Industria della moda e mobilitazioni 5 anni dopo il crollo di Rana Plaza

#ranaplazaneveragain – Riflessioni e mobilitazioni in occasione del 5° anniversario del crollo di Rana Plaza quando persero la vita 1.129 persone nella fabbrica di vestiti a Dacca, la capitale del Bangladesh. 5.215 i feriti.

Ci sono migliaia di persone, ogni giorno, che passano silenziose ore piegati sulle loro macchine da cucire per permettersi di pagare il cibo per se stessi e i loro figli. Ci sono migliaia di persone, ogni giorno, che gridano all’affare grazie all’acquisto del nuovo capo di abbigliamento low cost. I primi vanno avanti a stenti, sognando la sicurezza e una vita serena. I secondi si lamentano di avere troppo poco e non apparire abbastanza fighi.

Un po’ tra retorica e realtà, vogliamo ricordare quando, il 24 aprile 2013, 1.129 persone (almeno) morirono sotto il crollo della fabbrica che dava loro una parvenza di stipendio. Crepe da tempo visibili ma che nessuno aveva il coraggio di denunciare: o dentro e accetti, o fuori e muori di fame.

Come spesso accade, i terribili casi di cronaca servono, almeno, a portare alta l’attenzione su un fenomeno e a migliorarne le condizioni. Ma è stato davvero così per quanto riguarda l’industria dell’abbigliamento?

Il passo più visibile, almeno per citare quanto deciso ufficialmente, fu l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh firmato da circa 220 marchi della moda. Grazie al patto (in scadenza a maggio) sono state ispezionate 1600 fabbriche portando a compimento l’85% degli interventi necessari.

#ranaplazaneveragain, Clean Clothes Campaign (CCC)

Oggi quindi si guarda avanti o perlomeno si cerca di continuare gli accordi grazie alla mobilitazione internazionale Clean Clothes Campaign (CCC) e la sezione italiana Campagna Abiti Puliti, una rete di più 250 partner che mira al miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale. Lavora in coordinamento con le coalizioni attive in 17 paesi europei e in collaborazione con le organizzazioni di diritti del lavoro in Canada, Stati Uniti e Australia.

Dal 2013, infatti, alcune aziende sono già uscite dall’accordo, altre non sono mai entrate. Così la mobilitazione cerca di far accrescere la popolazione più sensibile proponendo una serie di azioni che ogni singolo cittadino può portare avanti (in questo link).

“Stiamo facendo pressione su quei marchi che avevano già sottoscritto il primo Accordo affinché rinnovino il loro impegno – spiega la Campagna – Tra questi ricordiamo il marchio italiano Teddy S.p.A, Abercrombie & Fitch, Sainsbury’s e Gekas Ullared. Per Abercrombie & Fitch è stata prevista una giornata specifica di mobilitazione di Clean Clothes Campaign, International Labor Rights Forum, United Students Against Sweatshops e altri alleati. Sainsbury’s è l’unica ancora reticente tra 6 aziende target di una petizione lanciata da SumofUs lo scorso febbraio.

Poi ci stiamo rivolgendo a quelle aziende che non hanno mai sottoscritto la prima versione dell’Accordo per chiedergli di abbandonare le ispezioni unilaterali aziendali e impegnarsi in un programma ispettivo credibile e trasparente come quello previsto dall’Accordo. Tra queste VF Corporation (The North Face, Timberland, Lee, Wrangler), Gap, Walmart, Decathlon e New Yorker.

Infine, raccogliamo la possibilità offerta dal nuovo Accordo 2018 di includere anche fabbriche che producono accessori tessili, a maglia e in tessuto non necessariamente di abbigliamento. È ad esempio il caso di marchi come IKEA, chiamati ad assumersi anche loro la responsabilità di garantire la sicurezza per i propri lavoratori sfruttando l’opportunità offerta dall’Accordo 2018”.

Per chi volesse, a questo link (cleanclothes.org) c’è la lista di tutti i marchi che hanno già firmato l’accordo. L’invito di Campagna Abiti Puliti è allora quello di scrivere al proprio brand di riferimento che manca all’elenco e invitarlo a sottoscrivere il trattato. L’hashtag di riferimento è #ranaplazaneveragain

#fashionrevolution per un’industria più trasparente

A mobilitarsi inoltre c’è anche la #FashionRevolution nata “per chiedere un’industria più sicura, giusta e trasparente”.

There are many ways you can be a Fashion Revolutionary.
Use your voice and your power to make positive change.

«Ci sono molti modi con i quali puoi essere un Fashion Revolutionary – recita la campagna – usa la tua voce e il tuo potere per portare cambiamento positivo».
Dal sito online è infatti possibile inviare una mail, twittare o postare su instagram l’hashtag della campagna. Ovvero chiedere ai brand #whomademyclothes (chi crea i miei abiti). “Quando chiedi, loro ascoltano – scrivono – Da quando Fashion Revolution è iniziata, centinaia di brand hanno aumentato la loro trasparenza sull’origine dei loro vestiti. Incoraggia altri brand a fare lo stesso”.

Per approfondire la questione c’è un interessante documentario realizzato da Livia Giuggioli Firth, moglie di Colin Firth, che da tempo in prima linea per questa denuncia. Nel 2015, infatti, in veste di produttrice esecutiva ha realizzato il documentario The True Cost (acquistabile qui), diretto da Andrew Morgan, incentrato sulla cosiddetta fast fashion, settore che rinnova in tempi rapidissimi i capi d’abbigliamento messi in vendita.

Qualche foto provocatoria è stata invece realizzata da Igor Dobrowolski l’artista polacco che denuncia lo sfruttamento dell’industria della moda. Ne abbiamo parlato qui.

sfruttamento dell'industria della moda

Potremmo poi aprire un dibattito sul consumismo in generale e su quanto questo porti a sfruttare, oltre le persone, anche l’ambiente, con cicli produttivi innaturali e soggetti a prodotti chimici nocivi per la terra e per la pelle stessa di chi indossa questi effimeri abiti. Ma il discorso potrebbe non finire mai.

Allora intanto non dimentichiamoci di twittare #whomademyclothes ai nostri cari brand preferiti affinché #ranaplazaneveragain dove Rana Plaza è solo un caso-simbolo (tremendamente vero) di quanto l’apologia dell’apparenza domini ora sull’essere. Non è vero che niente può cambiare. Almeno proviamo a sognare insieme un’industria della moda sostenibile. Proviamo a sognare un mondo dove gli abiti che indossiamo non portino dietro di sé eredità di sangue e ferite di chi lotta per un pezzo di pane ogni giorno. Proviamo a sognare un mondo dove questo controsenso (latente in molti), strida nelle orecchie di tutti più fastidiosamente di un gessetto male inclinato sulla lavagna. Sognare, almeno, è ancora più low cost  ma porta benefici per tutti.

Photo © Flickr Solidarity Center 

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