavo da una zia, con me non avevo niente, nessuna droga. Durante il viaggio avevo solo una cosa in testa: sniffare. In treno tremavo, non vedevo l’ora di arrivare. Una volta arrivato, non vedevo l’ora di dormire. La prima notte, mi sono alzato silenzioso e ho cercato qualcosa per dormire: avevo freddo, nausea, vomito e tanti altri sintomi che mi facevano augurare solo di morire. Ma non trovavo niente: cosa avrei dovuto trovare casa? Eroina? Farmaci? Come potevo pensare a questo? Non ce la facevo più, ero più di là che di qua: vidi in una cristalliera una bottiglia di cognac e cominciai a farmi un paio di bicchieri giusto per cercare di dormire e rimandare tutto quello che stavo passando. In linea di massima, per un paio di ore ce l’ho fatta ma c’era il giorno. Ora, prova a immaginare nel mese di giugno in Calabria che temperatura ci possa essere, molto superiore del nord. Io in giravo per il paese come un cadavere, facevo domande del tipo ‘sai dove si trova un po’ di roba?

La gente mi guardava come se ero un marziano, non mi capiva, ero un alieno.

Il secondo giorno, a pranzo non ho mangiato niente ovviamente, mia zia che aveva una certa età era anche preoccupata. La sera, idem… aspettavo che andassero a letto per poi attaccarmi alla bottiglia per cercare di scaldarmi e dormire. La sigaretta aveva un sapore tremendo, non mangiavo e non dormivo da almeno 3 giorni. Avevo solo nausea, vomito (la bile), freddo, tanto freddo, ero bianco come un cadavere. Quando vomiti la Bile non sei in uno stato bello, anzi… così, al mattino del terzo giorno mia zia mi ha rispedito al nord, dicendomi che aveva degli impegni improvvisi. Ma sapevo la verità, aveva paura che mi succedesse qualcosa, non era normale quello che mi stava capitando. Poi, cosa molto grave, era che cercava di parlarmi ma io ero aggressivo, molto aggressivo e quindi aveva anche paura.

Sono tornato su, alla stazione di Milano mi aspettavano i miei familiari quindi non potevo neanche cercare qualcosa: altra notte in bianco, sentivo che da un momento all’altro potevo cadere, ero esausto. Involontariamente, non dicendo nulla a nessuno per tanti motivi, mi ero creato una situazione non bella. Tornato nel mio paese, mi hanno fatto fare mediche e analisi: tutto tranne l’ipotesi della droga. Tutti i medici dicevano a mio padre che era questione di esaurimento. Sapevo che non era così ma mi stava bene e stiamo parlando del quinto giorno dal ritorno dalla Calabria.

Nausea, vomito, occhi che sembravano schizzar via dalla testa.

Una tensione addosso che non era umana: siamo al sesto giorno dal mio ritorno al nord. Da un momento all’altro potevo scoppiare e non sapevo in cosa. Descriverti la sensazione fisica mi è impossibile, ti auguri solo la morte, per farla semplice. Facevo dei bagni caldi per riscaldarmi e poi mettermi sotto le coperte e sempre quel pensiero in testa: altro non c’era!

Il settimo giorno, un mio amico è venuto a trovarmi a casa dicendomi di uscire, doveva parlarmi. Il tempo di cambiarmi e sono uscito in cortile: mi ha passato una busta con 20-30 grammi di Eroina. Le gambe mi tremavano, i miei pensieri non so dove se ne siano andato. Gli ho stretto la mano e sono salito in camera, dicendogli che gli avrei fatto sapere. La qualità della roba era molto buona, direi una purezza del 40/50 %. Andava tagliata: avere questa purezza, se la spacciavi, significava collasso per overdose. Facendo i conti, con quel peso che avevo e la dose che occorreva, sarei stato bene per un bel po’.

Settimo giorno, quindi, con sorpresa: sentivo di rinascere.

