La Commedia della Vanità: Claudio Longhi ed ERT raccontano i “tempi interessanti” del ‘900 e di oggi

Una città senza specchi, un mondo senza riflesso, senza immagini, senza fotografie. Pensi il lettore a una realtà così assurda da risultare di certo per alcuni perfino accattivante, nel nostro presente infestato da quotidiane rappresentazioni di sé. La immaginò Elias Canetti (Ruse, 1905 – Zurigo, 1994), scrittore, drammaturgo, saggista bulgaro che tuttavia preferiva abbandonare ogni denominazione di appartenenza geografica e definirsi apolide. Il premio Nobel di origini ebraiche compose le due prose teatrali La Commedia della Vanità e Nozze tra il 1931 e il 1934, nel pieno dell’ascesa al potere del nazismo in Germania, anche se le prime messe in scena risalgono agli anni ‘60.

Per la stagione 2019/2020, Emilia Romagna Teatro ha scelto di produrle e rappresentarle all’interno dell’interessante excursus Bye Bye ‘900, che esprime le intenzioni e il percorso artistico di ERT in continuità con le annate precedenti. Si lega inoltre a riflessioni sull’idea di Europa odierna e del secolo scorso che avevano trovato gran successo in progetti quali La Resistibile Ascesa di Arturo Ui, Il Ratto d’Europa e Istruzioni per non Morire in Pace, profondamente integrati nella concezione di teatro come “bene comune”, cioè radicato nel territorio che occupa, interattivo e partecipato attivamente dal pubblico, come prezioso strumento di divulgazione socio-culturale.

Per la regia, rispettivamente, di Claudio Longhi e Lino Guanciale, Commedia e Nozze catalogano i punti di fuoco delle riflessioni canettiane sul potere e la sua ascesa spesso violenta, sul concetto di massa e di individuo, sulla morte e sulla rappresentazione dell’io, in perfetto accordo con gli eventi tragici di cui il nostro continente si rese protagonista a partire dagli anni ’30 del 1900. Non faremmo fatica a rintracciarne gli strascichi di autoritarismo e nazionalismo nell’Occidente attuale. Sono tempi interessanti – come descritti dal filosofo croato Slavoj Žižek prendendo spunto da una maledizione cinese, cioè instabili, incerti, in mutazione – quelli in cui ci troviamo, insomma. Lo erano anche quelli vissuti da Canetti nei primi decenni della sua vita, segnata da due guerre mondiali e innumerevoli “migrazioni”.

ERT Emilia Romagna Teatro La Commedia della Vanità

Commedia della Vanità è quindi, per l’appunto, una “commedia”, ma nell’accezione di Dürrenmatt: il tragico del mondo di oggi non può non assumere i tratti del comico. In essa non vi sono leggi razziali, ma la dittatura è quella dell’immagine, o meglio, della sua totale assenza. “AVVISO. Il governo ha deliberato. Primo: è vietato il possesso e l’uso di specchi. Tutti gli specchi esistenti, senza eccezione, saranno distrutti.”, recita uno fra i tanti simili editti, promulgati da un mai definito dittatore. La conseguenza sarà la perdita totale del concetto di identità, che stenta comunque a trovare riscatto nell’ambito di una massa isterica, priva di intenti escatologici e coscienza comune.

Abbiamo raggiunto Claudio Longhi, direttore di Emilia Romagna Teatro Fondazione dal 2017, docente all’Università di Bologna e regista di questa produzione de La Commedia della Vanità: la sua carriera pluridecennale dietro le quinte della scena teatrale italiana vanta collaborazioni con Luca Ronconi, Marisa Fabbri, Edoardo Sanguineti, Mariangela Melato, Umberto Orsini, ed è fitta di esperienze di chiara matrice brechtiana e politica, soprattutto nei progetti ERT da lui guidati.

Direttore, come si colloca il focus Bye Bye ‘900 nel percorso sui famigerati tempi interessanti e come si declina all’interno della concezione di “teatro bene comune” di cui ERT è attore imprescindibile da anni?

