Infermiera ai tempi del “manicomio”. Ecco una testimonianza dall’Ospedale Psichiatrico di Varese

Cosa significava essere infermiera in uno dei cosiddetti “manicomi”, negli anni ’50? Ce lo racconta con passione Teresa Medeghini, classe 1934, ora 83enne, della provincia di Brescia: dal 1955 al 1960 ha assistito le pazienti dell’allora Ospedale Neuro-Psichiatrico di Varese.

Inaugurato nel gennaio del 1939, il complesso ospedaliero di Bizzozero (nome della zona in cui sorgeva nella città lombarda), rappresenta un significativo capitolo della psichiatria italiana ed è stato per alcuni decenni un importante punto di riferimento delle scienze neuropsichiatriche a livello mondiale. Dopo la riforma di legge Franco Basaglia del 1978, la struttura di via Ottorino Rossi è divenuta sede dell’Azienda Sanitaria Locale e dell’Università degli Studi dell’Insubria.

Intervista realizzata in collaborazione con I. Capitanio

Appena accenniamo alla città di Varese, il suo volto si accende e inizia a ricordare la sua esperienza…

«Sono andata a lavorare ai primi di settembre del 1955. Sono stata lì fino al 1960. Ci hanno fatto subito seguire i corsi a scuola per imparare l’attività come infermiere. Ho lavorato in vari reparti, nei padiglioni De Sanctis e Morselli, poi all’Antonini dove c’erano proprio i ‘matti’ ma lì sono stata solo una settimana.

È stata una bella esperienza che mi ha segnata per la vita. Siamo state lì io e una mia cugina. Prima di me due mie sorelle. Mi sono licenziata perché era troppo pesante, non dormivo più, non andavo mai in camera prima del tempo perché sapevo di non riuscire a dormire, quindi passavo il tempo libero in una sala. Il non dormire è stato il mio principale problema, altrimenti avrei continuato. Tornando a casa, ho visto la differenza tra me e le ragazze che erano rimaste in paese. Mi sentivo davvero cambiata».

Come si svolgeva una giornata lavorativa?

«Si andava in servizio alle 8 di mattina, era la prima veglia: due ore di riposo in mezzo alla giornata e poi si continuava fino a mezzanotte. Alle sei e mezzo si andava a dormire e poi si riprendeva a mezzanotte. La seconda veglia invece era dalle 8 alle 8, si andava a dormire alle 8, ci si alzava a mezzanotte e si lavorava fino alle 8. Poi toccava all’altro turno.

Dove lavoravo io eravamo in 9 a fare questi turni, poi entravano quelli dell’altro turno. Facevamo un giorno e una notte di lavoro, un giorno e una notte di riposo. Certe volte lavoravamo 18 ore, anche 20. Tutte queste ore in più si accumulavano poi nelle ferie. Lavoravamo due mesi e mezzo, feste comprese. Poi 15 giorni a casa».

Com’era organizzata la struttura?

«A sinistra c’era il reparto delle donne, a destra quello degli uomini (rigorosamente divisi), in mezzo l’accettazione. Poi la chiesa e dietro l’appartamento delle suore. Sotto avevamo un soggiorno per noi, c’era anche la mensa e si poteva passare il tempo, cucivamo oppure facevamo altre attività. Chi sapeva fare qualcosa, insegnava alle altre qualche attività».

In quali reparti di psichiatria ha lavorato?

«Ho passato tre reparti. Il primo in cui sono entrata è stato quello di accettazione degli ammalati. All’inizio facevo poco, ho affiancato le altre. Poi ho iniziato a fare le veglie: eravamo sempre insieme ad altre infermiere, almeno tre. Il reparto accettazione era il più piccolo, ci saranno state circa 60 ammalate. 

Poi sono andata nel reparto in cui c’erano le malate gravi ma ero troppo minuta. Una donna mi a preso per le spalle, una volta, e mi ha fatto capitolare a terra. C’erano delle pazienti che sapevano con chi prendersela, probabilmente quella donna ha visto in me una possibile ‘preda’ e mi ha fatta cadere apposta.