Sentivo la forza tornare in me, una trasformazione in un giorno…

Mia madre ha pianto dalla felicità, era contenta che stavo bene ma nessuno dei miei pensava alla droga. Tutto tranne quello: pensavano al fidanzamento andato in fumo, pensavano a tutto tranne a quello. Io, d’altronde, non avevo segni sul braccio e quindi era scartata quell’ipotesi. Il bar intanto aveva perso molto in termini di clienti, in termini di denaro incassato. Dalle 700-800 mila lire dei tempi d’oro si era passati a circa 20 -30 mila lire, un disastro. Mio padre non sapeva darsi una ragione, solo voci che per lui erano infondate.

Non sapevo come avere dei soldi, quindi ho deciso di vendere qualcosa di quello che mi era stato dato e così è stato. Sempre sotto mia sorveglianza a chi la davo, se la sparava. D. a momenti ci lasciava le penne, vendetti e pagai i fornitori… Nel frattempo, mio padre a mia insaputa ha pensato di vendere il Bar: l’ho scoperto quando era già stata passata la licenza ai nuovi prorpietari. Siamo a metà del 1986: il desiderio di mio padre era quello che, prima o poi, sarebbe tornato nel nostro paese natio e così è stato.

Nell’estate del 1986 siamo tornati in Calabria.

Un paese di 3000 anime tra montagna e mare, aria bella e pulita. Quello che non era pulito ero io. Con un residuo di eroina, ho pensato che sarei andato a cercarlo in città. Allora mi sembrava tutto così semplice… Tutto semplice in Calabria? Tra giugno e dicembre penso di aver passato e fatto passare l’inferno a tutto il paese. Mio padre ha comprato la casa di mia nonna che dovevano rimettere a nuovo, quindi tutti i soldi servivano per la casa, mangiare e pagare l’affitto.

Qui in questa casa in affitto e in pieno centro del paese l’inferno non era niente! Ho cominciato nuovamente con l’astinenza e questa volta sapevo che non c’era nessuno che poteva bussare alla mia porta. Le urla che lanciavo per i dolori si sentivano a distanza. Alla mattina alle 4 sentivo solo una canzone, ‘Vita spericolata’ di Vasco a tutto volume cioè 300 watt in casa. Mia madre non ce la faceva più, aveva vergogna pure di andare per il paese. Mio padre era impotente, il mio fratellino piangeva di nascosto: ha pure interrotto le scuole superiori al nord per me, scendere e starmi dietro.

Hai presente l’alcol quello rosa che si usa per le pulizie e disinfettare un po’ le superfici?

Quello lo bevevo pur di farmi male e dormire e non pensare all’eroina. Mio padre con mio cugino e mio fratello, insieme al medico di famiglia, hanno deciso di mandarmi a Bari in un manicomio e così è stato. La mattina mi hanno messo in macchina dicendomi che avrei dovuto fare una visita: mi sono ritrovato in manicomio a Bari. Mi hanno dato una stanza mentre io ho chiesto agli infermieri che ci facessi lì. In dialetto barese mi hanno detto che non ero normale, non ero apposto con la testa, ridendo. Io ho risposto alla mia maniera, mandando a fanculo tutti.

Mi hanno detto di spogliarmi dandomi un pigiama stile carceri. Tra astinenza e quello che stavo andando incontro, non sapevo cosa fare. Non ricordo cosa sia successo ma ricordo come mi sono trovato. Quando sono arrivato in borghese avevo una spilla, avevo sì e no 10.000mila lire in tasca per delle piccole spese. Quando sono andato nella mia stanza, ho trovato il portafoglio vuoto e la spilla strappata e indossata da un infermiere. Mi sono incazzato come una bestia: non ero più io.

Manicomio

Foto: © Creative Commons – Flickr: Luca Rossato – Looking towards freedom

Mi hanno fatto una puntura veloce, mi sono risvegliato con mani e polsi legati con la corda delle tapparelle.

