Franco Mattoni un traduttore, interprete, speaker che fa cose edificanti

È un pomeriggio buio e piovoso, quasi tutti i negozi della metropoli sono chiusi, sulle strade bagnate i passanti mascherati camminano in fretta, lontani l’uno dall’altro, lanciandosi sguardi sospettosi. Adesso alcuni di loro entrano nella sala di un edificio con grandi finestre, in lontananza si sente il brusio monotono delle scale mobili, negli angoli della sala, quasi nascoste, un paio di persone vestite di scuro fissano come ipnotizzate i loro telefonini. Il silenzio regna sovrano, l’aria è piena di tensione, di paura. Il personale di sorveglianza fa il giro di ronda e con occhi arguti controlla, osserva tutto. All’improvviso si apre la porta d’entrata, eccolo, con passo atletico entra un uomo, anche lui mascherato come tutti gli altri. Una persona in piedi, appoggiata al tavolo del bar chiuso, dice un nome, lui va verso di lei, si salutano toccandosi il gomito e poi fanno un passo indietro, che strano, sarà un rituale segreto? Ma dove siamo? Che sta succedendo? Chi è il protagonista della storia?

Non siamo sul set di un film horror, niente rituali segreti, niente misteri. Siamo nella realtà di inizio 2021 e ancora una volta è in vigore il lockdown totale a causa del coronavirus. La sala con le grandi finestre è l’atrio di un centro culturale di Monaco dove normalmente c’è un pullulare di gente che va e viene in continuazione. Il protagonista che ora ci racconterà la sua storia di vita, è l’uomo dal passo atletico entrato poco fa. È Franco Mattoni un traduttore ed interprete che da decenni costruisce ponti di comunicazione di ogni forma e misura fra la Germania e l’Italia. Insomma un traduttore che fa cose edificanti!

Ciao Franco, vuoi presentarti alle nostre lettrici e ai nostri lettori?

Ciao, sono Franco Mattoni, ho 63 anni, lavoro come traduttore, interprete e speaker freelance. Sono originario di Foligno, nella verde Umbria, e vivo a Monaco e dintorni da ormai più di 40 anni.

Come è nata la tua passione per le lingue straniere?

La mia passione per le lingue nacque grazie alla lungimiranza dei miei genitori, che quando frequentavo le elementari, parliamo di metà/fine anni Sessanta, mi iscrissero ad un corso pomeridiano di inglese organizzato dalla scuola. Alle medie, poi, ebbi la fortuna di avere un’insegnante di inglese che evidentemente individuò presto in me determinate potenzialità per l’apprendimento delle lingue, tant’è che una volta disse a mia madre: “Suo figlio deve fare la scuola per interpreti”. Io, pertanto, frequentai le medie e il liceo scientifico con le idee abbastanza chiare sul percorso di formazione che avrei intrapreso dopo la maturità: mi sarei iscritto a una scuola per interpreti.

Traduzione: Lingua tedesca, lingua difficile.

Disegni ©Angela Gubert (qui la sua pagina Facebook) dal blog Obiettivo Altrove

Come mai hai scelto di studiare proprio la lingua tedesca, una lingua molto diversa dalle lingue romanze di cui fa parte l’italiano. In tedesco ci sono 3 articoli der (maschile), die (femminile), das (neutro), ci sono 4 casi di declinazione che si usano per declinare gli articoli, gli aggettivi, e i pronomi. Ci sono parole composte molto lunghe e poi il participio passato del verbo è alla fine della frase, mentre in italiano è all’inizio. Per non parlare della pronuncia.

