Sabina, intersex: «La mia interiorità è rispecchiata nella mia esteriorità»

Sabina Zagari di Varese racconta le sfide e i successi che una persona intersex può affrontare nel quotidiano e nell’ambito dell’attivismo. Insieme ad Alessandro Comeni è co-fondatrice di OII Italia (Organizzazione Intersex internazionale Italia). In questa intervista condivide ciò che sa e spera in funzione di dare visibilità all’esistenza delle persone intersex.

«Le storie delle persone intersex sono veramente disparate – riflette Sabina diverse l’una dall’altra. A me non piace parlare di diagnosi perché quando se ne parla si sta già “patologizzando”.

Tuttavia, dal mio punto di vista devo parlarne perché, nel momento in cui i miei genitori hanno dato il permesso ai medici di operare sul mio corpo, hanno creato una serie di scompensi psichici e problematiche mediche che mi porterò avanti fino alla mia morte.

Gli interventi di chirurgia normalizzante fatti quando sei un fanciullo e hai solo tre anni sono disastrosi. Io faccio attivismo soprattutto per aiutare le future generazioni di bambini intersex che, tra parentesi, non sono così pochi come ci fanno credere. Dopotutto, essere Intersex non è una malattia e soprattutto non è una malattia rara, le stime parlando dell’1,7% della popolazione e agli attivisti piace accomunarlo alla stessa identica stima dei bambini nati con i capelli rossi”».

Chi è Sabina? Presentati.

«Sono Sabina. Sabina è già una definizione. Sono una persona e non amo molto definirmi perché nella mia vita le definizioni sono state per me come una gabbia, però se mi chiedi qualcosa di me, sono una persona orgogliosamente intersex.

Sono arrivata a questa consapevolezza da poco tempo e da quando ci sono arrivata vivo più serenamente, non mi preoccupo eccessivamente del giudizio altrui. Non posso dirti che non me ne frega nulla di ciò che pensa la gente, perché non è vero, però ciò che tu ora vedi è ciò che io sono in realtà.

La mia interiorità è rispecchiata nella mia esteriorità. Sono una persona che fa attivismo, ormai da più o meno un anno. Lo faccio per due motivazioni principali, la prima è aiutare le future generazioni di bambini intersex a non vivere nemmeno l’1 percento di ciò che ho vissuto io, la seconda è che fare attivismo aiuta me stessa, è un lavoro terapeutico che io faccio continuamente verso di me.

Parlare di ciò che mi è successo, mi succede e di come sto, mi aiuta ad andare avanti; parlare mi aiuta a elaborare sempre meglio i concetti e a non dimenticare cosa ha significato, tutta la mia vita, il vergognarmi di essere una persona intersex. Me lo sono anche tatuata:

Nessun corpo è vergognoso”».

La vergogna per te ha agito verbalmente o in modo materiale?

«Tutta la parte di medicalizzazione è stata fatta al Gaslini a Genova. In casa mia mi è sempre stato detto, sin da piccola, di non parlare con nessuno riguardo al perché si andava a Genova. Ai miei genitori era stato detto di dirmi così, è quello che succede tutt’ora. Oltre ad essere un segreto è ovvio ed implicito che se a un bambino viene imposto di mantenere il segreto e di non parlarne con nessuno, la vergogna si interiorizza.

In me come in altre persone intersex con le quali mi sono confrontata la vergogna si è interiorizzata, radicata. Questa è una parte dolorosa nella mia vita, che ho sentito di più con mia madre che con mio padre. Sono sempre stata una ragazzina che non amava vestirsi da bambina e comportarsi da bambina, anche se il mio fenotipo è femminile, quando mi vestivano da bambina e mi mettevano la gonna, mi impuntavo per dire no. Mi sentivo a disagio e stavo male.

