Vademecum giornalistico: tra percezione, agenda setting, comfort zone e tanto altro…

Percepisco. Voce del verbo percepire. Quant’è importante la percezione rispetto a ciò che ci accade attorno? Sento, credo, penso. Quindi sono vivo. Ma quant’è distante la nostra percezione dalla realtà? Sempre, ovviamente, che si possa avere la presunzione di pensare che esista una realtà, una verità innegabile, e una menzogna. Un cartellino verde da una parte e uno rosso dall’altra. Un bianco e un nero. Un positivo e un negativo.

Che cos’è la percezione?

Procediamo allora per passi. Iniziamo a vedere che cos’è, secondo il dizionario (Treccani online), la percezione.

Percezióne s. f. [dal lat. perceptio -onis, der. di percipĕre «percepire», part. pass. perceptus]. – 1.a. L’atto del percepire, cioè del prendere coscienza di una realtà che si considera esterna, attraverso stimoli sensoriali, analizzati e interpretati mediante processi intuitivi, psichici, intellettivi.

E ancora. Vediamo cosa ci dice, riguardo la percezione, l’Enciclopedia Oxford della Mente.

«I nostri sensi esplorano il mondo esterno. Ci parlano anche di noi stessi, poiché tengono sotto osservazione la posizione degli arti e l’equilibrio dei nostri corpi, e mediante il dolore ci segnalano i traumi e le malattie*».

Una necessità, quindi. Per segnalarci e avvertici, riguardo problemi del nostro corpo e di ciò che ci circonda. Di tanta certezza e necessità dei nostri sensi, dell’esistenza e del motivo per cui essi esistono, la stessa enciclopedia, ne mette subito in luce le debolezze.

«C’è un’antica tradizione nella filosofia, per cui la percezione, specialmente il tatto e la vista, fornisce una conoscenza innegabilmente vera. I filosofi hanno generalmente cercato la certezza e hanno spesso proclamato di possederla, mentre gli scienziati che sono abituati a vedere le loro teorie modificate e sovvertite da nuovi dati, generalmente si accontentano dell’ipotesi migliore per il momento. I filosofi hanno investito molto nel problema della percezione. Puntano tutto sulla certezza della conoscenza proveniente dai sensi perché hanno bisogno di premesse sicure per i loro argomenti basati sull’esperienza. Gli scienziati invece, che sono abituati agli errori nella misurazione e all’osservazione mediante strumenti, e hanno conseguentemente trovato necessario verificare e comparare e ripetere gli esperimenti non si aspettano con altrettanta fiducia l’affidabilità dei sensi. Anzi, molti strumenti scientifici sono stati creati precisamente a causa dei limiti dei sensi e della scarsa credibilità della percezione: poiché è, dopotutto, facile produrre e dimostrare ogni sorta di impressionanti illusioni che non potrebbero aver luogo se la percezione costituisse conoscenza diretta e affidabile*». 

*R. L. Gregory, Enciclopedia Oxford della Mente, Biblioteca Universale Sansoni, 1991, p. 693

Insomma, pensiamo alla percezione del colore, ad esempio. Di vero colore non si tratta, tutto ha origine solo dalla luce bianca che colpisce le superfici degli oggetti. Ognuno di essi, poi, riflette tutta la luce o solo alcune frequenze luminose. Quindi vediamo rosso, verde, giallo… e così sia. Non diremmo mai che il mondo attorno a noi, in realtà, è nero o bianco. Eppure sappiamo che quanto vediamo è solo merito della nostra percezione e dimentichiamo in un batter d’occhio (per l’appunto) cos’è in realtà il vedere i colori.

O ancora. Non capita tutti i giorni di sentire il nostro corpo immancabilmente frantumato in innumerevoli parti. Anzi, la sensazione che ci accompagna è quella di essere un tutt’uno con i nostri piedi, le nostre gambe, la nostra pancia. Eppure siamo fatti di atomi. Più scendiamo nell’analisi, in piccolo, nella materia, più troviamo… assenza di materia. Ma ci siamo mai percepiti… senza materia? Ci siamo mai percepiti un insieme di atomi? A tal proposito segnalo, ad esempio, la lettura di Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, celebre saggio di Douglas Hofstadter. Ma andiamo avanti nella nostra riflessione.