La mia scelta risale ad un episodio abbastanza singolare, perché in verità la pulce nell’orecchio di imparare il tedesco me la mise una mia zia, zia Antonia. Era una zia molto cara, che però non aveva assolutamente conoscenze di lingue straniere e oltre a una prima alfabetizzazione non era andata. Non so se lei un bel giorno carpì qualche frase detta sulla lingua tedesca da suo genero, che invece era insegnante di inglese. Fatto sta che una volta se ne uscì dicendo: “Il tedesco sarà la lingua del futuro”. Parliamo degli anni ’70, devo aver avuto 15 o 16 anni. Mia zia disse questa frase con una convinzione tale che io le credetti e di lì a poco cominciai a cercare un corso di tedesco. All’epoca c’erano le audiocassette e, addirittura, i dischi da 45 giri con corsi di lingue. Io ne trovai proprio uno del genere, non so più né dove né come; addirittura venne una persona a casa nostra, presentò il corso alla mia famiglia e alla fine cominciai ad avvicinarmi a questa lingua. Dopo due mesi, però, smisi anche perché nel corso non c’era alcun meccanismo di controllo dei progressi che venivano fatti. Più tardi, poi, ripresi all’università.

Quindi hai studiato lingue straniere all’università.

Sì, ho studiato lingue e letteratura straniere all’università di Perugia, ho scelto tedesco e inglese seguendo i corsi per due anni perché poi, non dovrei dirlo troppo forte, ho smesso dopo aver dato 9 esami e mezzo. Smisi, più o meno, quando decisi di venire a Monaco per tre mesi per imparare un po’ meglio il tedesco che, invece, all’università non veniva curato molto. Lì ci si focalizzava sulla letteratura, che peraltro non doveva neanche essere letta in lingua, se non a partire dal terzo o quarto anno addirittura. Venendo a Monaco d’estate e lavorando in un albergo – niente di che, lo fanno in molti e per me era un’occasione per venire a contatto un po’ meglio con la realtà linguistica tedesca –  scoprii che in questa città c’era una scuola di lingue e di interpretariato, lo
Sprachen-und Dolmetscher-Institut München (SDI) che a quei tempi era ancora nella Amalien Strasse, nel quartiere studentesco di Schwabing (dal 2011 l’SDI è stato trasferito nella zona sud-ovest della città). Questa strada avevo già cercato di intraprenderla in Italia alla fine del liceo, come accennavo poc’anzi, ma il progetto purtroppo era naufragato per via delle scarse finanze di casa, che non potevano permettersi di mantenermi in una scuola privata abbastanza costosa, tra l’altro o a Roma o a Firenze, città anch’esse non proprio economiche. Per questo, all’epoca avevo dovuto ripiegare su lingue a Perugia. Arrivato a Monaco mi resi conto, ben presto, che potevo forse coronare il mio sogno di frequentare una scuola per interpreti senza gravare sulle finanze di casa, ma mantenendomi da solo, cosa che poi si è anche avverata. Decisi quindi di rimanere qua, di piantare praticamente l’università dopo 9 esami e mezzo, una cosa da pazzi, creando anche non pochi dispiaceri alla mia famiglia, soprattutto a mio padre che non voleva crederci.

E come è continuata l’avventura?

Un mese e mezzo dopo essere arrivato qui, ho cominciato a frequentare l’SDI. In massima parte, perlomeno nei primi mesi, con un lavoro fisso che facevo di pomeriggio/sera, mentre la mattina andavo alle lezioni; era un discreto massacro, ma alla fine si fa tutto. Poi, pian piano le cose sono un po’ migliorate, avendo trovato un modo un po’ più blando per mantenermi: non andavo più a lavorare ogni giorno ma solo in determinati giorni alla settimana. Così ho potuto continuare a frequentare la scuola in maniera più appropriata.

Poi sei diventato un bravo traduttore ed interprete, cosa che inorgogliva anche gli altri studenti della sezione italiana.

Grazie dell’apprezzamento. In verità, mentre frequentavo l’SDI non ero neanche molto convinto delle mie capacità. Una volta, l’allora responsabile della sezione italiana, signora Vaccaro, organizzò una conferenza nella scuola stessa dando la possibilità agli studenti di impratichirsi un po’ con l’interpretariato. Io ebbi il compito di tradurre in consecutiva proprio il suo indirizzo di saluto ai partecipanti. Terminato l’evento, mi ritrovai all’uscita della scuola con la signora Vaccaro accanto che mi disse “Vedrò di consigliarla quando ci arriva qualche richiesta di interpretariato”. Io rimasi lì quasi incredulo e pensai tra me e me: “Sì sì, puoi raccontarmi quello che ti pare, ma io prima, durante il mio intervento, non ho fatto proprio una bella figura.”

