Vincenzo parla alle vittime di bullismo: «Non vergognatevi e denunciate»

«La chiave per combattere il bullismo è comunicare e non vergognarsi di dire che si è vittima». È Vincenzo Vetere a consigliarlo. Ventenne di un paesino a nord di Milano, dopo aver subito per tutto l’arco del suo percorso scolastico atti di bullismo, ha deciso di fondare ACBS (Contro il Bullismo Scolastico). Ovvero un’associazione per contrastare questo fenomeno e aiutare vittime di bullismo e cyberbullismo.

Ad accendere la fiamma è stata la notizia, nell’estate del 2014, di una ragazza che, stanca di subire vessazioni, si uccise lanciandosi da una finestra. Così ora Vincenzo incontra gli studenti per raccontare loro la sua storia e fare in modo che le vittime non si sentano sole ma trovino la strada per uscire da questa situazione.

Perché sconfiggere il bullismo si può. E la storia di Vincenzo lo dimostra. Così, lo abbiamo intervistato…

Chi è Vincenzo?

«Ho 23 anni, lavoro in Samsung a Milano, sono un test operator e mi occupo di software. Oltre al lavoro, mi occupo di bullismo e cyberbullismo, sono presidente dell’associazione ACBS che ho fondato nel 2015. Questo perché sia io che mio fratello maggiore siamo stati vittime».

Chi era Vincenzo da piccolo? Mi racconti qualche episodio di bullismo che hai subito?

«Ero un bambino tranquillo e allegro. Non vedevo l’ora di iniziare la scuola, ho sempre avuto la passione dello studio, avevo sempre voglia di imparare. Smontavo i video giochi per scoprire cosa ci fosse al loro interno e poi rimontarli… insomma era previsto che in futuro facessi questo lavoro.

Abitando in un piccolo paesino della provincia di Milano, Magnago, ci sono aspetti positivi: ti conoscono tutti, è molto tranquillo, non c’è criminalità. Ma c’è anche un lato negativo: quando mio fratello è andato a scuola, hanno iniziato a bersagliarlo, stava sempre sulle sue, aveva un carattere molto chiuso ed era la vittima perfetta.

Quando sono entrato a scuola io, 4 anni dopo, hanno visto il mio cognome e lo hanno collegato subito a mio fratello. Così, tutto quello che facevano a lui, lo facevano anche a me.

Venivo attaccato a parole alle elementari: “Ecco il fratello dello sfigato”, “il fratello di quello scemo”. Però, vedevo mio fratello tranquillo e non ne davo peso. Un giorno in oratorio delle ragazze hanno bloccato mani e piedi a mio fratello: “Se vuoi che lasciamo in pace tuo fratello – mi hanno detto – devi mangiare i sassi”. Così mi sono inginocchiato e mi sono messo a mangiare i sassi perché non volevo vedere mio fratello in quelle condizioni. Ero in prima elementare, loro in quinta. Per me erano grandi.

Facendo così, tutti si sono messi a ridere. Me lo ricordo come se fosse ieri. Da lì sono arrivati di conseguenza vari fatti negativi. I miei denti da latte non erano belli, così hanno associato l’episodio dei sassi ai miei denti: “Hai i denti così brutti perché hai mangiato i sassi”, oppure “chissà che peso sullo stomaco hai con quei sassi in pancia”. Per me però era tutto normale e alle insegnanti non raccontavo nulla. Preciso, inoltre, che la maggior parte delle persone che mi hanno trattato così, nel corso degli anni, erano ragazze».

Non raccontavi niente neppure ai tuoi genitori?

«Con loro parlavo poco. Anche alle medie e alle superiori. Li vedevo molto preoccupati per mio fratello maggiore quindi non volevo aggravare la situazione.

Così sono passati questi anni tra parole e insulti. Di violenza fisica, prima delle scuole medie, ne ho subita poca. Solo qualche ceffone, niente di più. Poi, alle medie ho trovato in classe un ragazzo ripetente, più grande di un anno di me. Era più alto di noi e voleva essere il capo: mi tirava ceffoni, mi aspettava fuori da scuola e mi prendeva a pugni dietro l’angolo. In tutto questo, i miei compagni lo seguivano e stavano dietro a lui.