Agenda Setting. Ovvero la percezione nel mondo dei mass media

Fatte queste premesse ed esempi attorno alla percezione, proviamo ora ad applicarla nel mondo dell’attualità e del giornalismo. Nel mondo delle notizie e della percezione di esse.

Prima di tutto precisiamo la definizione di notizia. Si definisce notizia ciò che rispecchia uno dei seguenti parametri: un fatto che coinvolge un grande numero di persone, un fatto molto raro o particolare, oppure un fatto che riguarda una persona nota.

Quindi, vediamo come vengono sfruttate e filtrate le notizie nel mondo del giornalismo: c’è un processo, o meglio dire un modus operandi, nei media, che si chiama Agenda Setting.

Cos’è l’Agenda Setting?  

Per Agenda Setting si intende il processo tramite il quale i mass media presentano alcuni temi più frequentemente e danno loro più rilevanza, rispetto ad altri. Fenomeno che ha, come risultato, il generare la percezione tra il pubblico che un certo avvenimento sia più importante e più “presente” di altri. Più si dà copertura ad una notizia, più se ne risalta l’importanza.

Insomma, se ogni giorno vengo bombardato di informazioni riguardo al tema delle pensioni, tutta la mia attenzione sarà rivolta ad esso, per non parlare, ad esempio, di terrorismo, omicidi, immigrazione, epidemie e così via. Lo stesso si verifica di fronte ad un avvenimento inconsueto: se un cane azzanna una bambina – magari in modo brutale e più inconsueto del solito, magari figlia di amici di giornalisti locali – allora nel pannel delle notizie dei giorni e delle settimane successive, spunteranno sempre, qua e là, anche attacchi di cani alle persone… come se avvenissero tutti solo in quel periodo. Mentre sì, gli attacchi da parte dei cani avvengono quotidianamente, ma un caso “estremo” porta poi i media a creare quel flusso di notizie che si alimenta vicendevolmente insieme all’attenzione degli utenti.

Un’ampia parentesi andrebbe aperta in questo annus horribilis, dove la definizione di pandemia globale basta di per sé a giustificare (o no?) una bolla dentro la bolla. O meglio: varie bolle di notizie rimpiazzate dalla grande bolla Covid19 nella quale ci troviamo.

Non dovremmo dimenticare, quindi (nonostante i massmedia non ne diano praticamente notizia), che nel mondo succede anche tanto altro, come le crisi umanitarie in Siria e Vietnam, i rifugiati Rohingya, e tanto altro… Noi di Sguardi di Confine cerchiamo, nel nostro piccolissimo, di farlo. Ma andiamo avanti.

Insomma, la teoria dell’agenda setting, avanzata nel 1972 da Maxwell McCombs e Donald Shaw, spiega come i mass media predispongano per il pubblico una sorta di ‘ordine del giorno’ degli argomenti a cui prestare attenzione.

Come disse Bernard Cohen nel 1963:

“The press may not be successful much of the time in telling people what to think, but it is stunningly successful in telling its readers what to think about”. (La stampa potrebbe non avere successo per la maggior parte del tempo nel dire alla gente cosa pensare, ma ha un successo straordinario nel dire ai suoi lettori cosa pensare).

Per saperne di più: il precursore degli studi sull’agenda setting e sulla manipolazione della comunicazione fu, nel 1922, Walter Lippmann con il suo testo “L’Opinione Pubblica”.

Chiarito il concetto di Agenda Setting, si può andare ancora più nello specifico. In particolare, infatti, pensiamo a tre tipi di agende differenti, quella dei media, quella del pubblico e quella politica. È chiaro: tutte e tre interagiscono e si influenzano reciprocamente tra loro.

E ancora, secondo Shaw e McCombs, possiamo distinguere due tipi processi, quello di priming e framing.

