Cosa significa il momento del parto? Com’è vissuto un atto tanto intimo quanto ospedalizzato? Un racconto che viene dal cuore, per ringraziare la figura che accompagna ogni partoriente, l’ostetrica. A condividerlo con noi è Federica Scutellà, mamma 30enne che ha voluto rendere pubblico il suo “grazie” alle due ostetriche che l’hanno accompagnata durante il travaglio, nell’ospedale di Gallarate (Varese).
Ho conosciuto due occhioni dolci il 25 aprile 2016, gli occhi di mio figlio. Un bambino desiderato e sognato da sempre, da quando ero adolescente, un istinto innato dentro me di essere mamma, un desiderio continuo di sentirmi realizzata nella vita solo con una famiglia mia e il mio bambino, la ciliegina sulla mia torta.
Immaginavo il giorno del parto e mai avrei pensato di vivere il giorno del parto tra sconosciute che diventano, in quelle lunghissime ore, il mio tutto, il mio appiglio, la mia ancora.
Donne che per lavoro “sono costrette” a vivere emozioni intense, situazioni stressanti, gioie uniche che quasi, a vederla da fuori, diventano routine. Invece no. Non lo è affatto. Vivono le paure, le angosce, le paturnie di donne che stanno per compiere il miracolo della vita e lo vivono a pieno, a cuore aperto.
Io ho avuto la fortuna di incontrarne due, molto diverse ma immense e perfette in ogni momento del mio Travaglio.
La prima, dalle 9 alle 14, Mimma: una donna dolce, rassicurante. Una donna a cui traspare l’anima dagli occhi e io quegli occhi grandi li ricordo bene. A due centrimetri dal mio viso mi guardava per non farmi pensare alla paura di un ago che stava per essermi conficcato nella schiena. Ci guardavamo e ci sussurravamo parole dolci: le dicevo che i suoi occhi erano grandi e bellissimi, di colore verde, le chiedevo come si chiamano le sue figlie visto che al collo portava una collana con dei ciondoli di bambini. Le dicevo che sono fortunati ad avere una mamma dolce come lei. Poi piangevo guardando la collana con la Madonna che portava al collo e i suoi occhi si riempivano d’amore e di lacrime. Ma non potevamo muoverci. Così, immobili, ci guardavamo con amore. Io guardavo una sconosciuta che non lo era più, era la donna che mi stava aiutando a mettere al mondo Mio Figlio. Mi accarezzava il cuore e non lo sapeva, mi abbracciava forte a sé senza saperlo.
Poi arriva Isabella, donna forte, decisa, risoluta, incoraggiante. Colei che farà nascere mio figlio. Una sconosciuta che mi dice: non ti preoccupare, andrà tutto bene, segui ciò che ti dico. Io le ho dato retta, come contraddirla. Era la mia fortezza. Guai ad allontanarmi da lei, guai a toglierle gli occhi di dosso, anche se tenevo gli occhi semi chiusi e la “spiavo”.
Lei ha fatto di tutto per me: disposta a far nascere il mio bambino nel modo più comodo a me ma, in assoluto, il più scomodo è assurdo per lei. Mi dava la certezza che tutto sarebbe andato bene. Una roccia a cui aggrapparsi. Così, con la sua apparente durezza, mi ha trasmesso la forza e il coraggio di fare ciò che ho fatto. Mi ha coccolata facendomi sentire forte e capace.
Lei, una sconosciuta, ha accolto mio figlio alle 17:12 e subito lo ha poggiato sul mio ventre. La mia sconosciuta speciale.
Non è un lavoro, è un dono. Sono ostetriche.
Leggi anche: Maternità surrogata addio. L’appello delle donne italiane all’Onu