È in questa fase della tua vita che hai conosciuto Maria Luisa, quella che poi è diventata tua moglie? Come vi siete conosciuti?

In verità ci eravamo conosciuti qualche anno prima, in modo singolare. Nel febbraio del ’79, ero a Monaco già da qualche mese, tornai dalle mie parti per rivedere i vecchi amici dell’università e anche per capire se era ipotizzabile continuare gli studi in una qualche maniera, dando esami quando avevo tempo, ma concentrandomi comunque in primis sull’SDI di Monaco. Maria Luisa ed io ci incontrammo a una festa di carnevale organizzata da amici comuni a Terni. Lei era originaria di Spoleto, una città a 25 chilometri da Foligno. Successivamente trascorse brevi periodi di tempo da me a Monaco, dovendo frequentare l’università, anche lei l’università a Perugia, prima di trasferirsi qua in pianta stabile nel 1980.

Nell’82 ci siamo sposati e in quell’anno c’è stata la grande svolta della mia vita. Dall’80 all’82 io mi mantenevo agli studi e nella vita suonando come bassista in una band che faceva musica da ballo. La band l’avevo trovata tramite un compagno di studi della sezione italiana dell’SDI che vi suonava, Nello. Io avevo già avuto una breve esperienza musicale come bassista a Foligno negli anni Settanta, mentre Nello era stato musicista professionista in giro per l’Europa per diversi anni prima di fermarsi a Monaco dove viveva la sua fidanzata. Con la musica, dunque, sbarcavo il lunario: da studente erano sufficienti tre serate al mese per assicurare il sostentamento mio e di Maria Luisa. Ci accontentavamo di poco: abitavamo in un appartamento di 29 metri quadrati costruito negli anni Trenta in un programma di case popolari dell’epoca. Gli stabili vennero abbattuti, poi, diversi anni dopo per far spazio a edifici più moderni.

Traduzione: Sei una bella ragazza.

Sì, trovare un appartamento in affitto a Monaco è sempre un grande problema, da allora non è cambiato molto.

Beh, all’epoca, di affitto pagavamo appena 71 Marchi, all’incirca 36 Euro di oggi. Nell’appartamento c’era una sola presa d’acqua, un solo rubinetto, i servizi li abbiamo messi noi perché i locali erano stati resi inabitabili. Visto che quando mi sono sposato era in arrivo anche mia figlia, a lei non potevamo dare delle condizioni abitative di quel genere, per cui c’è stato il passaggio dai 71 Marchi ai 1200 in un appartamento di 80 metri quadrati, naturalmente ben diverso da quello degli anni Trenta in cui abitavamo inizialmente. Per affrontare questa situazione da un punto di vista economico non bastava più esibirsi con la band tre volte al mese. Da lì ho cominciato fortunatamente a fare le prime traduzioni, la scuola l’avevo già finita, ma neanche quello bastava lontanamente. Un giorno andai a bussare alla porta della signora Vaccaro per chiederle se aveva qualche ora di lezione da farmi fare, anche se fino a quel momento avevo sempre sostenuto che l’insegnamento non era pane per i miei denti. In quel periodo, inoltre, insegnavo italiano in tre diverse VHS (università popolare) di Monaco e dintorni. E poi c’era anche la famiglia a cui dedicare un po’ di attenzione. Insomma, il primo anno dopo la nascita di nostra figlia Ilaria giravo come una trottola, anche perché l’attività musicale naturalmente continuava.

Poi tua moglie Maria Luisa ci ha lasciati.