L’idea è stata di partire in prima battuta da una riflessione sul futuro di questi tempi interessanti. Infatti la prima stagione era nel segno di “che fine ha fatto il nostro futuro?”. Il secondo step è stato una riflessione sullo spazio del nostro presente; da qui il “guardati intorno” della seconda stagione. Al terzo step la riflessione si è incentrata sull’idea di azione: ho lavorato sulla base di categorie antropologiche, gli spazi e i tempi della cultura e dell’azione culturale. L’azione è tutto ciò che intervenendo sul reale produce nuovo, quindi mi interessava in quanto generatrice di esso. Chiaramente la novità porta a una riflessione sul Novecento, che è per eccellenza il secolo della modernità e della novità. A quel punto la riflessione è diventata intanto che cosa significa “nuovo” e che valenza ha da un punto di vista valoriale. Inevitabilmente bisogna confrontarsi con la rischiosità e le ambiguità di questo concetto: siamo illuministicamente avvezzi a considerarlo come un valore; di fatto la dialettica dell’illuminismo ci ha dimostrato che il nuovo può essere anche un disvalore, perché sicuramente il Novecento porta al progresso medico-scientifico, ma anche alla bomba atomica o ai campi di sterminio. Poi c’è una riflessione ulteriore: come ci poniamo noi oggi in rapporto al Novecento? Viviamo ancora dentro l’ombra lunga di quel secolo o è possibile essere nuovi rispetto a esso? Da qui il Bye Bye ‘900 a cui è consacrata questa stagione e che intende essere una riflessione rispetto alla dimensione della novità nei tempi interessanti che viviamo. È ancora possibile e cosa vuol dire essere nuovi, e che senso ha la vita nei tempi interessanti?

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Secondo Claudio Magris “un tema che ricorre in tutta l’opera di Canetti è l’abnorme difesa dell’io – quindi anche in una sorta di delirio autodistruttivo e autoritario – contro tutto ciò che minaccia la sua precaria consistenza”. Può essere una sintesi della scelta di Canetti come simbolo di questa stagione, con il suo prendere il ‘900 alla gola ed essere, secondo la definizione di qualcuno, un autore “deterritorializzato” nell’accezione di Rousseau?

Certo, contando poi l’ambiguità dell’io: il pensiero canettiano è sempre un pensiero estremamente sottile, che proprio in ragione della sua acutezza penetra nella complessità della realtà e rende conto anche dell’ambiguità di essa. Se penso a un testo come Commedia della Vanità, è evidente per un verso la pulsione e la difesa della vita del soggetto, e per l’altro verso anche la condanna all’io. La didascalia conclusiva di Commedia della Vanità decrive un’immagine terrificante di una strada invasa da una folla in cui tutti gridano «io, io, io!», senza che queste voci arrivino a formare un coro, e sullo sfondo si staglia il monumento ad Heinrich Fohn. E’ evidente in questa immagine una metafora che ci parla di una serie di io che non riescono a diventare comunità, e poi sono il presupposto per l’avvento di una dittatura. Quindi la posizione nei confronti dell’io è sempre ambigua. L’io va difeso da un certo punto di vista perché è ciò che siamo, ma rischia di essere una prigionia, se non riusciamo a dire “noi”.

I personaggi della vostra Commedia sono costruiti e mostrati come freaks, grotteschi, da un lato deformati e dall’altro quasi uniformati da una sorta di divisa. In particolare il personaggio di Simone Francia ricorda Nosferatu, o certe rappresentazioni della creatura del Frankenstein di Mary Shelley. Questa scelta riconduce a precisi riferimenti, per esempio l’espressionismo tedesco cinematografico e/o un certo Shakespeare (penso ad esempio a Riccardo III)? Con quale intento si è operata anche la metafora scenica circense?

