Il sergente dei Berretti Verdi, La David Johnson, muore in battaglia in circostanze ancora da chiarire. La notizia tocca l’opinione pubblica solo per l’ennesimo scivolone del Presidente americano.“Conosceva i rischi a cui andava incontro accettando questo lavoro, ma immagino sia ugualmente doloroso”. La frase breve, fredda e distaccata, probabilmente pronunciata con disagio e imbarazzo, appartiene al Presidente degli Stati Uniti, in collegamento telefonico dal suo Studio Ovale con una giovane donna di cui non conosce il volto e la storia. Myeshia Johnson aspettava quella chiamata da circa una settimana, lo stesso numero di giorni trascorsi da quando suo marito, il sergente dei Berretti Verdi La David Johnson, ha fatto ritorno a casa in una bara, sigillata per volontà degli alti ufficiali, determinati ad evitare alla famiglia ulteriore strazio.
Attendeva un trattamento diverso Myeshia, mentre la gioia di diventare per la terza volta madre veniva improvvisamente spazzata via dal dolore di un lutto che stravolge l’esistenza. Un soldato corre rischi che la maggior parte di noi non considera come variabili nel contesto della quotidianità. Un soldato vive luoghi e affronta situazioni in cui il pericolo è una costante, un compagno di viaggio. Un “soldato” è generico, ma Donald Trump del sergente caduto su un campo di battaglia non ricorda neanche il nome, e mentre il Presidente si sforza per recuperare quella sensibilità che non possiede, il pianto di Myeshia, travolta e subito dimenticata, sfonda gli argini.
Il villaggio rurale di Tongo Tongo è distante 130 miglia dalla città di Niamey, capitale del Niger, uno stato dell’Africa occidentale tra i più poveri del mondo. Nella regione in cui si inserisce, al confine con il Mali, il governo ha dichiarato ad inizio anno lo stato d’emergenza a causa dei diversi gruppi terroristici che infestano la linea tra i due paesi: plotoni, cellule e piccoli gruppi formati da seguaci dell’Isis e di Al Qaeda.
Secondo Africom tuttavia, la missione assegnata al gruppo del sergente Johnson, dodici militari delle forze speciali, era considerata a basso rischio, tanto che i soldati viaggiavano su mezzi civili e non blindati. Stando ai dossier del comando con cui il Pentagono segue le operazioni nel continente, i Berretti Verdi da sei mesi collaboravano con l’esercito locale fornendo supporto e programmi di addestramento per fronteggiare la minaccia di Boko Haram.
Il 4 ottobre a margine di un incontro con le forze locali, ormai a un passo dall’identificazione di un leader dei terroristi, una cinquantina di guerriglieri circonda i veicoli sorvegliati da una parte del commando. Fucili d’assalto, mitragliatrici e granate a razzo scatenano un’imboscata: trenta minuti di scontro a fuoco che impediscono ai compagni di abbandonare il luogo della riunione, bloccati da una pioggia di proiettili e dalle esplosioni. Dal cielo arrivano caccia ed elicotteri che cercano invano di liberare la zona, mentre tre soldati cadono sotto i colpi nemici e altri due rimangono feriti. Quando i mezzi del supporto aereo si allontanano, i superstiti raggiungono il gruppo e il campo appare definitivamente sgomberato dalla furia jihadista. Non è così, perché un quarto militare, nelle fasi più concitate della sparatoria, ha perso il contatto visivo con i compagni e non è riuscito a mettersi in salvo: è La David Johnson. Il sergente attiva un rilevatore in grado di segnalare la sua posizione al gruppo. E’ vivo quando i mezzi lasciano l’area, forse ferito, sicuramente consapevole di correre un grosso rischio.
Leave no man behind, il monito dei soldati americani
Per tutti i soldati americani “leave no man behind” è un monito che nobilita la presenza sul terreno di battaglia, spingendola oltre le ragioni politiche e belliche di qualsiasi intervento militare. Potremmo azzardare una traduzione con “vietato abbandonare un compagno in zona di guerra”, ma non basterebbe a rendere l’idea del suo intrinseco valore umano. Già esisteva, tra i nativi americani, come tattica militare prima che gli Stati Uniti nascessero, durante la guerra franco indiana di metà Settecento. Tra l’accorgimento strategico e il codice vero e proprio ci sono secoli di storia e di conflitti, ma è durante l’inferno del Vietnam che il concetto si fa principio fondamentale, quando il destino dei soldati coinvolge l’opinione pubblica ed entra nelle case di mezzo mondo, prima con la televisione e poi tramite Holliwood.
Del destino di La David Johnson invece, nei momenti immediatamente successivi all’accensione di quel rilevatore, non si hanno notizie certe. Secondo le informazioni in possesso di un fotografo di guerra ed ex Berretto Verde, il sergente sarebbe stato catturato, portato lontano dal villaggio e infine giustiziato a colpi d’arma da fuoco. Non avrebbe quindi abbandonato volontariamente il luogo della segnalazione, lasciato solo dopo essere stato accerchiato dai terroristi.
Tra gli ultimi istanti di libertà del sergente Johnson e il pianto disperato di Myeshia, rimane un corpo straziato e abbandonato, due giorni dopo i fatti e le ricerche, in un’area a nord ovest del paese. Le istituzioni non sanno, cercano di capire o forse fingono di farlo. Del resto il Niger non è la Libia, l’Iraq o l’Afghanistan. Una missione a rischio zero alla periferia del mondo si trasforma in dramma e un sergente delle forze speciali ha la disgrazia di trovare la morte in un luogo sbagliato, come se ne esistesse uno giusto per essere imprigionato dai terroristi. Non è abitudine nazionale celebrare il Niger quando una roccaforte Isis viene abbattuta, o quando un territorio viene liberato da una cellula terroristica. Allo stesso modo non si piange quando un’esplosione causa decine o centinaia di morti in un villaggio africano, nessun cordone di solidarietà in formato digitale, niente bandiere colorate sulle pagine social della gente comune. Un soldato smette di essere tale, nell’ennesimo delirio trumpiano, perché ucciso in un luogo politicamente scomodo, geograficamente remoto e contorto in termini di impegno bellico.
Alla dignità della Casa Bianca, inquinata ormai da tempo dalle gesta del suo inquilino, si contrappongono fortunatamente altre realtà che in ambito militare e governativo impiegano uomini e risorse in contesti di simili emergenze. Tra i protagonisti di questa triste vicenda ci sono ad esempio i Rangers, allertati quando alla conta dei morti e dei feriti risultano dispersi altri soldati. Attivi h24, i Rangers, con il loro 75° Reggimento, hanno il compito di intervenire per mettere in salvo i militari: arrivano ovunque, con i loro battaglioni, in meno di 18 ore. A difendere l’onore dei caduti, quando un conflitto si esaurisce, vi è poi il POW/MIA Accounting Agency, task force congiunta al Dipartimento della Difesa, che si occupa di recuperare dati e informazioni su tutti i soldati americani fatti prigionieri o scomparsi durante le guerre passate. I membri di questo organismo lavorano tramite gruppi di analisi e investigazione, ma anche team di recupero, con militari e antropologi forensi al seguito, inviati nei luoghi di guerra alla ricerca delle truppe di cui si sono perse le tracce. Solo l’ultima fase della loro missione si svolge in laboratorio, dove grazie agli strumenti scientifici si compie un’altra attività di ricerca: quella della dignità da restituire alle famiglie dei defunti. Il loro motto dice “fino a quando tutti non faranno ritorno a casa”.