Perché dovremmo parlare di “Smartphone insanguinati”: la risposta nel coltan

Vi siete mai chiesti da dove arrivano i nostri cellulari? O, meglio, da dove arrivano i loro componenti? Avete mai sentito parlare del coltan?

È dura accettarlo. Ma dovremmo parlare di “smartphone insanguinati”. Tutti.

Mentre godiamo della nostra democratica libertà fatta di selfie, whatsapp, stories, stickers e cellulari tuttofare, dovremmo almeno essere consapevoli di cosa – o meglio chi – permette tutto questo.

Partiamo dalle basi: cos’è il coltan e a cosa serve?

Il coltan, il cui termine esteso è columbite-tantalite, ovvero i due minerali di cui è composto, è uno dei materiali più indispensabili per la nostra tecnologia: lo ritroviamo nei nostri smartphone ma anche nelle videocamere, nei videogiochi, nei computer e in tantissimi altri device.

Perché? Perché dal coltan si estrae il tantalio, un ottimo conduttore energetico grazie al quale si riduce il consumo di corrente elettrica, garantendo così un buon risparmio nelle batterie dei nostri dispositivi tecnologici.

Come appare? Il coltan si presenta come una sabbia nera e inalabile: le sue dimensioni sono tali da determinare l’interazione con l’apparato respiratorio umano.

coltan Congo

Ora, il dato più spinoso di tutti: dove si trova il coltan?

E qui cade il nostro castello dorato. Scopriamo quindi da chi dipende la nostra vita privilegiata. L’80% delle riserve mondiali di coltan si trova in Congo, in particolare nelle regioni orientali della Rdc, in Kivu. Uno Stato noto per il benessere e la ricchezza della sua popolazione, vero?

Chiaramente non è così, e la maggior parte dei lettori avrà già compreso le gravi implicazioni dietro questo dato: traffico illecito, invasione (in questo caso sì che si può parlare di invasione) di eserciti stranieri, formazione di milizie armate e incontrollate, creazione di masse di profughi in fuga, stupri di massa, saccheggi e distruzioni di ogni genere, spesso compiuti da ragazzini armati. 

Tutto questo è già stato descritto e testimoniato accuratamente da un rapporto del 2016 di Amnesty International, “Questo è ciò per cui moriamo: Abusi dei diritti umani in Rdc alimentano il commercio globale di cobalto” (qui).

Quindi il dato insanguinato: da chi viene estratto il coltan?

Dietro a questo tesoro ci sono migliaia di lavoratori impegnati anche 12 ore al giorno in condizioni inumane, in miniere illegali, senza protezioni, a mani nude, per un guadagno sotto la soglia di povertà. Tra questi, almeno 40mila sono minori, molti di loro hanno tra i 6 e i 7 anni.

Spesso si tratta di miniere a cielo aperto, simili a grandi cave di pietra, in alcuni casi invece vengono realizzati cunicoli sottoterra ancora più terribili e ai limiti della resistenza umana (vedere il video Rai che includiamo qui sotto per comprendere).

Inoltre, il coltan danneggia anche la salute: contiene una parte di uranio, quindi è radioattivo, provoca tumori, impotenza sessuale e malformazioni. E il terrore non manca: solo per divertimento, in alcuni casi, i guerriglieri del RDC (Rassemblement Congolaise pour la Democratie) attaccano civili e minatori uccidendoli nelle miniere, motivo per il quale, in alcuni casi, le vittime hanno dovuto scavare delle buche in cui ripararsi dai ribelli.

Chi commercia il coltan?

Ricordiamo solo che la guerra, nata per garantire il monopolio di questo materiale nelle mani di pochi affaristi, ha causato migliaia di vittime, costringendo la popolazione in uno stato di assoluta povertà. Ovviamente, il prezzo del Coltan è altissimo, molto più dell’oro: nel mercato nero è venduto in Europa fino a 600 dollari al Chilo, ma è acquistato dai diretti fornitori per appena 20 centesimi.

Sempre grazie ad Amnesty International è stata resa nota la più grande azienda al centro di questo commercio in Rdc: la Congo Dongfang Mining International (Cdm), controllata al 100% dalla cinese Zhejiang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), uno dei più grandi produttori al mondo di cobalto

La Cdm e la Huayou cobalt lavorano il cobalto prima di venderlo a tre produttori di componenti di batterie a litio: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. A loro volta, queste aziende vendono le loro merci ai produttori di batterie, i quali poi le distribuiscono ai più noti brand di elettronica.

Senza dimenticare l’eccedenza di rifiuti causata dal consumismo

La durata media mondiale dei cellulare è di 12 mesi, quella europea è di 18 mesi. Risultato? Un gran numero di rifiuti elettronici che, per la maggior parte, finiscono nelle megadiscariche presenti in Africa e in India. Tra l’altro, i rifiuti sono una delle grandi cause dei cambiamenti climatici.

Allora che fare? Una soluzione per evitare lo sfruttamento:

Prima di tutto, mettiamo da parte la voglia di sfoggiare agli amici l’ultimo modello nuovo di zecca e consideriamo l’acquisto di device elettronici ricondizionati. Sono sempre di più i negozi che forniscono questo servizio vendendo smartphone e altri oggetti tecnologici di seconda mano ma perfettamente funzionanti.

Un’alternativa per l’acquisto del nuovo, invece, la troviamo solo nell’azienda olandese Fairphone. Ad oggi è l’unica che certifichi una filiera di produzione, per l’appunto, “fair”, ovvero corretta (qui il sito). I suoi lavoratori, infatti, lavorano nelle miniere situate nella regione congolese del Katanga (dove non è presente la conflittualità del Kivu), comprano il coltan a un prezzo equo e con corrette condizioni di lavoro: niente bambini, donne e armi.

Purtroppo, i principali marchi di elettronica (pensiamo a Apple, Samsung e Sony ad esempio) non attuano i dovuti controlli di base per garantire che il cobalto usato nei loro prodotti venga estratto rispettando i diritti umani e non passi attraverso lo sfruttamento e il lavoro minorile.

Mentre Fairphone lo fa. Inoltre, proprio in ottica anticonsumista, realizza il proprio prodotto suddiviso in pezzi: se ti si rompe la videocamera, ad esempio, puoi acquistare solo il pezzo di ricambio e rimontarla seguendo le semplici istruzioni indicate. Stessa cosa per il lancio di un nuovo modello: se vuoi fare l’”upgrade” del tuo, potrai scegliere solo alcuni pezzi.

Che ne dite? Riusciamo a fare un salto di qualità mentale? La sottoscritta ha deciso che, quando sarà il suo tempo, invierà a Faiphone il proprio cellulare per permettere loro di ricondizionarlo e acquisterà questo smartphone “etico”. Altri amanti di particolari dettagli tecnologici possono iniziare a considerare la propria “marca del cuore” ricondizionata. Basta iniziare a pensarci.

Fonti

Gocce di Giustizia (qui)

Repubblica.it (qui)

Documentario Nemo, Rai

Rapporto Amnesty International: “Questo è ciò per cui moriamo: Abusi dei diritti umani in Rdc alimentano il commercio globale di cobalto”.

Adesione a campagna Amnesty International (qui)

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