Mai più nascoste: a conclusione (o inizio) di un nuovo sguardo

Il 24 febbraio di Katherine Johnson

Il 24 febbraio 2020 in una casa di cura di Newport News in Virginia, USA, moriva a 101 anni uno degli scienziati più importanti della storia dell’ingegneria aerospaziale e dello sviluppo umano. Il suo nome era Katherine Johnson. Afroamericana, esponente di una tipica famiglia della working class, aveva mostrato sin da bambina incredibile talento matematico e logico, e il suo papà, Joshua, era determinato ad assicurarsi che potesse mettere a frutto il suo potenziale.

Aveva ragione: dopo un excursus accademico all’insegna della rottura di tutti i cliché e pregiudizi di razza e genere – diploma a 14 anni, laurea a 18, unica donna e fra i soli 3 afroamericani iscritti al corso specialistico all’Università della West Virginia – Katherine entra a far parte di quella che diventerà una sezione della National Aeronautics and Space Administration, la NASA.

Katherine Johnson NASA
Katherine Johnson alla NASA. (ca 1961)

È inserita, secondo l’organizzazione segregazionista degli anni ’50, nella “colored computing pool”, un gruppo di matematiche nere che funzionavano essenzialmente come strumenti meccanici di calcolo. «Eravamo computer con la gonna», dirà di quel periodo, in cui lei e le colleghe erano costrette a lavorare, mangiare e perfino usare i servizi igienici separatamente dagli impiegati bianchi.

Quando temporaneamente assegnata in ausilio a un gruppo di ricerca di soli uomini, vi si crea alleati con la sua intima conoscenza della geometria analitica, e semplicemente ignora i pregiudizi razziali e di genere, dimostrando sul campo determinazione e competenza, tanto che i dirigenti «si dimenticano di farla tornare» alla sua divisione.

La carriera di Katherine procede inarrestabile, conducendola infine nel 1958 alla tecnologia aerospaziale vera e propria nella Spacecraft Control Branch, lasezione di controllo dei veicoli astronautici, che la consacra alla storia scientifica: nel 1961 calcola con successo la traiettoria della missione con cui Alan Shepard diventa il primo Americano nello spazio; nel 1962 John Glen richiede che sia lei a controllare personalmente le operazioni eseguite dai computer elettronici per il suo volo sul Friendship 7, il primo degli USA a completare un’orbita intorno alla Terra. I calcoli di Johnson saranno altrettanto determinanti per il successo del programma Apollo 11, che consentì a Neil Armstrong il 21 luglio 1969 di compiere sulla Luna quel «piccolo passo per un uomo, grande balzo per l’umanità».

Katherine Johnson NASA

Come brillantemente espresso nel titolo originale del film del 2016 che ne racconta la storia, Hidden Figures – letteralmente “Figure Nascoste”, in un pun linguistico che nasconde il senso sia di cifre matematiche che di persone umane -, l’avventura, le conquiste e l’importanza di Katherine sono rimaste ingiustamente ignote ai più fino a tempi recentissimi, quando il Presidente Barack Obama le ha conferito la Medaglia Presidenziale della Libertà, massimo riconoscimento attribuibile a un civile americano.

Il Presidente Barack Obama saluta Katherine Johnson dopo averle conferito la Presidential Medal of Freedom. (2015)
Il Presidente Barack Obama saluta Katherine Johnson dopo averle conferito la Presidential Medal of Freedom. (2015)

Il 24 febbraio di «anche io» – #MeToo

Il 24 febbraio 2020 una giuria di cittadini americani ha dichiarato Harvey Weinstein, ex influentissimo produttore dell’industria cinematografica hollywoodiana, colpevole di 2 dei 5 capi d’accusa a lui imputati dalla Corte Suprema di New York: atto sessuale di natura criminale di primo grado e stupro di terzo grado.

Nonostante esse fossero le più lievi fra le imputazioni – le altre includevano stupro di primo grado e abusi sessuali di natura predatoria – il verdetto rappresenta senza dubbio un punto di svolta cruciale nella rivendicazione femminista anti-violenza di genere, e un successo di #MeToo (= anche io).

Nato nel 2006 nel contesto social dalla penna dell’attivista Tarana Burke, il movimento si è diffuso globalmente acquistando slancio e rilevanza a seguito della pubblicazione nell’ottobre 2017, a giorni di distanza l’una dall’altra, delle 2 inchieste su Weinstein da parte del New York Times (Jodi Kantor e Megan Twohey) e del New Yorker (Ronan Farrow).

Harvey Weinstein

I tre giornalisti, co-vincitori del Premio Pulitzer per i suddetti reportage, hanno potuto beneficiare della testimonianza di rispettivamente 8 e 13 donne che, anche dopo anni e spesso tentativi infruttuosi (o mal-creduti) di denuncia, hanno raccontato con dovizia di terrificanti dettagli le esperienze di abusi e violenze subiti per mano (e altro…) del produttore americano, il quale per oltre 3 decenni utilizzava la sua posizione di straordinario controllo e potere professionale, economico e mediatico, per imporsi sessualmente e in seguito insabbiare i crimini, dietro minaccia di distruzione di carriere e immagini.

