L’ultimo insegnamento di Bauman: «Immigrazione non è terrorismo»

Sarà che ha vissuto sulla sua pelle il dolore della discriminazione per le sue origini ebree. Ma uno dei sociologi più importanti dei nostri tempi, Zygmunt Bauman (Poznań, 19 novembre 1925 – Leeds, 9 gennaio 2017), fino agli ultimi anni di vita non ha esitato a lasciare importanti insegnamenti in controtendenza rispetto ai più popolari leader mondiali riguardo xenofobia e populismo.

Così ha trovato spazio per inserirsi nel dibattito legato all’argomento più forte del mondo attuale, quello riguardante terrorismo e attentati, ovvero gli eventi che hanno dato una scossa alla quiete e al benestare europeo, a partire dalla strage al Bataclan della fine del 2015 e ancor prima, anche se in forma minore, all’attacco alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo.

Un errore, aveva detto, sovrapporre terrorismo a immigrazione. Perché «identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale – commentava in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera – subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro».

Spiegava quindi: «Questo rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso.

Insomma, concludeva Bauman: «Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini».

E ancora, il sociologo polacco ha sottolineato nuovamente la questione in un’intervista a Open Migration, criticando fortemente la reazione della società occidentale ai primi attentati in Francia. L’errore, prima di tutto, per Bauman starebbe nel rinforzare la xenofobia dal basso e nel concentrarsi sui migranti provenienti dai paesi islamici. Perché, così, ha dichiarato «si passa la palla nelle mani dei terroristi fondamentalisti. L’accoglienza ostile verso i rifugiati da una parte scoraggia i potenziali rifugiati che sono ancora nei loro paesi, dall’altra amplia le possibilità di reclutamento per le cellule terroristiche estendendo il contagio ai migranti residenti in Francia da tempo».

«Gli avversari di Hollande, Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen – affermava quindi il sociologo – lo hanno spinto a rovesciare il principio della presunzione di innocenza, presupponendo che i rifugiati di fede islamica siano presunti terroristi fino a prova contraria. E così di fatto impedendogli di sentirsi accolti in un paese in cui speravano di sentirsi a casa. Ma non è facile che Hollande vinca la sua battaglia. Come si dice, c’è sempre un demagogo più grande in giro».

Allora, chiedeva Alessandro Lanni durante sua intervista a Bauman, come si risponde alla deriva xenofoba?

«La xenofobia e il razzismo sono sintomi, non cure. Comunità etniche diverse sono destinate a coesistere nelle società moderne, a dispetto di ogni retorica che sogni un ritorno a una nazione pura e non meticcia».

E concludeva: «Voglio usare le parole dello storico Eric Hobsbawm: Oggi, la tipica minoranza nazionale nella maggior parte dei paesi di approdo dei migranti è un arcipelago di piccole isole piuttosto che un continente unico. Ancora una volta, i movimenti identitari sembrano essere il prodotto di debolezza e paura. In ogni società urbanizzata incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati che ci ricordano la fragilità o il prosciugamento delle nostre radici famigliari».

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