In quel momento sentivo la vergogna di mia madre. Non è una cosa piacevole sentire che una persona che ti dovrebbe amare incondizionatamente, si vergogna di te. Penso comunque che quello riguardi mia madre, la vergogna è una cosa con la quale farà o non farà i conti, non è più un mio problema, io sto prendendo le mie decisioni in base a ciò che sento».

Come ti ha influenzata, nella tua vita, il fatto che tutto sia diviso rigidamente in “maschile” e “femminile” ?

«La sedia è femminile, il tavolo è maschile. Nella lingua italiana tutto è binario, niente è neutro. Siamo orientati fin dalla nascita, rosa per le femmine, blu per i maschi, giochi per bambine e giochi per bambini. Questo modo di pensare condiziona fortemente la vita delle persone. Prova ad immaginarti un bambino intersex, oggi, a scuola. Un bambino che probabilmente ha un fenotipo femminile e ora ha dieci anni. Tra qualche anno il suo corpo si virilizzerà durante la pubertà.

Non tutte le condizioni intersex sono così ma questo è il mio caso, ciò che sarebbe potuto succedere a me. Questo bambino si è trovato a vivere condizionato costantemente e quotidianamente dal binarismo e magari non vuole giocare con le barbie, ma lo fa perché è condizionato. Poi quando inizia la pubertà, il tuo corpo cambia direzione. È lì che vai in crisi. Per questo motivo bisogna educare i bambini fin da piccoli e cambiare modalità.

A volte nelle storie le cose vanno bene, alcune male ma l’importante è ammettere che questo binarismo spesso rovina la vita delle persone. Al giorno d’oggi io non mi sento più una vittima ma una sopravvissuta, tutto questo mi ha causato molto dolore e problemi emotivi. È bruttissimo per un bambino non avere un gruppo di appartenenza, non sentirsi rappresentato e vivere le differenze sulla propria pelle.

Mi ricordo degli episodi di quando ero in prima media, era un periodo difficile, mi ero appena trasferita e non mi sentivo mai al posto giusto. Anche le altre persone Intersex condividono questo sentire la differenza“, la senti, ma non la sai spiegare.

Quando chiedi aiuto e i tuoi genitori ti indirizzano verso uno psicologo o uno psichiatra, viene sempre ribadito: sei stata educata come una bambina quindi tu sei una bambina; ma la mia parte maschile si scontrava costantemente con quella femminile, è stata una lotta interna che è durata per anni, fino a quando, grazie a una serie di momenti tragici e grazie a persone che si sono interessate a Sabina come persona e non a Sabina come caso, sono riuscita a far combaciare le mie due parti.

La mia identità di genere è senza definizione, io non mi considero né donna né uomo e mi piace questa contraddizione. Mi piace mostrarlo, per esempio il mio colore preferito è il fucsia ma mi piace indossare i pantaloni larghi, oppure tenere i capelli rasati. Per me è stato un atto terapeutico rasarmi i capelli. In genere i capelli sono la prima cosa ad essere sinonimo di femminilità e separarmi da questo stereotipo è stato difficile, ci è voluto un anno per riuscire a rasarmeli».

Hai sempre saputo di aver subito un’operazione?

«Io in realtà ho scoperto molto tardi la mia conformazione genitale, nel 2016. Solo l’anno scorso ho scoperto ciò che mi è stato fatto. Stavo facendo un percorso comunitario per tossicodipendenza e mi hanno detto che non c’erano le competenze necessarie per trattare il mio caso specifico. A dicembre 2015 un sessuologo mi propone di fare la visita ginecologica, per me farmi visitare non è proprio un piacere, passano sei mesi e dopo mi decido. Lì un professionista, con delicatezza ed empatia mi spiega ciò che è stato fatto ai miei genitali… è stata una batosta.