Sì, ci ha lasciati nel ’92, è stata una cosa assolutamente improvvisa avvenuta anche in condizioni parecchio scioccanti. Io ero a Salisburgo per lavoro. Maria Luisa venne a mancare nel nostro appartamento. A pomeriggio inoltrato, nostra figlia Ilaria tornò a casa dal doposcuola, fortunatamente accompagnata dal padre di un’altra bambina. E fortunatamente non aveva le chiavi di casa, altrimenti non so che shock avrebbe vissuto. Lei, dapprima, si rivolse ai vicini i quali, a loro volta, contattarono due amiche di famiglia. Guardando dalla strada antistante l’appartamento, videro che in cucina c’era la luce accesa, era un tardo pomeriggio di ottobre. Poi controllarono anche in garage dove trovarono parcheggiata la nostra macchina che io non avevo preso per andare a Salisburgo. A quel punto si allarmarono e chiamarono la polizia.

Quindi è stata una brutta fase della tua vita, ma si va avanti, anche perché avevi una figlia di dieci anni a cui pensare.

Sì, è stata più che altro Ilaria a darmi la spinta. A quel punto uno deve riorganizzarsi la vita letteralmente da un giorno all’altro. Anche per mia figlia è stata una brutta botta, comunque in qualche modo ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo guardato avanti e alla fine siamo anche andati avanti.

Ti sei diplomato nel 1982 e nello stesso anno hai cominciato a insegnare alla scuola interpreti. Tu cosa insegnavi?

Alla scuola per interpreti viene data una preparazione tale da consentire agli studenti, poi, di immettersi nel mercato del lavoro. Io insegnavo sostanzialmente traduzioni di economia, negli ultimi due anni anche nozioni di economia. Il programma prevedeva diversi temi, che venivano spiegati agli studenti e che ci dividevamo la signora Vaccaro ed io. Gli argomenti che io trattavo erano, ad esempio: come funziona la Borsa valori, come è strutturato il bilancio di un’azienda, che funzioni hanno le istituzioni europee. Inoltre insegnavo anche interpretariato simultaneo, consecutivo e di trattativa.

Alla scuola interpreti la tua seconda lingua era l’inglese e ti sei specializzato in economia. Ti è servito questo quando sei uscito dalla scuola?

Mi è servito sicuramente, ma a scoppio ritardato, cioè diversi anni dopo che ho iniziato la professione. Soprattutto all’inizio, quando entri sul mercato come freelance, devi essere un po’ versatile e prendere tutto quello che passa il convento. Devi, quindi, acquisire anche conoscenze di tecnica, di argomenti giuridici e così via.

Io penso che qui a Monaco ci sia parecchio lavoro per i traduttori. Si guadagna più che in Italia?

Bisogna fare un po’ un distinguo. Da una parte il gettito di lavoro, dall’altra il ritorno economico. Sul ritorno economico non finisco di stupirmi del divario delle tariffe che c’è tra l’Italia e la Germania; qui pagano decisamente meglio. Non più di 4 mesi fa venni contattato da un ex compagno studente dell’università di Perugia, anch’egli diventato poi traduttore e interprete, per una traduzione da fare insieme dei sottotitoli di un’intervista della durata di un’ora e mezza con più persone. Traduzione urgente, richiesta arrivata un venerdì mattina con consegna auspicata la mattina successiva, dunque sabato. Alla fine, riuscimmo a ottenere il lunedì per la consegna, lavorando io fino alle quattro e un quarto di quella mattina per terminare la mia parte e ricontrollare quella del collega; nuovamente un turno di lavoro notturno a vent’anni dall’ultima esperienza. Dopo di che trascorrono 3 settimane prima che il cliente si rifaccia vivo presso il mio collega per comunicargli l’onorario, non concordato in precedenza visto il rapporto di lavoro già esistente tra il collega e il suo cliente. Prezzo da fatturare: 450 Euro in tutto. A conti fatti, 3 centesimi a parola, quando la media in Italia è di 6 centesimi e il mio prezzo in Germania è di 16. Va anche detto che in Germania il lavoro è riconosciuto di più, anche se in una piazza come Monaco, per quanto riguarda l’italiano, c’è una concorrenza molto forte.

C’è qualche episodio nella tua vita professionale che ricordi con simpatia, qualche situazione che è successa durante i primi lavori che hai fatto?