Un giorno sono uscito fuori dalla classe durante l’intervallo, era raro. Lui mi ha spintonato contro il calorifero, ho sbattuto la testa e ho perso la memoria. Mia mamma mi ha portato in ospedale. Non ho riconosciuto neppure lei al momento, vista la botta.

Il giorno dopo, a scuola, ho chiesto ai miei compagni cosa fosse successo: “Non lo sappiamo – mi hanno detto – sappiamo dirti solo che hai pianto come una femmina”. Quella frase mi ha fatto più male del ricevere la botta. La memoria, poi, mi è tornata. Sono andato dal dirigente, gli ho spiegato la situazione ma mi ha avvisato che sarebbe stato problematico incolpare una persona innocente. Sarebbe stato sufficiente avere un testimone per farlo ma nessuno era dalla mia parte.

Intanto il mio rendimento scolastico peggiorava sempre di più. In terza media, i professori hanno detto a mia mamma di non iscrivermi a scuola superiore: “Per come sta andando adesso farà lo spazzino da grande”.

Mia madre si è spaventata. Pensava davvero di non iscrivermi alle superiori. È stato un momento drammatico. Io nutrivo ancora voglia di studiare ma ero anche spaventato visti i commenti dei professori, mi avevano fatto male. Così mi sono iscritto in un istituto superiore con indirizzo informatico, al Bernocchi di Legnano (MI)».

Come sono state le scuole superiori? Hai subito bullismo ancora?

«Sì. Ho scelto la scuola dove non sarebbero andati il 99% dei miei ex compagni. Il primo anno è andato bene. Poi sono iniziati i problemi: in classe c’era un pluri-ripetente che aveva la mania di prendere in giro. Per colpa dell’amicizia in comune tra lui e un mio ex compagno di classe, tutto quello che mi sentivo dire alle medie, l’ho ritrovato alle superiori. Il problema serio delle superiori, però, è stato l’avvenimento del cyberbullismo.

Tra i primi smartphone e i primi social, tutto quello che subivo a voce, lo subivo anche in modo informatico. Mi sono ritrovato su una pagina Facebook chiamata spotted unito al nome dell’istituto. Lì prendevano in giro me e un’altra ragazza di un’altra classe. Il mio nome e cognome era sbattuto su internet e anche i ragazzi che non mi conoscevano lasciavano commenti negativi su di me. Quando arrivavo a scuola tutti ridevano e si allontanavano da me.

Vetere Vincenzo di IV informatica puzzi” hanno scritto una volta. Così, si sono presentati fuori dalla mia classe in 3, con del deodorante, e me lo hanno spruzzato addosso dalla testa ai piedi.

Dopo tutti questi anni così, dopo la V superiore, mi sono reso conto che era ora di mettermi in gioco. Non volevo che altri passassero le stesse cose. Così è nata l’associazione: un modo per dare agli altri quello che non ho avuto io, né a livello scolastico, né a livello di società».

Come sei riuscito ad uscire dalla prigionia del bullismo?

«È strano. Quando lo racconto ha un po’ dell’incredibile. Ci sono voluti un tavolo, due sedie e due bicchieri di Coca Cola. Un mio amico, più grande di me di un anno, appena ha preso la patente ha iniziato a portarmi in giro. Fino ad allora ero sempre chiuso in casa.

Una sera siamo usciti a bere una Coca Cola. Di punto in bianco, in modo spontaneo, gli ho chiesto: “Ma prendono in giro anche te?”. Mi ha risposto di no. “Come no? Possibile che non ti hanno mai preso in giro?”. Da quel momento mi sono reso conto che non era normale essere preso in giro. Questo anche perché gli adulti mi dicevano sempre: “Ma sì, è solo una ragazzata, quando finisci le superiori passa tutto”».

È stata sufficiente questa chiacchierata illuminante o sei passato anche attraverso un percorso psicologico?