Per Priming si intende il “processo psicologico nel quale l’enfasi attribuita dai media è in grado non solo di aumentare l’importanza di una data questione, ma anche di ‘innescare’ nel pubblico il ricordo delle informazioni precedentemente acquisite su quella questione”.

Con il processo di framing, invece, alcuni eventi vengono messi in primo piano, mentre altri passano inosservati. Una simile selezione provoca diversi tipi di reazione nel pubblico. 

Per vederla sotto un altro punto di vista, possiamo dire ancora che i media filtrano e modellano la realtà. Si può parlare quindi anche di “Agenda cutting”. Per maggiori informazioni riguardo questi temi, invito a leggere qui.

Oltre percezione e agenda setting: ecco la comfort zone che ci autocreiamo nel web, tra polarizzazione e post truth

Partiamo ora dall’introdurre un altro concetto, quello della polarizzazione. Inteso in termini psicologici – e per questo invito a seguire gli approfondimenti di Walter Quattrociocchi, ricercatore universitario della Ca’ Foscari di Venezia – stando a questo fenomeno, cerchiamo l’informazione che ci è più congeniale e strutturiamo una visione del mondo che rappresenta la nostra comfort zone e il mondo in cui ci troviamo a nostro agio.

Proprio a tal proposito, lo scorso mese di luglio lo stesso Quattrociocchi e altri ricercatori del programma Arena della London School of Economics hanno provato ad analizzare quali tecniche giornalistiche favorissero un dibattito più civile, attenuassero la polarizzazione e accrescessero la fiducia verso l’attendibilità dei contenuti stessi.

Conclusione? Tutto da rifare secondo Quattrociocchi: “La lezione è che il giornalismo come lo conosciamo va ripensato e innovato, ma quale sia la via d’uscita ancora non è chiaro”.

E poi arriva la Post Truth, parola dell’anno 2016 per l’Oxford Dictionaries. Il termine si riferisce a quella condizione in cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Un fenomeno, insomma, che non vi sarà difficile comprendere come sia ben radicato oggi nell’infido mondo delle fake news.

La calunnia è un venticello,
Un’auretta assai gentile
Che insensibile, sottile,
Leggermente, dolcemente
Incomincia a sussurrar.
Piano piano, terra terra,
Sottovoce, sibilando,
Va scorrendo, va ronzando;
Nelle orecchie della gente
S’introduce destramente
E le teste ed i cervelli
Fa stordire e fa gonfiar.

Dopotutto, la terribile forza delle “false notizie”, la raccontava già Gioacchino Rossini nell’atto primo de Il Barbiere di Siviglia. Anno domini 1775. Perché ciò che si verifica oggi non è una novità nel comportamento dell’essere umano. Oggi il tutto è “semplicemente” più amplificato e più forte. Grazie ai social network e grazie ai motori di ricerca. E se i moderni strumenti tecnologici permettono la celerissima diffusione delle fake news, la nostra “bolla” online – che sì, ci autocostruiamo senza saperlo – ci consente (aiuta? Condanna?) di vivere circondati solo dalle notizie che ci interessano. E, attenzione attenzione, solo dalla parte politica/ideologica a noi più affine. In una parola: algoritmo. Si parla per questo, anche, di filter bubble.

Cos’è il filter bubble?

Per filter bubble si intendono gli algoritmi di Facebook e Google (per citare due dei maggiori portali online) che inducono a crearci la nostra comfort zone. Più click a quell’argomento, più like a quell’altro, in un battibaleno la nostra bacheca, così come il nostro newsfeed di Google News, saranno riempiti dalle notizie “costruite su misura per noi”. E se pensiamo alle chat, ai gruppi social, tale attitudine ha un altro nome ancora: Casse di risonanza o Echo Chamber.

Fenomeno “social”, questo, che ben combacia e si lega, anche, a ciò che viene definito come confirmation bias, ovvero l’attitudine cognitiva di cercare di interpretare ciò che abbiamo di fronte in modo che sia coerente con la nostra visione del mondo.