Sì, ci sono degli episodi carini che mi sono successi. Uno risale all’inizio della mia carriera in cui feci un classico errore da principiante. Era il mio secondo lavoro di interpretariato in assoluto, un incontro che durava tutto il giorno. A un certo punto andammo a pranzo e lì vidi bene di mangiare più del dovuto, dimenticando che in tali casi la digestione può darmi sonnolenza. Ma il bello venne dopo. Forse per non sfigurare, non so perché, bevvi mezzo bicchiere del vino che c’era a tavola, io che ancora oggi consumo bevande alcooliche saltuariamente e all’epoca bevevo un bicchiere di vino solo due o tre volte all’anno. A un certo punto, mentre eravamo ancora a tavola e l’interpretariato continuava, mi resi conto che facevo fatica a tenere gli occhi aperti, non so che impressione abbiano avuto le persone per le quali lavoravo. Sono cose che vanno evitate tassativamente, io l’ho fatto una volta sola, da allora in poi solo acqua minerale. Nei lavori di interpretariato succede spesso che l’interprete, a pranzo, non mangi più di tanto, perché i colloqui continuano anche quando si è a tavola e lui non può certo dire di smettere di parlare, perché deve mangiare. Nel corso degli anni, quante pietanze e quanti caffè mi si sono freddati!

Con la tua attività di traduttore ed interprete professionale sei un costruttore di ponti fra la Germania e l’Italia e quindi faciliti gli scambi commerciali e culturali dei due Paesi. Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

Il bello dell’attività dell’interprete è il contatto con le persone, diversamente dalle traduzioni scritte dove ti confronti solo con il testo di partenza. Io ho avuto la fortuna di aver a che fare sia con personaggi celebri che molto meno celebri. Nel 2011, ad esempio, accompagnai Bud Spencer per 3 giorni come interprete quando venne a presentare un suo libro a Monaco, Stoccarda e Schwäbisch Gmünd. Ti assicuro che nonostante avessi già tre decenni di professione alle spalle e qualche altra celerità per la quale avevo lavorato, quando mi sono visto davanti Bud Spencer per la prima volta mi sono tremate letteralmente le gambe.

Un altro personaggio che mi impressionò fu Giovanni Trapattoni. A parte il fatto che mi interesso di calcio e che Trapattoni, a suo tempo, giocava nella prima squadra per la quale ho fatto il tifo, il mitico Milan degli anni Sessanta, mi ricordo che quando ci feci quattro chiacchiere per la prima volta aspettando l’intervista che avrei tradotto, dopo 10 minuti ebbi l’impressione che ci conoscevamo già da tantissimo tempo, una persona alla mano, un uomo incredibile.

Poi, però, hai anche l’altra faccia della medaglia: l’interpretariato con la gente comune, quella lontana dai brillantini e dai luccichii dei VIP. Come con i tanti ex-dipendenti italiani delle Poste tedesche che per 40 anni si sono spaccati la schiena a sollevare sacchi pieni di lettere e pacchetti e che vengono visitati dall’ennesimo specialista per ottenere la pensione di invalidità con il timore che non gli venga riconosciuta; che non chiudono occhio di notte per quanti dolori hanno, causati dalla loro professione. Ti racconto questo perché se con Bud Spencer, in qualche modo, ti sembra quasi di volare e di abbandonare il suolo terrestre, i racconti degli ex-dipendenti delle Poste ti riportano con i piedi per terra in modo brutale. Anche questo è il bello di questa professione: ti fa conoscere un personaggio, una realtà, e anche l’esatto opposto.

Attualmente si parla molto di transumanesimo e di intelligenza artificiale. Pensi che questa nuova tecnologia sostituirà il traduttore umano?

