A scuola dietro le sbarre: “Di Ionut le carceri sono piene”

Sono un’insegnante di scuola primaria e per ben 25 anni ho insegnato ai bambini. Otto anni fa, però, ho fatto una scelta che mi ha cambiato drasticamente la vita: ho salutato per sempre il mondo della spensieratezza, della fantasia, del sorriso disincantato, della gioia che illumina occhi innocenti, per incrociare sguardi vuoti colmi d’abisso, sorrisi spenti, volti segnati dalle pieghe della tristezza, anime incupite e grigie.

Otto anni fa sono entrata nell’aula più piccola che possa esistere, dove lo spazio vitale assume una importanza assoluta e dove anche la mia anima si è “ristretta”.

Per la prima volta ho dovuto lasciare tutto ciò che mi che fa parte del mio “fuori”, del mio essere “libera” e ho dovuto chiudere in un armadietto qualsiasi contatto con il mondo al di là delle porte blindate e delle sbarre alle finestre.

Mi sono ritrovata a percorrere lunghi corridoi dove la luce entra frazionata in centimetri quadrati e dove gli orologi che pendono dal soffitto hanno cristallizzato in eterno il tempo, congelandone lo scorrere in un indeterminato giorno ad una determinata ora. Pare quasi un monito per chi ha percorso, percorre o percorrerà quel cammino.

Otto anni fa ho cominciato ad insegnare in carcere, ad adulti stranieri.

Un cambiamento profondo, sostanziale, radicale, assoluto e non solo per quanto riguarda l’aspetto professionale, quanto piuttosto e soprattutto quello personale.

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Ho dovuto reinventarmi come insegnante partendo da zero perché tutte le esperienze passate non erano applicabili alla nuova realtà. Ho cominciato a studiare nuove didattiche, nuove metodologie, nuovi contenuti, nuovi strumenti di lavoro e mezzi attraverso i quali raggiungere obiettivi riferibili all’insegnamento della lingua italiana come L2, dimenticando il pregresso, purtroppo inutile in questo contesto.

Nella casa circondariale di Busto Arsizio (Varese) il numero di stranieri è più alto del numero di studenti italiani e l’età media è tra i 25 e i 35 anni, ciò significa che la classe è composta da svariate etnie ciascuna con un ben consolidato background sociale, culturale, valoriale e scolastico che influenza notevolmente i rapporti e le relazioni personali, nonché l’atteggiamento verso l’apprendimento stesso. Si tratta di individui ciascuno con la propria personalità, la propria storia, la propria famiglia, che si ritrovano a condividere spazi e contenuti ma che non sempre e non necessariamente, sono disposti ad entrare in relazione tra di loro.

Molto particolare è il setting d’aula, poiché si tratta di celle di varie dimensioni adibite ad aule che, a parte gli arredi scolastici, mantengono inalterata la loro fisionomia e struttura al pari di tutte le altre celle: porte blindate, sbarre alle finestre, pavimenti e pareti in cemento armato, vetri infrangibili…

A parte ciò, comunque, la scuola diventa una sorta di finestra sul mondo, perché questo strumento può rappresentare una delle poche iniziative che porta il ristretto ad uscire dalla cella e dalla solitudine interiore in cui, spesso, si chiude. La scuola lo obbliga ad avere contatti con gli altri e con il mondo esterno e, pertanto, rappresenta un anello d’unione tra due mondi: quello al di qua e quello al di là della luce del sole e noi insegnanti diventiamo quasi il buco della serratura attraverso il quale sbirciare il mondo di fuori e respirare un soffio di aria pulita.

Negli ultimi otto anni ho vissuto a stretto contatto con questi uomini e ho cercato di essere una brava insegnante, professionalmente capace e competente, formata, preparata e continuamente aggiornata, ma soprattutto ho cercato di non essere mai un giudice né un avvocato perché di quelli sono già pieni i fori. Ho imparato che non esistono scelte giuste o sbagliate ma solo scelte e che le scelte sono fortemente influenzate e determinate da fattori ambientali, culturali, sociali, religiosi a me sconosciuti e che se io mi trovo dall’altra parte della cattedra è solo perché il caso, la fortuna, l’educazione familiare mi hanno impedito certe scelte. Lì dentro ho imparato soprattutto a rispettare le persone ricordando sempre che è con loro che lavoro e non certo con la personificazione di un reato

In cattedra dietro le sbarre per trasformare limiti in risorse

Ho imparato ad ascoltare con orecchie diverse, a guardare con occhi puliti, a ragionare con altri costrutti mentali e differenti parametri e ho scoperto una immensa umanità in tantissimi di loro spesso, troppo spesso, marchiata da notevoli sofferenze.

Ho scoperto che il termine “educare” nel senso letterale di “portar fuori”, ha una indubbia valenza in un contesto simile, perché attraverso la nostra opera possiamo aiutare queste persone a tirar fuori il meglio di se stesse, a reinventarsi, a riscoprirsi, a ridisegnarsi come uomini nuovi in grado di reinserirsi nella società grazie a scelte differenti perché determinate da input differenti, superando la logica che nel carcere “non c’è speranza”.

Ho capito che trasformare i limiti in risorse è possibile, basta volerlo!

Ho conosciuto tanti ragazzi che hanno fatto i conti con questa durissima fase della loro vita e hanno fermamente voluto effettuare scelte diverse, ragazzi che in carcere e grazie al carcere hanno scoperto altri mondi possibili, ragazzi che hanno affrontato aspri e tortuosi percorsi di risalita riuscendo a conquistare vette inimmaginabili prima. Ho lavorato con ragazzi che sono stati capaci di perdonare se stessi prima di rinascere come uomini.

Ho avuto l’immenso piacere di avere studenti che hanno imparato la lingua italiana quasi come fossero madrelingua e che grazie al loro talento hanno collaborato ad esperienze gratificanti diventando allenatori di una squadra di calcio di bambini, partecipando ad imprese e competizioni sportive sul territorio, gestendo banchetti di vendita del coccolato prodotto all’interno della casa circondariale, facendo parte della redazione del giornale o lavorando presso i padiglioni dell’ Expo, dimostrando tutti in assoluto un grandissimo senso di responsabilità. E forse anche la scuola ha avuto la sua importanza nell’educare a valori differenti…

In Sguardi di Confine trovate una intervista a Ionut Soimosan, un ragazzo dal passato difficile e tormentato, uno “sbandato” che ha piano piano cominciato a credere in se stesso, a rielaborare il proprio vissuto e a ipotizzare un nuovo futuro.

Ionut è uno di quelli che ha vissuto la magica esperienza dell’Expo dove ha lavorato fino alla chiusura.

Ionut è uno di quelli che ha saputo trasformare un limite in risorsa.

E di Ionut le carceri sono piene!

 

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