Invece di “clandestino” scriviamo “persona” e vediamo l’effetto che fa

«Proviamo a sostituire le parole che cancellano le identità e incutono paura con quelle più appropriate. Invece di “clandestino” scriviamo “persona” e vediamo l’effetto che fa».  È la proposta dell’Associazione Carta di Roma con lo scopo di cominciare a ragionare sull’uso delle parole, attorno alla tematica dell’immigrazione. L’appello, ovviamente, è rivolto prima di tutto a giornalisti e operatori dell’informazione.

La scelta delle parole, insomma, è fondamentale. Grazie ad esse diamo una specifica forma e significato a una narrazione. Ma l’associazione del presidente Valerio Cataldi mette le mani avanti: «Le parole non sono mai sbagliate, è l‘uso che ne facciamo che può essere sbagliato, che può deformare il fatto che viene raccontato. Nel racconto delle migrazioni è sempre successo che le parole disegnassero il fenomeno con una forma diversa da quella reale».

«All’inizio, ad esempio – prosegue l’appello – erano tutti marocchini, a prescindere dal colore, dalla provenienza. Erano talmente marocchini che un giornale fece un titolo su un incidente stradale scrivendo “morto un uomo e un marocchino”».

Di fatto, l’Associazione Carta di Roma è stata fondata nel dicembre 2011 per attuare il protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, siglato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (CNOG) e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) nel giugno del 2008.

Così oggi, posti di fronte a un massiccio bombardamento della tematica immigrazione quasi solo paragonata alla clandestinità (anche da parte dei più alti rappresentati dello Stato), il sodalizio si fa portavoce di una nuova proposta. Innanzitutto per ricordarci che, in ogni caso, stiamo parlando di altri esseri umani, proprio come noi.

Insomma, «le parole usate male spersonalizzano, cancellano le identità, incutono paura. Le parole fanno le cose e diventano cose, si trasformano sempre più facilmente in azione. Se sono parole violente diventano atti violenti e se non diamo la giusta importanza alle parole non riusciremo a dare giusta importanza neanche agli atti che ne sono diretta conseguenza».

Non per niente si parla anche di neuroscienza dei discorsi di odio. Come scrive Richard A. Friedman in un articolo del New York Times, infatti, «è difficile dimostrare che i discorsi incendiari siano una causa diretta di atti violenti. Ma gli umani sono creature sociali facilmente influenzate dalla rabbia che è ovunque in questi giorni». Come dimostrato da uno studio condotto in Polonia, ad esempio, l’esposizione ripetuta a discorsi di incitamento all’odio può aumentare i pregiudizi e desensibilizzare gli individui verso le aggressioni verbali.

Il pensiero del giornalista del New York Times, ovviamente, è diretto al panorama americano e alle parole d’odio diffuse dal presidente Donald Trump. Ma non è difficile trovare un paragone diretto anche in Italia.

Allora, se le parole possono essere fonte di paura e terrore, possono anche generare positività. L’invito finale è quindi quello di riportare in primo piano termini chiave come rispettoverità e giustizia «per arginare il dilagare dell’intolleranza che si nutre di false notizie le quali, a loro volta, si nutrono di odio, in un circolo perverso e devastante».

Insomma, proviamo tutti a vedere #leffettochefa

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