Mutismo Selettivo: mamma Daniela e la sua bimba che non riusciva a comunicare con il mondo

Si chiama mutismo selettivo e si manifesta tra bimbi e adolescenti. A darne voce è Milla Onlus, associazione nata nel marzo del 2013 dal bisogno di una bimba di comunicare e dal desiderio dei genitori, Alessandro Rizza e Daniela Postizzi (nella foto), di ascoltarla.

Attualmente, l’ente sostiene le ricerche di un team esperto di professionisti, con l’obiettivo di estendere la rete di conoscenza in tutta Italia. A darne voce, è la psicoterapeuta Claudia Gorla, presidente del comitato scientifico di Milla. “Questa patologia è individuabile quanto il bimbo nel contesto familiare è a suo agio, esplosivo, mentre in un contesto scolastico, dove il livello di ansia cresce, si irrigidisce sia verbalmente che fisicamente – spiega la Gorla – Non deve essere confusa con l’autismo, patologia che si manifesta in ogni situazione, e neppure con il disturbo positivo provocatorio. In quest’ultimo caso, infatti, il comportamento è volontario mentre per il mutismo selettivo il bimbo non sceglie di non parlare”. Non si tratta neppure di timidezza: sfumatura del carattere, questa, poi destinata a scomparire in modo naturale, mentre il mutismo può peggiorare.

Una patologia, insomma, con caratteristiche particolari ma individuabili che, a fronte dello 0,7 per mille accertato dalla letteratura, conserva in realtà percentuali maggiori e in crescita. Se non curata, potrà poi sfociare in individui adulti con attacchi di panico e soggetti a fobia sociale. Proprio per questo Milla Onlus offre – grazie al progetto Welcome – una prima consulenza gratuita per individuare la patologia. Inoltre, con il progetto Help Me, il gruppo finanzia interi percorsi terapeuti a famiglie con basso reddito. Ma la crescita continua per formare pediatri e educatori, prima di tutto nella consapevolezza dell’esistenza di questa patologia.

DANIELA POSTIZZI RACCONTA

Come vi siete accorti della patologia nella vostra bimba?  A che età?

“Con senno del poi ci siamo accorti da subito, sapendo di che tipo di patologia si tratta. Non si può parlare di genetica ma si è scoperto che si può parlare di familiarità. Alcuni bimbi sviluppano questa patologia per esperienza, contesto etc e altri no. Quindi, con il senno del poi, abbiamo capito che lei è nata così. Faceva fatica ad addormentarsi, ha iniziato a camminare a 18/20 mesi, ha iniziato a parlare prestissimo (neppure a un anno) e in famiglia ha sempre parlato tantissimo, ha sempre avuto un lessico molto forbito per la sua età.

Fin dall’asilo nido però, nell’ambiente sociale con adulti o al di fuori della casa, non proferiva parola e aveva anche un atteggiamento rigido a livello corporeo. Il fatto che non parlasse era solo la punta dell’iceberg: in questi contesti diventava un ghiacciolo e, quando le venivano attacchi di panico, era granito. Al nido abbiamo capito e non capito perché era troppo piccola e si tratta di un ambiente piccolo e ovattato. La maestra è come una mamma, una chioccia: qui i suoi stati d’ansia si manifestavano raramente perché era tranquilla.

L’entrata nella scuola materna è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: fin dall’inizio non parlava e si faceva addosso tutti i bisogni perché non era in grado di chiedere di far pipì. È diventata pure stitica: le ho somministrato lassativi e così si faceva addosso tutto. Non faceva neppure le scale perché le facevano paura, si bloccava come in preda a un attacco di panico. All’intervallo restava in un angolino impietrita perché gli ambienti aperti e la confusione sono stati che generano ansia.

Comunque il suo non era un caso grave, riusciva infatti a rivolgersi alle compagne femmine. Parlare con i maschi le generava ansia mentre era impossibile vederla comunicare con adulti, maestre e inservienti. Al parco non andava sull’altalena o lo scivolo ma stava attaccata alla mia gamba: anche l’altezza dello scivolo era un motivo di ansia, era un incubo per lei andare al parco giochi. Quando era a casa dei nonni, se venivano a trovarli parenti o amici, lei si nascondeva sotto il tavolo o andava in un’altra stanza”.