Premetto che non non avevo idea di dove fosse il clitoride, non potevo parlarne con nessuno, non avevo nessuno con cui confrontarmi. In questa occasione ho scoperto che il mio clitoride è inesistente perché amputato in fase di intervento. Quella è stata la prima scossa, così ho deciso di fare un cambiamento a livello estetico. Avevo i capelli molto lunghi e li ho tagliati sotto l’orecchio, ho cercato una pettinatura che mi rispecchiasse ma avevo il desiderio di rasarmi i capelli per rompere lo stereotipo. All’inizio è stato faticoso, io ho passato anni a non riuscire a guardarmi allo specchio, ma ora quando guardo vedo l’interno espresso esteriormente. Mi sento così, come mi vedi».

Qualche episodio simpatico o influente nella tua vita?

«Ti racconto questo episodio perché ha un controepisodio e tutto è successo quest’anno. Questa è una parte difficoltosa della mia vita perché a circa 20 anni ho tentato il suicidio, ustionandomi il 70 percento del corpo e all’ospedale mi hanno rasato i capelli a zero, abitavo in un paesino vicino alla Svizzera e prendevo il treno per andare a Varese. Mentre camminavo con delle amiche, un ragazzo si gira e chiede: 

Ma è una ragazza o un ragazzo?

Quella frase mi ha fatto un male incredibile, perché sento le emozioni in modo forte e mi rinchiudo. Quindi quella volta è stata dolorosa, sapevo che a livello di cromosomi il mio genotipo è maschile ma era comunque sconvolgente sentirsi rivolgere quella domanda.

Quest’anno invece, poco prima dei vari Pride, dopo una seduta con il sessuologo, mi ero detta: “Domani mattina vado dal barbiere e mi taglio i capelli, li raso”. Non ho partecipato al Pride di Varese ma sono andata comunque sotto il palco per raggiungere degli amici e ho lasciato la macchina lontano per farmi una passeggiata. Ad un certo punto ho sentito quelle stesse identiche parole: “Ma è una ragazza o un ragazzo?”. Ho sentito quella frase in lontananza, questa volta, però, ho sorriso.

Ci ho pensato e ho sorriso, mi sono detta, finalmente qualcuno che si pone il dubbio, io non sono né l’uno né l’altro. Era cambiata la percezione che avevo di me stessa, anche se, dico la verità, a volte capita che qualcuno mi parli al maschile e se succede in modo inaspettato, la percepisco quasi come un’offesa. Tuttavia, so che questo è un altro lavoro che potrò fare. Non c’entra come gli altri mi percepiscono, io sono legata al genere femminile anche come pronome, ma il problema è questo, in italiano non c’è un pronome neutro, altrimenti lo sceglierei. Alla fine Sabina non mi dà fastidio, mi piace, ma potrebbe comunque essere un buon lavoro terapeutico abituarmi anche a sentirmi chiamare con un pronome maschile. Non sto a rompermi la testa su queste cose».

Identità di genere e orientamento sessuale, come lo vede una persona intersex questo dibattito?

«Secondo me identità di genere e orientamento sessuale non sono legati, non vanno di pari passo, almeno dal mio punto di vista. Nella mia storia c’è stato un momento in cui mi sono chiesta se fossi lesbica, ma ho imparato con il tempo che quando si fa un percorso introspettivo, sia se lo si faccia a livello canonico, con uno psicologo uno psicoterapeuta o nei gruppi, questa della sessualità è una cosa in definirsi. Inizialmente io pensavo di essere lesbica poi ho scoperto che non è così. Ieri sera ci riflettevo in un gruppo in cui sono l’unica persona intersessuale e con altre persone transgender, riflettevo su quanto  sono affascinata dalle persone FtM che fanno una transizione dal femminile al maschile. Sono incuriosita da loro».

C’è qualcosa nei loro percorsi che vedi di simile al tuo?

«Sì qualcosa c’è. Io non ho intenzione di fare una transizione di nessun tipo e non mi vedo completamente al maschile né come completamente al femminile. Però sono disforica rispetto al mio seno, questa parte la rivedo in loro. Probabilmente in futuro farò una mastectomia, non totale, ma comunque so che il mio seno non mi appartiene perché se non mi avessero dato la terapia ormonale sostitutiva non lo avrei mai avuto.