Mi trovavo legato e non potevo né alzarmi, né bere acqua. Gridavo e urlavo come un animale, mi ero stampato nella mente l’immagine dell’infermiere che mi ha preso la spilla, se mi fossi liberato l’avrei ammazzato. Stavo male per l’astinenza, i calmanti che mi somministravano mi calmavano un po’ i dolori ma il pensiero era lì e adesso anche là, dove l’infermiere, seduto nella sua scrivania, indossava la mia spilla.

Non so cosa abbia fatto, non ricordo come ma prova in una maniera, tira a destra e a sinistra, sono riuscito a liberarmi. Dai polsi mi scendeva sangue, era talmente tanta la rabbia che avevo in corpo che non so descriverti. Mi facevo delle domande, perché mio padre e la mia famiglia mi avevano fatto questo? Dentro di me, solo domande e nessuna risposta.

Con un cucchiaio lasciato in stanza dopo cena, ho deciso di farne un’arma. Mi sono alzato, ho preso il cucchiaio e, piano piano, senza farmi vedere, sono andato dall’infermiere che indossava la spilla. L’ho preso per il collo e gli ho detto di togliere la spilla, altrimenti gli avrei trapassato la gola. Gli ho detto che io con lui non avevo niente, di trattarmi come un essere umano, tante cose giuste dal mio punto di vista. Gli ho detto che un essere umano, se pur con qualche problema, non aveva il diritto di essere trattato così. Non ero e non erano bestie, in questo caso parlavo anche per gli altri ricoverati, una decina. Chi parlava con Napoleone, chi parlava con la fidanzata, chi vedeva gli alieni. Io no, ero solo in astinenza da eroina. Chiarita questa piccola cosa con l’infermiere che penso abbia passato i 5 minuti più brutti della sua vita, gli ho detto che la mattina seguente volevo parlare con il primario e telefonare a casa mia per farmi venire a prendere.

La mattina seguente nella sala ricezione del reparto c’era un bel movimento. Ho detto al primario quello che era successo e lui ha risposto che voleva fare denuncia: io, scrollando le spalle, gli ho detto di fare pure, avevo la fedina penale pulita (cosa che tutt’ora ho). Gli ho raccontato quello che l’infermiere aveva fatto, gli ho detto che se l’aveva fatto con me non osavo pensare con gli altri cosa facesse. Il primario era d’accordo con me. Sono stato dimesso e ho salutato tutti gli ammalati, non so perché ma mi facevano tenerezza. Ho aspettato che i miei arrivassero: il giorno prima mi avevano portato, il giorno dopo erano lì a riprendermi.

Dopo un centinaio di metri, ho visto una farmacia e ho chiesto di fermare la macchina e di darmi 10mila lire: ho preso una scatola di Tavor, tranquillanti senza prescrizione medica quindi con un dosaggio piccolo (25/50 mg). Sono andato in macchina e, davanti a mio fratello, mio cugino e mio padre, le ho prese tutte. Erano spaventati, io li ho tranquillizzati dicendo che mi sarei addormentato e non sarebbe successo nulla. Così è stato, ho dormito per tutto il viaggio. In meno di 24 ore ero ancora a casa e l’inferno riprendeva. Bottiglie di vino e liquori che sbattevo contro il muro, tutto il palazzo non ce la faceva più: gridavo, vomitavo e nessuno sapeva cosa avessi.

Dentro di me era nata una sfida: non accettavo il fatto che la tanta amata eroina mi avesse ridotto così.

Non so descriverti i dolori i pianti e la voglia di farla finita per sempre! I giorni passavano e l’imbarazzo dei miei in paese era tanto, così come nel palazzo. Tutti, compresi parenti e amici, invitavano mio padre a lasciare la casa. Per colpa mia avevo ridotto la mia famiglia in esseri che in paese non contavano più niente, neanche tra i parenti. Venivano denigrati per colpa mia, mio fratello, essendo più piccolo di una decina d’anni non sapeva più cosa fare, era nato al nord.