E lo stesso vale per il pregiudizio di conferma, ovvero la nostra tendenza innata, che riguarda le parti profonde del cervello, di acquisire un’informazione perché coerente con il nostro punto di vista, e ci porta a ignorare informazioni lontane dalle nostre visioni.

Insomma, tutti noi tendiamo a selezionare le informazioni che più sono in armonia con le nostre idee. Il cervello, dopotutto, lavora per pattern, approssimazione: non seleziona una notizia perché vera ma tende al risparmio energetico, a consumare meno energia possibile, è pigro. Un’informazione su internet non importa se vera o falsa, la acquisisco perché coerente con la mia narrazione e mi schiero con essa.

E arriviamo così a ciò che è stato definito come Massive digital misinformation, la disinformazione digitale di massa, ovvero “uno dei 10 rischi globali della società contemporanea”.

«Certain emotions have social causes, it is because groups provide definitions of the situation for its members and because groups determine the feeling rules». (Alcune emozioni hanno cause sociali, questo perché i gruppi forniscono definizioni della situazione per i suoi membri e perché i gruppi determinano le regole dei sentimenti).

[cit. Émile Durkheim, Durkheim and the Social Construction of Emotions]

Pericolo reale e percepito

Lo spiega bene l’immagine qui di seguito, non ci fa più paura ciò che veramente dovrebbe. Abbiamo paura di ciò che, in realtà, presenta un bassissimo rischio a livello statistico. Potremmo avere paura di morire in un incidente d’auto, invece temiamo il volo aereo. Potremmo temere di avere un cancro, invece scongiuriamo di non trovarci nel mezzo di un attacco terroristico. O ancora, non temiamo le migliaia di morti premature a causa dell’inquinamento ogni anno (come testimonia questa ricerca di Greenpeace) perché non vogliamo accettare di dover cambiare il nostro stile di vita (in morte del senso civico).

pericolo reale e percepito

Facciamo vincere la voglia di farci domande e il nostro amor proprio

Insomma, che siamo esseri umani con le nostre meravigliose limitazioni, lo abbiamo capito. Che attorno a noi ci sia un bombardamento di notizie ad hoc, pure. Per nostro amor proprio, per nostra onestà intellettuale, allora, vi prego, non lasciamoci sommergere passivamente da ciò che ci viene comunicato.

Non smettiamo mai di farci domande e continuiamo a cercare infinitamente risposte. Perché una domanda non può che portare – sempre – ad altre innumerevoli domande.

E miei cari colleghi giornalisti, che scrivete in testate storiche, così come in giornali locali, non dimenticate mai il ruolo del giornalismo. Non dimenticate mai l’etica alla base di tutto. Abbiamo il ruolo di informare, diffondere spunti di riflessione, non paura, terrore e fare a gara di clickbaiting. Come dormite la notte? Piuttosto, gettiamo nell’immondizia il nostro tesserino.

In queste righe ho cercato di riassumere bonariamente numerosi concetti. Ma ovviamente ci sarebbe tantissimo, tanto altro su cui riflettere e approfondire. Buona ricerca. A testa alta.

«Per millenni gli esseri umani hanno vissuto nell’ignoranza, nell’impossibilità di comunicare, ma anche nella consapevolezza del limite delle loro conoscenze. Nell’era della comunicazione, quella che stiamo vivendo, le chances si moltiplicano straordinariamente, si accrescono in modo impensabile le conoscenze a distanza. E tuttavia in ciò è racchiusa una potente insidia: quella di ritenere che – dal momento che il circuito dell’informazione è mondiale, il villaggio è “Globale” – l’informazione che ci perviene coincida con la realtà, l’immagine del pianeta rappresenti il pianeta, la nostra conoscenza delle cose corrisponda finalmente alle cose. Prendere coscienza del fatto che non è così, che cioè la porzione del mondo e di eventi illuminata dall’informazione è specchio talvolta casuale, spesso deformata della realtà, ma è certamente tutt’altra cosa dalla realtà, è probabilmente il primo passo per aspirare a diventare, con coscienza e razionalità, cittadini del pianeta».

[P. 215, C. Fracassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, 1994, Libera Informazione Editrice.]

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