«A scuola mi hanno indirizzato da una psicologa. Ho fatto circa 3 sedute. Ma è stato fondamentale avere questo amico che mi ha fatto uscire fuori di casa».

Ci sono 4 parole chiave nella tua associazione: ascolta, comunica, blocca e salvati».

«Ascolta: è il consiglio che do a tutti i ragazzi in generale. Nei casi di bullismo, qualsiasi tipologia sia, bisogna ascoltare e non dare nulla per scontato. Ad esempio, se un ragazzo mi segnala che gli hanno rubato una penna e sta male, devo chiedermi se dietro non ci sia altro. Questo perché, di solito, chi è vittima racconta solo la punta dell’iceberg, non racconta mai tutto.

Comunica: bisogna parlare. La prima chiave per poter combattere il bullismo è comunicare e non vergognarsi di dire che si è vittima. A volte chi è vittima, tra l’altro, non sa di esserlo. Quindi è bene raccontare agli altri ciò che ci succede.

Blocca: significa bloccare la situazione di bullismo. Come? Dipende: già far sapere al ragazzo che tu sei dalla sua parte significa fare in modo che lui si fidi. Quindi è necessario avvertire gli adulti riguardo ciò che sta avvenendo.

Salvati: penso sia la parola più importante. Passa la vita scolastica tranquilla, fai in modo che queste angherie non capitino più e che ad altri non capiti lo stesso. È la chiave di tutto».

“La pace interiore si raggiunge quando non ci si lascia più condizionare dagli altri” è il titolo di un articolo che hai condiviso. È ciò che hai vissuto tu?

«Sì. Purtroppo questa società sta andando troppo velocemente avanti. Ci sono canoni che i ragazzi pensano di dover rispettare. Per esempio: il cellulare subito, scarpe di marca, un certo tipo di abbigliamento, ascoltare una certa tipologia di musica… Insomma, non bisogna rientrare in questi canoni ma essere se stessi. Non bisogna adattarsi al cambiamento ma avere i propri valori e le proprie idee. Bisogna fare di testa propria senza farci condizionare dalla società».

Perché esiste il bullismo secondo te?

«Ho sempre pensato che il bullo sia esso stesso una vittima. Ha questo gruppo di persone che lo sostiene e non gli fa capire che sta sbagliando. Il bullismo esiste non perché esiste il bullo ma perché esiste il gruppo che lo sostiene. Quindi, per combattere un fenomeno di questo tipo, bisogna curare e salvare anche il bullo».

Non provi rabbia verso chi ti ha bullizzato quindi?

«No. Sono sincero, non ce l’ho con il bullo ma con chi gli ha dato retta. Con loro sono molto arrabbiato. C’è da dire però che, a differenza loro, a distanza di tempo, con impegno e costanza sono riuscito ad ottenere un buon posto di lavoro. Loro invece sono rimasti indietro. Vedendo da questo punto di vista provo anche pena. Da un certo punto di vista mi sento anche in colpa di non aver denunciato prima. Se lo avessi fatto, magari avrebbero avuto un futuro diverso da quello che stanno vivendo. È un piccolo cruccio che ho».

Cosa consiglieresti, allora, a un ragazzo attualmente vittima di bullismo?

«Per ogni situazione c’è sempre una via di uscita. Non bisogna aver paura e far di tutto pur di combattere. Prima di tutto deve parlare e non per forza con i genitori: con un amico, un insegnante, uno psicologo. Insomma, raccontare a una persona fidata senza aver paura. So che ora sembra impossibile per chi si trova in quella situazione ma so bene che in realtà è possibile. Anzi, il mio pentimento è di non aver parlato prima.

Inoltre, spesso chi è vittima è solo e pensa solo alla propria situazione. Invece dovrebbe fare rete con altre persone che sono vittima a loro volta. Basterebbero due persone insieme per fare gruppo».

La tua canzone preferita?

«Anche nei momenti più tristi ho sempre ascoltato “Io ci sarò” degli 883. È la mia canzone, perché è anche quello che metto in atto ogni giorno».

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