Però non giravamo mai da sole nelle stanze, per legge non si poteva. C’erano i medici specializzati in psichiatria, insieme a noi. E con loro anche i medici alle prime armi che erano più titubanti di noi. Certo, negli ultimi anni in cui studiavano facevano anche pratica, ma insieme a loro c’erano quelli con più sangue freddo».

ospedale psichiatrico vareseCome si gestiva un malato psichiatrico?

«Quelli in accettazione venivano curati con l’insulina. Si iniziava con poco dosaggio e si arrivava a somministrare loro tanta insulina fino a quando andavano in coma: il primo coma durava 5 minuti, il secondo del giorno dopo, 10 minuti e poi, al massimo di tempo che si poteva far stare in quello stato. Poi li si faceva svegliare con il destrosio in endovena: questo era compito delle Suore delle Poverelle tra le quali c’era anche mia sorella Carla.

Se non si svegliavano neppure con i primi 50 cc di destrosio, si continuava ad aggiungere quantità. A volte però proprio non si svegliavano dal coma, allora le pazienti venivano prese a botte. Ad esempio, ricordo di una ragazza che stavamo schiaffeggiando in due: aveva una faccia irriconoscibile, quando sono venuti i suoi parenti a trovarla, non gliel’hanno fatta vedere».

I parenti sapevano che avveniva questo tipo di trattamento?

«Forse non sapevano completamente tutto. Probabilmente non veniva spiegato cosa accadeva quando le pazienti non si svegliavano».

Succedeva spesso?

«Non so dirlo visto che ho lavorato in questo reparto solo un paio di mesi. Poi sono finita in quello dove c’erano le pazienti stabili. Le chiamavano ‘bacicioc’. Insomma, donne che sembrava non avessero coscienza di stare al mondo. Facevano le attività che venivano loro chieste, andavano ad esempio in lavanderie accompagnate dalle infermiere, ma per strada si continuavano a lamentare e non facevano mai un discorso che stava in piedi».

Perché veniva somministrata insulina?

«Si dava a chi soffriva di schizofrenia. Se invece si trattava di pazienti fortemente malate, si faceva l’elettroshock. Tra quelle a cui veniva data l’insulina, ad alcune di sera facevano anche l’elettroshock. Era una scossa di 2 o 3 secondi alla testa. Alle epilettiche, invece, veniva somministrata l’acetilcolina, un farmaco che mandava scosse.

C’erano anche malate legate per tutto il giorno: avevano la camicia di forza che le teneva ferme. Le sedavano, così dormivano e non si lamentavano. Quando dormivano così tanto, al risveglio a volte erano rilassate, però la malattia non era certo passata».

Lei ha provato a fare l’elettroshock alle pazienti?

«No, lo facevano solo i medici. Noi preparavamo tutto il necessario. Era una macchinetta con due elettrodi messi in fronte.

Insomma: l’insulina le metteva troppo in coma e così con la scossa elettrica venivano risvegliate».

Vedeva sofferenza in queste persone?

«Avevano paura, più dell’elettroshock, ma non erano consapevoli. Avveniva tutto senza che un paziente potesse vedere un altro: si metteva il paravento, così direttamente nessuno di loro ha mai visto mentre veniva fatto ad un’altra persona».

Ma capivano che stava per succedere a loro l’elettroshock?

«Sì ma non erano davvero consapevoli. Poi a volte tiravano dritto a dormire per ore anche con l’elettroshock.

Ad alcune le scosse venivano date per un quarto d’ora. Alla fine diventavano davvero come delle persone perse nel loro mondo, con sguardo fisso nel vuoto».

Quanto tempo restavano ricoverate?

«Dopo 15 – 20 giorni finiva il trattamento. Certe volte andavano a casa, certe volte rientravano ancora».

Secondo lei a cosa serviva la terapia?