Com’è stato il percorso per arrivare a definire la patologia?

“Da questi segnali capivo che c’era qualcosa che non andava ma non pensavo alla patologia. Poi ho letto un articolo che parlava di mutismo selettivo, era la radiografia di mia figlia: ho contattato subito il numero riportato e sono riuscita a contattare la dottoressa Gorla. Cinque anni fa, la situazione dei professionisti che erano specializzati in mutismo selettivo in Italia era drastica: Gorla in Lombardia, Trivelli in Piemonte, Ius a Roma e basta. Chi ha fatto psicologia o specializzazione in psichiatria dice che i testi delle specializzazioni, ancora ora nel 2015, riportano solo due righe sul mutismo selettivo. La Gorla, che aveva letto queste due righe ed era rimasta folgorata, andò dal suo professore e disse che voleva fare la sua tesi sul mutismo selettivo. Il suo professore disse che nessuno sapeva cosa fosse. Così, fece le valigie e se ne andò negli Usa per studiare a fondo il caso. È stata la prima che ha importato in Italia la conoscenza di questa patologia e fatto da supporto scientifico per la traduzione del primo libro sul mutismo selettivo “Le parole interrotte”, Blum e Schiffer.

Insomma, io e mio marito abbiamo iniziato subito il percorso con lei mentre nostra figlia non aveva ancora tre anni: essendo così piccola, la terapia si è svolta in modo indiretto tramite i genitori. Di fatto, mia figlia non ha mai fatto un minuto di terapia. La dottoressa Gorla ci riceveva ogni 15 giorni e una volta al mese c’era la supervisione a scuola materna per confrontarsi con maestre. È stato un lavoro di equipe. Noi genitori (così come i nonni, gli zii e la scuola) avevamo il supporto della dottoressa che dava le linee guida per la quotidianità. Abbiamo cercato tutti di lavorare per abbassare questa sua ansia in determinati momenti.

Nel caso specifico di mia figlia, bisogna capire quali motivi ci sono sotto: nel nostro caso c’era bassa autostima, quindi il lavoro con lei è stato quello di aiutarla, dandole competenze quindi l’autostima necessaria che serviva per affrontare tutte le situazioni nell’ambito sociale. Abbiamo cercato di insegnarle che in certe determinate situazioni ce la può fare da sola. È stato un percorso di sali e scendi. Come una retta ascendente che sale e però il giorno dopo fa piccola ricaduta, poi risale e riscende. Noi siamo stati fortunati per il supporto della dottoressa Gorla: lavoriamo con il sistema privato perché, non essendoci più risorse economiche, il primo appuntamento l’avremmo avuto dopo mesi e quindi si sarebbe solo aggravata la situazione oltre alla necessità – così impossibile – di essere seguiti costantemente, con determinate scadenze, non ci si può permettere di perdere tempo.

Prima di sapere di cosa soffriva mia figlia, come mamma cercavo di proteggerla perché vedevo che non stava bene. In realtà, mi è stato insegnato di lasciarla andare con le dovute precauzioni. Come fare bungee jumping: non la lascio buttar giù dal dirupo, prima l’attacco all’elastico, poi la butto. Abbiamo cercato di darle le competenze corrette per riuscire ad affrontare ogni evento del quotidiano da sola. Quando ha raggiunto il suo equilibrio, si è sbloccata”.

Dopo quanto tempo è migliorata la situazione?

“Il percorso è stato breve, neppure di un anno e mezzo, ma gravi casi arrivano anche fino a 5 anni. Ci sono tante variabili: noi abbiamo avuto una maestra molto collaborativa. In alcuni casi, per cultura o carattere, le maestre non collaborano e 8 ore a scuola sono tante. In altri casi ci sono genitori che non accettano la presenza della patologia e, invece di aiutare il proprio figlio, fanno il contrario. Mia figlia è stata fortunata per tutto: nonni, zii e maestre.

Una bambina, venuta da noi tramite l’associazione, in 6 mesi ha risolto il problema. Un’altra, invece, che non mangiava in pubblico, si strappava i capelli, si faceva male da sola, è stata in cura circa 7 anni.