Anche lui veniva messo da parte da tutti mentre io ero sempre in casa a spaccare tutto e a chiedere solo alcool e tranquillanti per fare una miscela esplosiva.

Tra il 1987 e il 1988 circa, venne il giorno. Prima di aprile a mio padre hanno consegnato la casa grezza, solo i muri e un bagno finito. Il resto era tutto grezzo ma, pur di andar via da lì, perché le pressioni del condominio erano tante, siamo andati ad abitare in quella che era casa nostra, una villetta grezza non finita per tanti motivi, economici e non. Avevo la mia stanza, mio fratello la sua e mio padre con mia madre la loro. Niente tv, niente di niente, tutto vuoto con i letti prestati.

Per il paese non si parlava d’altro e ti assicuro che non era bello. Io nel frattempo stavo bene fisicamente ma non mentalmente: pensavo solo alla mia fidanzata eroina. Per scordarla mi buttavo giù di tutto, alla sera arrivavo trascinandomi per terra. Alla gente schifavo, mi evitavano che poi guarda il caso erano tutti parenti. Mi accadevano cose assurde del tipo un volo di 4 metri di altezza sotto un prato e io tranquillamente dormivo (ci sono le testimonianze, sindaco compreso). L’importante era raggiungere il sonno, solo così non ci pensavo. La mattina mi alzavo e guardavo mio fratello e i miei e vedevo che non erano felici, mancava a loro qualcosa.

La mattina mi alzavo e non sapevo se arrivavo a mezzogiorno, tanto avevo bevuto la sera prima, tanti farmaci avevo preso. Se un calmante stava per finire cominciavo a urlare, spaccare e scaraventare tutto contro il muro. Mia madre si era arresa anche a pulire. Mio fratello avrebbe voluto uccidermi; mio padre, forse, avrebbe voluto che morissi.

La sera i bar mi buttavano fuori dal locale anche se mi conoscevano.

Per farti capire bene: prendevo una boccetta di Valium, non ricordo il dosaggio (25/50 mg) prendevo una birra e 2 cognac, mettevo tutto insieme e giù di un fiato. Dopo 10 minuti non eri più in grado di fare 1+1, facevi solo un gran casino e voglia di fare a botte con tutti. Ricordo che una volta mi sono nascosto dentro al bagno mentre chiudevano un bar. Ormai, anche se mi mettevano le mani addosso, non serviva a niente.

Ero un cadavere vivente, puzzavo di morto…

Questa vita l’ho fatta per un anno e qualche mese e pensavo sempre alla mia fidanzata eroina. Era chiaro che dentro di me, ormai, avevo aperto una sfida: mai nessuno con certezza sapeva che in passato avevo usato eroina, in casa non l’ho mai detto, in giro per il paese non esisteva. Solo i miei amici al nord lo sapevano.

Una mattina, non ricordo se era di marzo o aprile, sono andato in bagno e, lavandomi la faccia, mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: ‘Così non si può andare avanti, se stai in famiglia devi far parte della famiglia, se invece vuoi farti la vita che vuoi, lasciali liberi. Non devono soffrire in questa maniera’.

Non so cosa sia successo quella mattina ma ho deciso di affrontare nuovamente la vita.

Ho deciso giorno per giorno e piano piano di scalare in tutto. Ho deciso di rimettermi in discussione, ho deciso tante cose in un attimo. Ho deciso che la mia vita, insieme a quella dei miei cari, non era quella. Avevo circa 29 anni.

Non era facile la scommessa con me stesso: una nuova scommessa di vita. La mia e la vita della mia famiglia. Fare 10 -13 anni di questa vita non era così semplice da cancellare. Mi sono detto che dove sarei arrivato, sarei arrivato ma avevo deciso di mollare la mia eterna fidanzata mentale, chiodo fisso della mia mente.