Commedia della Vanità è un testo estremamente sfuggente da tanti punti di vista, e mette insieme anche tipologie di struttura molto diverse. La prima parte è quella che tecnicamente e drammaturgicamente definirei una parade; la seconda parte è uno strano dramma borghese; la terza parte è una sorta di visione espressionista. Anche sul piano della grammatica dei generi, Commedia è una strana centaura con in sé diverse possibilità e punti di vista. È chiaro che nel momento in cui si affronta una trascrizione scenica della Commedia si possono percorrere svariate piste: la si può rendere in termini espressionisti così come la si può rendere in termini realistici; si può cavalcare quella specie di strano Ibsen – forse più che Ibsen, Strindberg – e dall’altra parte si può invece andare verso le accensioni dell’espressionismo tedesco. Noi abbiamo cavalcato più questa possibilità, che sta dentro la commedia. Quella stessa idea di circo che è la cornice dentro cui mettiamo lo spettacolo nasce dalla battuta iniziale del testo, quando il banditore Wenzel Wondrak parla di sé come di un «pagliaccio nelle cui funzioni ha l’intenzione di presentarsi a questo inclito pubblico». Quindi esplicitamente dice «mi presento a voi vestito da pagliaccio». Intanto ci spiega che tutta la commedia è un gigantesco travestimento e una possibilità di questo travestimento è il circo. Noi abbiamo cavalcato questo coté, da cui anche l’incontro con l’immaginario visivo di Ophüls, di Lola Montés, un film straordinario ambientato in un circo. Questa dimensione per l’appunto grottesca è una delle possibilità della commedia: l’aspetto paradossale di questo testo è l’essere stranamente non teatrale e stranamente teatralissimo allo stesso tempo. C’è una raffinata conoscenza dell’arte dell’attore e della natura dell’attore, e sono tutti dei ruoli che potrebbero essere pensati per grandi caratteristi, quindi questa dimensione della maschera, della forzatura, della torsione grottesca è insita dentro la scrittura.

ERT Emilia Romagna Teatro La Commedia della Vanità

Un dettaglio interessante è l’inclusione – ancora nella vostra Commedia della Vanità – di accenni all’erotismo e alla sensualità al femminile: è un’allusione a un più ampio discorso, soprattutto in questo momento storico?

Ancora una volta, è molto presente nel testo. Ci sono tanti modi di vedere la Commedia nella sua complessità: sicuramente uno di questi modi è una riflessione rispetto ai meccanismi che hanno generato l’avvento al potere delle dittature. Ricordiamoci che questo testo è stato scritto dal 1931 al 1934, quindi sotto gli occhi c’è il tracollo della Germania di Weimar e l’avvento del nazismo. E per certi aspetti questo testo parla dell’avvento del nazismo: si potrebbe fare un parallelo con La Resistibile Ascesa di Arturo Ui di Brecht. Ci sono però grandi differenze. La prima è che La Resistibile Ascesa di Arturo Ui è un testo esplicitamente allegorico rispetto alla montata del nazismo; il testo di Canetti non parla della montata del nazismo, parla dei meccanismi che generano una dittatura. Poi che questa dittatura sia il nazismo, il fascismo, o un’altra dittatura XY è meno interessante, ma non è una commedia chiave com’è L’Arturo Ui. L’altra grande differenza è che nell’Arturo Ui si evidenziano le cause economiche che hanno portato all’avvento del nazismo; nel testo di Canetti viene tentata una sorta di psico-analisi dei meccanismi di creazione del potere dittatoriale. In essa una parte fortissima è tenuta dalla pulsione erotica: a me è sempre venuto da associare Commedia della Vanità a Eros e Priapo di Gadda, che non per niente gioca tutta la sua riflessione sul fascismo e sulla seduzione erotica del duce. Questa dimensione della seduzione erotica nella Commedia è fortissima: continuamente sin dalle prime battute tra le tre donne è molto chiara questa sorta di fuoco erotico che anima i personaggi, e probabilmente la libido è uno degli strumenti attraverso i quali si instaurano anche i meccanismi di fascinazione del potere.

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Ci spiega la ratio nel rendere polimorfa e cangiante la coppia di personaggi centrali di Commedia?