Senza fare tanti giri di parole io penso che non sostituirà del tutto il traduttore umano. Se 5 o 6 anni fa strumenti come Google Translate facevano ancora per lo meno sorridere, oggi non lo fanno più, e Google Translate non è neanche lo strumento più avanzato. È una nuova sfida che va affrontata, consapevoli del fatto che essa e gli strumenti di traduzione che esistono oggi comporteranno anche la scomparsa di un po’ di traduttori. Quello di cui c’è bisogno oggi più che mai è una specializzazione. Oggi un traduttore sopravvive se occupa una nicchia in cui, al massimo, ci sono pochissimi altri colleghi. In questo caso, egli ha un futuro; altrimenti la sua figura diventa, più che altro, quella di un revisore di testi già tradotti da una macchina.

E secondo te questo è valido per tutti i tipi di traduzione?

No, bisogna distinguere le tipologie di traduzione che possono essere fatte solo da un traduttore umano e quelle che, invece, possono essere gestite anche da una macchina e sulle quali, alla fine, il traduttore umano esegue la revisione. Il manuale per le istruzioni per l’uso è un continuo ripetersi di: accendi qui, spegni là, attacca questo, spegni quello. Se vogliamo, anche un contratto ha molte parti che vengono riprese pari, pari. Chiaramente, dove un traduttore automatico avrà molto da combattere, e non so se alla fine ci riuscirà, è nelle traduzioni letterarie, lì non ci piove.

Tuttavia, gli ausili automatici di traduzione di ultima generazione fanno sì che la traduzione umana diventi più performante, nel senso che se oggi tu traduttore umano, con la tua testa e con le tue conoscenze, sei in grado di tradurre 10 pagine al giorno, domani con la traduzione automatica ne farai forse il doppio. Se prima un’agenzia di traduzioni, per gestire volumi di lavoro consistenti in tempi ridotti, era costretta a ripartire il lavoro su due persone, adesso ne ha bisogno di una sola. E questo farà sì che il numero dei traduttori, volente o nolente, diminuirà.

A me una situazione del genere piace poco, lo dico chiaro e tondo, però bisogna imparare a conviverci.

Nel tuo lavoro di traduttore la lingua di partenza è molto diversa da quella di arrivo, quindi ti trovi davanti a una situazione asimmetrica che devi rielaborare e rendere comprensibile al destinatario. In questo caso possiamo dire che c’è anche creatività nel tuo lavoro?

Sicuramente. I testi che mi stimolano di più sono quelli in cui c’è da lavorarci sopra per renderli scorrevoli, affinché, una volta tradotti, essi suonino come testi originali e non come traduzioni. La creatività, ad esempio, serve nelle traduzioni letterarie. O anche nel riadattamento di testi pubblicitari, la grande maggioranza dei quali non può essere tradotta pari pari dal testo originale, ma necessita comunque di un rimaneggiamento in cui un tocco di creatività è assolutamente necessario.

Dal conseguimento del diploma ad adesso hai svolto molte attività: traduzioni scritte, consecutive e simultanee, doppiaggio, speakeraggio. Hai lavorato per decine di aziende di alto livello.

Oltre a tutto ciò sai suonare la chitarra e sai cantare molto bene. Ci racconti qualcosa sulla tua passione per la musica e il canto?

La musica e il canto sono il mio grande hobby. Mia madre diceva che a 3 anni cantavo “Marina” molto bene. Francamente io non me lo ricordo. Per il resto penso di essere stato fortunato e di aver incontrato, nella mia adolescenza, persone e coetanei che mi hanno dato una dritta in termini musicali, indirizzandomi verso band e tendenze destinate ad accompagnarmi fino ai giorni nostri. Una formazione che già all’epoca mi faceva impazzire e che ancora oggi vado a cercare continuamente su You Tube è la Premiata Forneria Marconi, la PFM. Facevano, e fanno ancora, progressive rock. È lo stesso filone a cui appartenevano anche i Genesis, i Queen e tanti altri grandi nomi di quell’epoca. Quella musica è una delle più belle e più ricercate che abbia mai ascoltato.

Franco Mattoni alla chitarra

Ci hai detto che sei in Germania da più di 40 anni. Ti manca l’Italia?

