Un’intervista per poterci avvicinare all’educazione nella Repubblica Democratica del Congo, grazie alla collaborazione con Geographica…
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno.
Il senso di appartenenza è quella cosa che fa sentire bene. È quella cosa che fa sentire parte di un progetto accettando tutto senza provare a capire se davvero è nelle proprie corde, forse semplicemente perché lo si sente più vicino al proprio pensiero anche se non si tratta sempre del “proprio pensiero”.
Accettare sé stessi parte con l’accettazione delle proprie origini, il pensiero nasce, in via embrionale, da piccoli, quando si vedono i genitori come degli dei che ti rivolgono mille attenzioni e quello che dicono è la sola verità, nessuno può permettersi di dire il contrario.
Crescendo si prova a far emergere il proprio pensiero trovando, quasi con la tristezza di non poterli vivere, la propria idea in altri mondi, in altre realtà, spesso facendo l’errore di confondere della pirite per oro purissimo.
Oppure perché nell’ideologia trova semplicemente una compagnia, arrivando a esaltare chi, con la stessa superficialità, la pensa nello stesso modo e andando a dare all’utopia un senso “altissimo” dimenticandosi che tutto ciò che è utopico, nella maggior parte dei casi, serve solo a dare acqua alle sete del proprio ego.
Nel definire il proprio pensiero si può prendere una strada anche solo per allontanarsi da quella che sicuramente è contraria alla propria idea, annullando quindi la possibilità di vie meno estreme, più concrete, più nel mezzo. Ci si trova a dire “non ho ben capito dove voglio andare ma sicuramente vado nella parte opposta di ciò che non voglio fare”. Il rifiuto di tutto quello che non è per noi giusto agevola la parte più lontana possibile dalla stessa ipotesi “sbagliata”.
L’opportunismo. Per entrare in alcuni ambienti è bene pensarla in un certo modo altrimenti si è fuori. Per una ragione di opportunità, è facile scordarsi di averlo, un proprio pensiero.
Vedere il passato da ciechi significa trovarci solo quello che ci piace. In un mondo colmo di variabili è una pratica semplice, basta accontentarsi del dato utile a portare avanti “dignitosamente” la propria tesi.
La consapevolezza viene sempre da un input esterno. Si è davvero innamorati solo quando ce lo fanno notare.
Ma non sempre ci fanno notare cosa si nasconde dietro.
Capire di aver sbagliato è sinonimo di intelligenza e con questa certezza si è naturalmente portati ad abbandonare ogni vecchia sicurezza abbracciando l’idea che ha fatto crollare la propria persuasione.
E qual è il metodo migliore per scegliere il nuovo pensiero se non il lasciarsi abbracciare da una persona che a pelle reputiamo “per bene”?
C’è chi poi per naturale protesta si avvicina, inizialmente in modo educato e poi con sempre più prepotenza, a qualcosa che serve a rinnegare il proprio stato, a voler cercare a tutti costi di vivere la propria vita in quanto tale senza dipendere da ciò che per esso, e solo per amor suo, è stato creato. Una voglia di evadere da un disegno non proprio, tralasciando la sana gratitudine, per avvinghiarsi ipocritamente a un mondo che non potrà mai davvero capire.
Senza aver vissuto nelle condizioni del popolo non potrà mai capire quanto lo stesso popolo vorrebbe invertire la propria rotta e tenderà a confondere la semplicità con la felicità, un piangere di commozione per un piangere di disperazione.
Credere in un ideale diventa un modo per credere in qualcosa e dare un senso alla propria vita, un modo per accettare la fine senza andare oltre, senza necessità di un percorso metafisico.
C’è chi poi sudando la vita cerca di prendere il posto di chi sta meglio pensando “preferisco spendere la mia vita alla ricerca del mondo piuttosto che trovare un senso alla povertà”
In altri casi le convinzioni nascono anche da un’ignoranza dettata semplicemente da superficialità.
E poi da chi vede un’ideologia come la semplice organizzazione delle cose, i più pragmatici. Prendendo solo la parte organizzativa come la più importante, e come accade in taluni casi, prendendo solo i pregi come esempio valido e funzionante.
A volte, però, la protesta personale che porta all’estremo è dovuta al fatto di non trovare davvero nessun appiglio al centralismo. Perché anche senza superficialità, qualcosa dobbiamo pur seguire e quel qualcosa spesso è concretamente utile per denigrare il vergognoso fallimento delle strade più democratiche. Le strade che al grido del coinvolgimento massivo aprono infinite possibilità ad amorali intrighi di compromessi.
Ma da qualche parte bisogna pur stare, il proprio pensiero potrebbe essere così minoritario da non trovare nessuna risposta. E allora bisogna decidere cosa farne e si sceglie per forza qualcosa…
…pur di non accettare qualcos’altro.
Perché in fondo nell’idea italiana del comunismo non c’era niente che avesse da spartire con i regimi totalitari, era solo un sogno che si legava a scopi umanitari cercando di dare voce a tutti.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo.
Riflessioni liberamente tratte da Qualcuno era Comunista di Giorgio Gaber