Il potere si incarna in più modi all’interno del testo: per una specie di potere arcano e mai nominato – le famose autorità che hanno decretato la distruzione degli specchi, che non sono mai rappresentate e non sono mai nominate, e probabilmente nell’anonimato c’è una sorta di reviviscenza della cultura ebraica di Canetti con il Dio innominabile dell’Antico Testamento – ma aldilà di questo all’interno della rappresentazione ci sono almeno altre 3 figure che sintetizzano dentro di sé l’idea di potere. Sono Barloch, Garaus e Fohn. È come se esistesse un trait d’union tra loro, come tre diversi stadi dell’incarnazione dell’idea di potere, uno spaccato darwiniano dell’evoluzione della “razza potere”. Barloch corrisponde alla fase primigenia del potere, tutta basata sulla fascinazione erotica, un potere estremamente fisico, brutalmente corporale, primitivo. Non nascondo che un modello che mi sia passato in mente pensando alla figura di Barloch è Mussolini: penso a Mussolini a torso nudo sulla trebbiatrice, con una fisicità così violentemente ostentata. Poi abbiamo Garaus, che incarna l’accidia di chi aspira al potere. Mi ha sempre fatto molto pensare all’Hitler degli anni ’20, che aspira al potere ma non riesce ad arrivarci. È una sorta di incarnazione dell’invidia del potere, della meschinità di chi vorrebbe ma non può. Mentre la terza figura di Fohn è l’incarnazione del volto trionfante del potere dittatoriale in una sorta di mistica del potere dittatoriale stesso. Sono molto significative alcune battute di Fohn in cui parla del lavoro che sta conducendo sulla sua persona, di un’aspirazione sublime che lo porta a essere il sole della comunità e al tempo stesso a volersi sottrarre al contatto diretto con gli altri. E’ la figura più vicina all’Hitler che dichiara la Seconda Guerra Mondiale. Queste tre figure proprio nella loro diversità ci presentano come volti cangianti di uno stesso potere, da qui l’idea di farli recitare da un unico attore, che è come se recitasse 4 personaggi: una sorta di grande burattinaio – nella visione di Canetti, il potere è uno degli imprescindibili centri di organizzazione della vita, che spinge nella morte, ma che è al tempo stesso un elemento imprescindibile delle dinamiche esistenziali – che innerva di sé tutti gli altri personaggi del copione e che poi veste concretamente i panni delle figure di potere che di volta in volta assume. Parallelamente abbiamo affidato a un’unica attrice le donne di questo uomo di potere. Anche perché lì si scatena un’altra sofisticatissima ambiguità: queste donne sono ad un tempo vittime del potere – non per nulla la moglie di Garaus finirà ammazzata da lui, quantomeno c’è il sospetto – e dall’altra parte la compagna di Fohn ne è succube, ma nel terzo atto è lei che prende il coltello dalla parte del manico, ed è lei la dottoressa che gestisce la clinica “terapeutica” di specchi insieme alla Fant. Quindi ancora una volta una grande ambiguità: queste donne sono vittime o piuttosto detentrici del potere, attive e non passive?

In Massa e Potere Canetti rifiuterà la definizione di massa informe eterodiretta: in questo senso la “propria canzone” a cui ciascun personaggio ha comunque diritto in commedia può essere una rappresentazione ante litteram della maschera acustica canettiana?

Secondo me il tema della canzone è ovviamente legato alla enorme attenzione che Canetti pone alla dimensione acustica del vivere e della formazione dell’identità, nel senso che i personaggi di Canetti sono delle voci, e non per nulla Canetti arriva al teatro attraverso le letture ad alta voce de Gli Ultimi Giorni dell’Umanità di Krauss, che era un altro grande autore ossessionato dall’idea delle voci. La genesi è questa. In particolare la canzone è un disperato tentativo di radicare la propria identità all’interno di un sostitutivo dell’immagine, con la dimensione così violentemente fisica e così violentamento concreta che la voce porta con sé, quindi l’accento, l’emissione, etc.

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 Il «tendiamoci la mano» che conclude il monologo finale del terzo atto può essere interpretato come uno sguardo positivo sull’uomo?

C’è tanta ambiguità in quella battuta, nel senso che è vero che il modo per uscire da questa trappola è probabilmente quella di dimenticarci dell’io e imparare a dire “noi” e quindi a tenderci la mano, ma dall’altra pare quel tendiamoci la mano può essere anche il meccanismo di dominio: ti tengo stretto. C’è tutta la disperante ambiguità di questa situazione in cui l’importante è avere coscienza – come direbbe Canetti – della coscienza delle parole e del valore delle parole, e a quel punto, di come usarle nel modo migliore possibile.