Domanda da 100 milioni. Devo dire che l’Italia mi manca fino a un certo punto. Mi mancano forse gli odori dell’Italia. Mi ricordo che una volta a inizio estate, di ritorno da Monaco, arrivai a Foligno in treno poco prima di mezzanotte, non feci in tempo ad aprire la porta per scendere che inalai subito l’intenso profumo degli alberi in fiore, credo fossero dei gelsomini, e pensai: Questa è casa mia. Per il resto, forse vivo nella città sbagliata per dire che mi manca l’Italia. A Monaco di espressioni di vita italiana ne trovi veramente tante, se vuoi. Io, in verità, fin dall’inizio ho cercato di girare alla larga dalla realtà italiana della città, pensando che se avessi frequentato questa realtà, la missione per cui ero venuto in Germania sarebbe fallita fin dall’inizio. Volevo integrarmi nella realtà tedesca, capire come funzionava, capire come funziona la lingua, leggere giornali tedeschi e non interagire con persone che parlavano la mia stessa lingua. Se l’avessi fatto, ad esempio frequentando i circoli italiani che già c’erano allora, non avrei fatto grandi sforzi a comprendere gli altri e a farmi comprendere, non avrei affrontato la sfida dell’integrazione che, invece, mi ero prefisso di affrontare.

Mi manca la cucina italiana? Direi di no. A metà degli anni ’80 lessi un titolo del quotidiano monacense Abendzeitung secondo cui all’epoca a Monaco c’erano 605 ristoranti italiani. E anche oggi non ne vedo che abbandonano l’attività ma, anzi, se ne aggiungono sempre di più, per cui se avessi voglia del tipico piatto italiano, non avrei che l’imbarazzo della scelta. Anche a livello culturale, l’offerta di opere italiane di vari settori è decisamente interessante, e ad essa contribuisce anche l’Istituto Italiano di Cultura.

Ci sono delle feste tradizionali della tua terra umbra a cui sei particolarmente affezionato?

Sì, ce ne sono almeno due: la Giostra della Quintana di Foligno e le Infiorate di Spello. Ebbi la fortuna di partecipare a entrambe. Alla Giostra della Quintana sono stato tamburino del mio rione, lo Spada, anche se poi, in quell’edizione, purtroppo arrivammo ultimi. A Spello sono stato presente la notte prima dell’infiorata, quando c’è un fervore di attività, tutti stanno lì a preparare questi meravigliosi tappeti di fiori. È un evento bellissimo; la cosa tremenda è che il lavoro di giorni e ore viene poi calpestato durante la processione del Corpus Domini nel giro di due secondi. Dicono che sia per ricordare il senso effimero della bellezza.

Cos’è per te la vita?

Per me la vita, in primis, è gestire le esigenze quotidiane. È una continua ricerca della sicurezza, soprattutto economica. Ma è anche la ricerca della pace interiore, della felicità, è la cura degli affetti, la cura degli interessi personali. È la ricerca del piacere, della bellezza. In fondo, la vita è un viaggio pieno di opportunità che sta a te cogliere o meno.

Qual è la tua canzone preferita?

Oh, questa è una domanda difficile. Temo che non abbia una canzone preferita. Ce ne sono davvero tante che mi piacciono e che riascolto sempre volentieri. Provo a citare solo alcuni brani in ordine sparso: Cose della vita di Eros Ramazzotti, Bocca di rosa di De André (che poesia!), Le quattro stagioni di Vivaldi (un autentico capolavoro), il repertorio dei Beatles, Allentown di Billy Joel, Bohemian Rhapsody dei Queen, It’s raining again dei Supertramp, Firth of Fifth dei Genesis, Jump di Van Halen, È festa della PFM. Ascolto volentieri A te di Jovanotti che, quando la cantavo io stesso le prime volte mi provocava, in alcuni punti del testo, un autentico groppo alla gola. Mi piacciono Adele, Shania Twain, mi piace Zucchero. E ti assicuro che l’elenco sarebbe ancora lungo.

E allora, per finire, lasciamoci coccolare proprio da un brano di Zucchero, Il volo, cantata per l’occasione da Franco (clicca qui per ascoltare)

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