«Non ho risposte, vedevo che restavano solo stordite. Partivano completamente. Finita la terapia, nel giro di 15 giorni, a volte venivano mandate a casa ma poi tornavano lì. Non è mai guarito nessuno. In 5 anni ho visto andare e venire le stesse pazienti tante volte».

Crede siano state tutte davvero malate? Necessitavano davvero di cure?

«Quando entravano sembravano persone normali, alcune solo un po’ più taciturne di altri. Per me non erano certo terapie che facevano guarire. Credo che non ci fosse davvero abbastanza conoscenza della malattia e di come curarla. Ci spiegavano che l’elettroshock veniva fatto perché c’era un qualche elemento che si ‘staccava’ e così riuscivano a riattaccare questa parte».

Che età avevano le pazienti?

«Le malate di schizofrenia erano giovani. Avevano all’incirca 18 anni. Le epilettiche erano più grandi, non so dire se avessero iniziato da più giovani. Poi c’erano anche le anziane: alcune quando arrivavano lì erano già passate da altri ospedali ma non potevamo guardare neppure tutta la cartella».

ospedale psichiatrico vareseCi ricorda qualche particolare episodio?

«Ricordo una che mi parlava, in dialetto varesotto: ‘Enfermera, la varda che me la ciape, gan fo dentar tri’ (‘infermiera, guarda che io la prendo e gliene faccio tre!’ ndr.).

Io la sfidavo: ‘Dai, provaci, vediamo chi la vince’. Così una volta, dopo avermi visto passare, mi ha preso la cuffia dalla testa e se l’è infilata nelle mutande. Questo è successo in accettazione.

Un’altra, una volta, una malata è saltata giù dalla finestra… e non si è fatta niente. Non ho fatto in tempo a fermarla, eravamo in soggiorno di ‘lavoro’, dove c’erano le ragazze che cucivano ad esempio. Alcune cucivano tutto il tempo continuando sempre a lamentarsi di qualsiasi cosa. Una di loro a un certo punto è saltata dalla finestra. Non c’erano neppure ringhiere e quella finestra non sarà stata neppure a due metri di altezza. Un’altra ragazza mi ha chiamata, sono saltata subito giù dalla finestra anche io… e mi sono rotta una gamba. La paziente che era saltata giù, non aveva neppure sentito dolore, si è girata verso di me e mi ha detto: ‘Mi me sun fata nienti’ (‘non mi sono fatta niente’ ndr.). Io invece ho dovuto chiamare un aiuto per farmi venire a prendere, tanto avevamo l’Ospedale di Circolo vicino.

Ricordo anche di una bravissima paziente che suonava il pianoforte, era una professionista. Poi, mi viene in mente di una ragazza che attendeva il dottore da sotto il suo letto, nuda».

Com’era una giornata tipica di una paziente, oltre l’insulina?

«C’era un reparto di demenza grave e loro non facevano nulla. Le malate meno gravi, invece, cucivano, lavoravano ai ferri oppure giocavano a tombola e poi le portavamo fuori a far la passeggiata nel cortile».

Ha mai assistito a casi di lobotomia?

«Sì, la chiamavamo leucotomia, entravano sotto le sopraciglia. Consisteva nel rompere dei piccoli nervi che si pensava fossero collegati alla malattia. Questo è il massimo che mi avessero spiegato a scuola. Abbiamo fatto solo materie mediche generiche».

Dopo questo intervento vedeva un cambiamento?

«No, erano tutte provate dall’intervento e basta. Non che avessero qualche problema dopo l’intervento, ma di certo non miglioramenti. Credo fossero tutti esperimenti».

Ma i famigliari non sapevano neppure di questi interventi?

«Non so quanto fossero informati. Il medico di famiglia consigliava il ricovero, quindi loro li ascoltavano. I giovani ai quali era diagnosticata la schizofrenia, non ne uscivano più».

Da che zona geografica provenivano i pazienti?

«Più o meno tutti dalla provincia di Varese».

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