Il 100% dei casi trattati correttamente guarisce. Non saranno mai soggetti o bambini estroversi, quelli sono tratti caratteriali; rimarranno sempre soggetti che hanno bisogno un po’ di tempo ad entrare in sintonia con l’estraneo. Ma, un conto è avere la malattia ed essere patologici da non riuscire a parlare e muoversi, un conto è aver bisogno di qualche minuto in più del consueto per entrare in sintonia.

Quando nostra figlia era in seconda asilo, la dottoressa Gorla ci ha congedato e detto che il problema era risolto, era giugno e siamo andati in vacanza. Al ritorno a settembre la maestra mi ha chiesto: “Cosa mi devo aspettare?”. “Non le dico niente per non toglierle la sorpresa”, ho risposto. Poi, la maestra mi ha abbracciato contentissima dicendo che le aveva parlato. Ora dalla scuola elementare arriva a casa con le note perché parla troppo: ha avuto la prima nota in prima elementare e abbiamo fatto la foto”.

Com’è nata la vostra associazione?

Aimuse esiste già da anni con sede a Torino. Quando mia figlia è guarita mi sono rivolta a loro e gli ho detto che volevo fare volontariato, mi sentivo in dovere di fare qualcosa per chi non era stato fortunato come noi. Ho iniziato come volontaria con loro fino a che ho manifestato la volontà di fare qualcosa in più, soprattutto con professionisti per fare ricerca scientifica perché mi sono accorta che in Italia c’è disinformazione anche tra i professionisti. Ho toccato con mano la mancanza di ricerca scientifica nel contesto sociale italiano, in Francia ad esempio ce n’è tantissima, così come nei paesi anglosassoni.

Insomma, mi sono accorta che serviva fare qualcosa per la ricerca scientifica: questo aspetto mancava. Chi si rivolgeva alle Asl si perdeva, c’erano tanti genitori disperati che non sapevano come fare perché il professionista diceva che il bimbo non collaborava: situazioni paradossali.

Ho parlato con il consiglio direttivo di Aimuse ma hanno manifestato fin da subito di non essere d’accordo. Quindi ho deciso di fondare Milla (marzo 2013 ndr.) che, a differenza di Aimuse, è un’associazione con formula di associazionismo, ci sono tanti genitori che si scambiano sostegno e opinioni. Siamo nati per cercare di coinvolgere più che le famiglie, proprio la gestione che mancava a cominciare dalla formazione dei professionisti. Abbiamo sette membri del comitato scientifico che tengono corsi di formazione ai colleghi, fanno supervisioni durante le psicoterapie, e hanno già fatto due congressi (uno per la Regione Lombardia e uno a Varese ai pediatri).

La mia pediatra, ad esempio, mi diceva solo ‘si sbloccherà’: la pediatra è figura fondamentale per fare una prima diagnosi. Ricerca e formazione di terapeuti, noi lavoriamo esclusivamente su questa linea”.

Le persone attorno a voi erano scettiche?

“Tutte: nonni, zii, ci davano tutti la stessa risposta della pediatra. Quando è iniziata la terapia ci prendevano in giro. ‘Figuriamoci se bambini possono soffrire di ansia’, dicevano. Poi è andato tutto per il verso giusto ma l’ottanta per cento dei casi fanno come succede nelle malattie rare: vanno da un professionista all’altro senza riuscire ad arrivare ad una diagnosi, passano anni e la situazione peggiora. Arrivano alle medie e vengono bocciati. Alle superiori c’è anche l’aspetto sociale dell’adolescenza: l’adolescente si forma nel confronto sociale e senza quello si perde tutto. La maggior parte delle famiglie con mutismo selettivo arrivano tutte ad una diagnosi dopo almeno quattro pareri differenti o interventi non riusciti.

La dottoressa Gorla non solo è una professionista molto valida ma è anche molto sensibile. Quando si confronta con maestre, professori o pediatri non è mai supponente, quindi scaturisce inevitabilmente una collaborazione anche con chi è scettico in partenza. La rettrice della scuola materna di mia figlia, in servizio da 35 anni, mi ha detto che di psichiatri, neurologi, psicologi ne sono passati a iosa ma una professionista valida come la Gorla non l’ha mai incontrata”.

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