Per quanto riguarda la mia sessualità invece, potrei dire pansessuale, ma alla fine si tratta di relazioni. In precedenza ho avuto una relazione con un uomo, prima della mia consapevolezza, e sono stata innamorata di lui. Non posso rinnegare il passato e penso che potrei innamorarmi nuovamente di una persona con genere maschile. Quindi secondo me no, identità di genere e orientamento sessuale non vanno di pari passo».

Descrivimi il tuo rapporto con l’attivismo e OII (Organizzazione Intersex internazionale Italia)

«Oii è un progetto non solo europeo (Oii Europe) ma anche internazionale perché esiste anche Oii USA e Oii Australia. L’attivismo è una cosa bellissima fatta con i nostri amici stranieri, è molto arricchente. Io e Alessandro Comeni ne siamo i fondatori in Italia. Ci siamo conosciuti via Facebook e lui è presidente onorario di Certi diritti. Con lui c’è stata sin dall’inizio un’affinità elettiva. Ci siamo trovati e per me è come un fratello, parliamo di tutto e lui si preoccupa di me, mi vuole bene.

Insieme abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa a livello di rappresentanza di persone intersex. In Italia esistono molte associazioni di persone che sono Intersex ma non vogliono far parte del movimento LGTB e non vogliono nemmeno esser definite intersex. Vogliono esser definite DSD (disorder sex development) e noi non ci troviamo in questa definizione perché non siamo un disordine o un disturbo. Siamo delle persone.

Così, insieme noi abbiamo deciso di far parte di questa associazione. Oii Italia è stata creata ma non è ancora un’associazione registrata per una serie di motivi. Oii Italia è la filiale italiana di Oii Europe del cui direttivo Alessandro fa parte, così tutti lavoriamo nella stessa direzione. La direzione europea è quella di arrivare alla Malta Declaration, estremamente riassunto: una legge che vieta gli interventi sulle persone intersex. 

Oii Italia si prefigge molti obiettivi, ma il mio personale è quello di arrivare alle masse e in Italia è difficile. Per me bisogna distruggere il binarismo ed è un lavoro che va fatto a partire dai più piccoli. Alla massa deve arrivare che noi siamo persone, esistiamo, e far vedere che ci sono persone che non si identificano né come uomo né come donna, è un’evidenza. Io sono la prova concreta del fatto che non esiste il binarismo. Però è un lavoro difficile. Come Oii ci riuniamo in assemblee internazionali, io sono stata a Vienna quest’anno, c’erano una quarantina di attivisti da tutto il mondo ed è stata una bellissima esperienza».

Come vedi il futuro per i bambini nati intersex?

«Per ora in Italia non lo vedo. Ora non si sta sentendo nulla rispetto agli interventi ma l’ultimo del quale si è parlato è quello dell’anno scorso a Palermo in cui è stato utilizzato un protocollo del tutto errato. Malgrado l’Italia sia un paese con un alto tasso di obiettori di coscienza rispetto all’aborto, quando viene diagnosticata una condizione intersex, l’aborto viene consigliatoBisogna fare molto lavoro, ci sono tanti progetti da fare, ma non c’è un centro di riferimento e molti medici sono interventisti, non si rendono conto di ciò che poi le persone subiscono nella vita.

Non esistono solo storie al limite come la mia, ci sono anche storie partite bene e che proseguono bene, tutto dipende dalle persone con le quali si ha a che fare. Infatti nel mondo medico ci sono anche figure positive, per esempio a livello psicologico e sessuologico, mi sono resa conto di quanto sia cambiato il punto di vista. Ricordo una psicoterapia di quando avevo ventisei anni e continuavo a sottolineare di come non mi sentissi donna, la psicoterapeuta continuava a ribadire che essendo stata educata come bambina, ero bambina. Mentre ultimamente sempre più professionisti hanno preso posizioni e hanno compreso che queste forzature, queste costrizioni creano delle crepe nella psiche delle persone. Ora c’è molta più apertura, non solo in questo campo ma anche per quanto riguarda i diritti umani fondamentali.