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È un po’ anche la riflessione che si fa sui mezzi comunicativi delle odierne derive autoritarie e nazionaliste dell’Occidente dei “grandi comunicatori”?

Assolutamente. Ed è anche la domanda che si pone continuamente Canetti, cioè se sia possibile per l’uomo vivere al di fuori dello schema del potere.

In quest’opera, Canetti sembra esprimere una dicotomia tra la critica alla dipendenza dalla rappresentazione di sé, e la perdita totale della stessa che conduce al dissolvimento dell’identità: operando un’astrazione potremmo considerare che il teatro si ponga proprio l’obiettivo di mediare fra le due polarità e fornire una rappresentazione della realtà umana anche nelle sue aberrazioni e minoranze?

Intanto è evidente che l’impianto di Commedia della Vanità ha una matrice anche fortemente meta teatrale. Il tipo di immagini chiamate in causa sono specificamente fotografie, ritratti, pellicole cinematografiche; mai si parla di teatro. Però quando il venditore Wenzel Wondrak dice «qui potete venire a distruggere le vostre immagini», è molto evidente – nel momento in cui passi da una lettura fatta nel tuo salotto al palcoscenico – che sta parlando anche del palcoscenico, e che tra tutti gli istituti rappresentativi c’è il teatro. In rapporto alla domanda, il teatro si va a collocare all’interno di questa dicotomia, e si muove all’interno di un campo di forze diametralmente opposte. Credo che l’obiettivo del teatro dovrebbe essere quello di arrivare ad una sana mediazione: dipende da come uno affronta l’esperienza teatrale e da come si va a posizionare all’interno di quel campo di forze. Non darei per scontato che il teatro riesca a fare questa sintesi. La descriverei come obiettivo del teatro che mi piacerebbe fare.

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Per concludere, che cosa aspetta ERT nell’anno nuovo? Ci consiglia una lettura e un ascolto?

Sul fronte del teatro partecipato, abbiamo appena messo in campo a Bologna un grande progetto di teatro partecipato che si intitola Così Sarà con al centro giovani di età compresa tra gli 11 e i 25 anni, nel tentativo di immaginare insieme quale può essere la città ideale a cui noi tutti puntiamo, e questo sta sotto l’ombrello Bye Bye ‘900. Poi stiamo cominciando proprio in questi giorni l’avvio di un progetto di teatro partecipato a Modena, che sarà dedicato a un’esplorazione dei rapporti tra tecnica, scienza, progresso e vita, a partire dalla centralità che l’industria meccanica ha avuto sui nostri territori. Quindi come il mondo dell’impresa, della tecnica, della tecnologia, dell’evoluzione tecnologica impatta sulla vita di noi tutti. Queste sono le due principali novità sul fronte del teatro partecipato e delle esperienze che stiamo mettendo in campo da questo punto di vista sempre nella convenzione che il teatro debba essere un “teatro senza mura” e un “teatro bene comune”, che appartiene alla comunità.

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Visto che siamo in tema canettiano consiglierei a tutti la lettura de La Coscienza delle Parole e in particolare del suo saggio conclusivo che è La Missione dello Scrittore: è una riflessione che Canetti fa sullo scrittore, ma credo che sia una lezione straordinaria per chiunque usi il linguaggio, perché nel momento in cui si parla bisognerebbe sempre tenere presente il valore delle parole e cosa significa giocare con loro. Per quanto riguarda l’ascolto sono combattuto, ma direi Cathy Berberian che canta i Beatles: penso che anche questo ci aiuti molto a capire che cosa vuol dire la vocalità.

Chiudendo con una nota d’ottimismo canettiano, contenuta nella raccolta Un Regno di Matite, ringraziamo Claudio Longhi della sua generosità: «Coloro che non si adeguano sono il sale della Terra, il colore della vita: condannano se stessi all’infelicità ma sono la nostra felicità.»

La Commedia della Vanità è in scena fino a domenica 9 febbraio al Teatro Argentina di Roma, il 12 e il 13 febbraio al LAC di Lugano, dal 18 al 23 febbraio al Teatro Della Pegola di Firenze.

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