Il metodo “catch and kill” (= prendi e distruggi), che Ronan Farrow descrive come il preferito da Weinstein, dalla sua cerchia ristretta – purtroppo perfettamente conscia, secondo alcuni resoconti, di ciò che accadeva sui “divani” – e dai suoi alleati, consiste nella pratica di comprare un’informazione sensibile e potenzialmente dannosa, rendendola non più accessibile alla fonte con i famigerati non disclosure agreement (= divieti di divulgazione), e in seguito “ucciderla” semplicemente non rendendola pubblica.

Tale processo, secondo il giornalista, avviene quotidianamente nell’industria della comunicazione, e ha promosso il perpetuarsi dei meccanismi di omertà e mutuo sostegno fra uomini potenti (e violenti, come ci ha dimostrato la scia di “casi” esplosi dal 2017 uno dopo l’altro), lasciando loro la libertà di scorribandare illesi e inattaccabili. A farne le spese sono, perlopiù, le donne che ne condividono gli ambienti e la professione, vessate a più livelli e a diverse intensità, in un clima disumano e impudentemente maschilista che genera diseguaglianze e discriminazioni a cascata.

#MeToo moving forward movimento donne Anche Io

Per dare un’idea della situazione nella comunità più prestigiosa nel business audiovisivo al cui vertice è stato Harvey Weinstein per trent’anni, l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences – la giuria degli Oscar, per intenderci – è composta al 28% da donne e al 13% da afroamericani e persone non bianche (dati 2019), e ha attribuito a una donna il riconoscimento per la miglior regia, posizione “di comando” creativo e logistico per eccellenza, solo una volta in 92 anni, con i casi di nomination fermi a 5.

Lapalissiano notare, alla luce di quanto di ben più grave raccontato e dei dati numerici forniti, come questa esclusione sistematica non abbia nulla a che vedere con merito o talento – come piace a qualche “critico” sostenere – ma piuttosto con le opportunità e la rappresentazione, sin dai primi livelli di accesso.

Greta Gerwig saluta il collega regista Bong Joon Ho, vincitore del Premio Oscar alla miglior regia. (9 febbraio 2020)
Greta Gerwig saluta il collega regista Bong Joon Ho, vincitore del Premio Oscar alla miglior regia. (9 febbraio 2020)

A ciò si aggiunga che il cosiddetto “female gaze”, lo sguardo femminile, opposto al “male gaze” dominante e consueto, è ancora considerato subalterno: si stenta a fargli spazio in un’élite tutta maschile, quasi fosse una concessione, quasi il lavoro di una Greta Gerwig, di Lorene Scafaria, Céline Sciamma, Lulu Wang (per citare le grandi escluse di questa passata stagione) fosse non valido, non di pregio e non interessante a priori per gli uomini, che verosimilmente non andranno a vederlo, e quindi non lo voteranno, se membri dell’Academy. L’attrice Tracy Letts lo esprime in maniera efficace: «I film fatti dai maschi, riguardo i maschi, per i maschi sono la norma; le donne appartengono a una categoria separata, inferiore».

Nella società patriarcale, in cui i Weinstein di tutte le categorie sociali e professionali – l’avrete immaginato, stiamo andando a parare un po’ oltre le colline della California – banchettano sul corpo, sull’identità e sulla stessa esistenza delle donne, la soddisfazione del maschio bianco eterosessuale resta l’obiettivo principale.

 
Louise Godbold, Rosanna Arquette, Dominique Huett, Sarah Ann Masse, Rose McGowan e Lauren Sivan, alcune fra le accusatrici di Harvey Weinstein, fuori dal tribunale di New York City in cui l'ex produttore è stato processato e condannato. (6 gennaio 2020)

Louise Godbold, Rosanna Arquette, Dominique Huett, Sarah Ann Masse, Rose McGowan e Lauren Sivan, alcune fra le accusatrici di Harvey Weinstein, fuori dal tribunale di New York City in cui l’ex produttore è stato processato e condannato. (6 gennaio 2020)

L’8 marzo di tutte noi

Il 24 febbraio 2020, mentre iniziava l’ultima avventura di Katherine Johnson, in una corte di giustizia l’«anche io» di tante aveva la meglio sulla violenza e la disumanità di un piccolo uomo.

A conclusione del lavoro al nostro primo eBook, nel ricordare i nomi delle 6 donne che hanno testimoniato al processo contro Harvey Weinstein – Annabella, Dawn, J., Lauren, Miriam, Tarale – rendiamo onore alle oltre 90 che con coraggio hanno denunciato la propria traumatica esperienza ad opera dell’ex mogul fino a oggi, e a tutte coloro che in ogni tempo sono e sono state diverse, sopraffatte, denigrate, violentate, invalidate, obliterate.

Consci/e del debito a loro dovuto, abbiamo voluto celebrare la varietà degli sguardi che ci piacciono, delle umanità che ci entusiasmano, delle possibilità illimitate che custodiamo. Nella speranza che, come Katherine Johnson e come Valentina, Chiara Sole, Francesca, Giada, Lidia, Alessia, Silvia, Lisa, Françoise, Diana, Katherine, Lucia, Houda, Carlotta, Manuela, Erika, Ernestina, Silvia, non siano ancora hidden figures, bensì hidden no more, mai più nascoste.

Buon 8 marzo a tutte e a tutti!

MeToo 8 marzo

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