La mia opinione su questo tema è che solo delle équipe multidisciplinari dovrebbero prendere in carico bambini intersex, certo gli interventi salvavita vanno fatti, ma sono interventi molto rari, pochissimi bambini lo necessitano. Quindi delle équipe multidisciplinari che prendano in carico il bambino non come caso, non come soggetto di studio, non come possibilità di pubblicazione ma come essere umano, sono dovute. Un bambino dovrebbe avere diritti fondamentali e anche i genitori non possono scegliere per lui, perché l’identità di genere è una cosa innata, ce l’hai dentro e prima o poi emerge. Una forzatura, una costrizione è qualcosa di errato».

Secondo te qual è il pregiudizio più grande delle persone?

«Il pregiudizio ci può essere se si sapesse almeno che gli intersex esistono, infatti il problema più grande riguarda la visibilità. La maggior parte delle persone non sa che esistiamo, non se ne vuole parlare. Il 26 ottobre è la Giornata della consapevolezza Intersex e l’8 Novembre è la Giornata della solidarietà Intersex.

L’anno scorso hanno organizzato un evento con l’Arcigay di Varese in cui mi sono resa visibile nella mia città e quest’anno volevo creare un evento più grande, per la massa. Ho scritto al Comune di Milano e al cinema, perché c’è un film del 2015 di un regista italiano, film che si chiama Arianna e sta facendo dei concorsi a livello internazionale. L’attivista russa che ho conosciuto a Vienna l’aveva visto, così io volevo farlo vedere gratuitamente perché sono in contatto con la casa di produzione e il regista. Avrei voluto che fosse proiettato seguito da un piccolo momento di riflessione ma nessuno ha risposto, non si è potuto fare perché non c’è interesse».

La tua più grande paura?

«Rimanere sola. Mi piacerebbe riuscire a costruirmi una famiglia».

Sogni e speranze per il futuro?

«Innanzitutto che il lavoro che sto facendo prima o poi porti dei frutti anche qui in Italia, certo, non mi aspetto di raggiungere obiettivi ambiziosi come quello di distruggere il binarismo di genere, ma obiettivi accessibili come quello di educare alle differenze.

Il mio sogno personale invece è quello di andare via dall’Italia il prima possibile perché dopo aver visto Vienna e l’apertura che c’è verso certi temi, mi rendo conto che qui voglio stare il meno possibile. Magari anche per ritornare in futuro, ma per ora non c’è nulla che mi lega qui e credo che mi faccia bene cambiare punto di vista e prospettiva.

Inoltre, il mondo LGTB a volte è ghettizzato e ci sono molte separazioni al suo interno, discordanze. Io nella mia vita non voglio ulteriori scissioni, voglio star bene con tutti e non voglio accettare posizioni che non mi stanno bene. In molti paesi europei questo è possibile, quindi andarmene via sarebbe un sogno».

Quando parli di distruggere binarismo cosa intendi, non sarebbe meglio “riformulare” il binarismo?

«Dal mio punto di vista non esiste il binarismo, al massimo potrei dire modificare la percezione che si ha del binarismo, che è un modo più soft di dire distruggere. Credo che si debba essere incisivi e distruggere gli stereotipi, è da lì che bisogna partire, le prime persone che devono iniziare a fare questo genere di lavoro sono i genitori che devono distruggere il concetto. Inoltre, credo che i professori e le maestre non possano permettersi di avere dei pregiudizi, meno che meno insegnarli».

La tua canzone preferita?

«Simili di Laura Pausini».

 

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