Sono riuscito a trovare un piccolo lavoro che mi portava in giro. Facevo disinfezione e disinfestazioni con una ditta pur di tenere la mente occupata ma la sera, ogni tanto, mi lasciavo ancora andare e esageravo. Non potendo avere la mia amata, sapevo come sballare: alcol e farmaci, una miscela micidiale. Ma sapevo dove e quanto, ora non esageravo più come prima.

Dopo un paio di anni e, se pur con un’aria difficile a casa, l’atmosfera era più serena e abbiamo tirato avanti. Tutto il paese sapeva della mia passione con la musica, non c’era ragazzo che non mi invidiasse per quello. Sono stato coinvolto nella costituzione di una radio libera, ne esistevano già 2 in paese. Sapendo con certezza che nell’ambito della musica non avevo confronto e avendo avuto esperienza radiofonica, riuscivo a coprirle tutte e 3 come speaker. Una radio era molto più in là nel senso della ricerca della musica in quel che si poteva, la seconda invece era più per la chiesa e non faceva per me. Mentre la terza costituita la potevo fare a mia immagine: avevo con me oltre 500 dischi portati dal nord, quindi ero abbastanza preparato.

Mi hanno affidato la parte tecnica della radio. Dormivo lì praticamente pur di avere la mente occupata. La gente mi ascoltava, le piccole soddisfazioni arrivavano. In quel periodo ho aperto anche 3 club: tutti i ragazzi avevano dei punti di ritrovo.

In estate grandi veglioni. I ragazzi in parte mi lasciavano stare nel senso che in materia di veglioni e musica non c’era confronto, avevo una marcia in più.

Ma, involontariamente, con il mio comportamento avevo creato in alcuni ragazzi lo sballo, cosa che fino allora non esisteva in paese. Volevano imitarmi: una ragazza si è chiusa nel bagno della radio e ha buttato giù un tubetto di farmaci, non so di che tipo, so che l’abbiamo dovuta portare al pronto soccorso.

Sono passati alcuni anni, tutto era quasi alle spalle a parte qualche sbronza ma la vita si incanalava nel senso giusto. La legge Mammì (6 agosto 1990 ndr.) ha fatto diventare le radio commerciali quindi pagare tasse su tasse, cosa che noi non potevamo permetterci: abbiamo dovuto chiuderle. Così sono andato a lavorare in una radio molto grande che copriva la Calabria, la Puglia jonica, la Basilicata e arrivava fino a Napoli. Quindi un bel lavoro: poi, se lo fai anche con gusto, il discorso cambia. Così, dopo 4 anni, tutto era alle spalle. Tutti mi conoscevano e tutti rispettavano la mia famiglia.

Avevo vinto la mia scommessa di vita.

Negli anni successivi, mia madre è morta di ictus fulminante. Io, nel frattempo, facevo l’assicuratore. Mio padre, ancora una volta, è dovuto stare male e questa volta per la donna con cui aveva condiviso tante avventure di vita, compresa la mia.

Oggi ho una famiglia: una figlia di 20 anni e una moglie. Ho un lavoro e una posizione, non mi manca niente. Ho ancora la musica: faccio il dj. Praticamente attendo solo di dover pagare il conto per quello che ho fatto. Prima o poi arriverà…

Oggi, in base alla mia esperienza, posso solo dare dei consigli ai figli: Parlate in casa, parlate anche di cazzate ma parlate. Non giudicate un genitore perché pensa al bene di un figlio. Oggi i miei mi mancano e tanto (piango mentre lo scrivo) ma giusto per far vedere che il loro figlio tanto dannato è qui.

Oggi capisco i sacrifici dei genitori per salvare a tutti i costi la vita di un figlio, oggi capisco tante cose che minimamente non erano neanche nell’anticamera del mio cervello. In mia figlia rivedo mia madre e mio padre quindi parlo molto con mia figlia, non ho segreti… compresa questa storia, come lei non ne ha con me.

Avrei ancora molto da scrivere e da dire ma mi limito. Non ho raccontato alcune cose, non perché non siano importanti, forse per pudore, forse per rispetto di chi non c’è più.

La mia storia di vita di confine.

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