All We’ve Got: Alla ricerca degli spazi Queer. L’esplorazione personale di Alexis Clements

Alexis Clements è una scrittrice e sceneggiatrice statunitense la cui “biografia lavorativa” è troppo ricca per essere tracciata in breve. L’ultima sua impresa è il film “All We’ve Got“, un’esplorazione personale della vita di donne queer, partendo dai luoghi che esse hanno occupato, fondato, creato. Luoghi che ora, a causa della gentrificazione e altri fattori stanno chiudendo, ma anche spazi artistici, politici, spazi d’intersezione e identitari che, nonostante gli ostacoli, stanno sopravvivendo.

Con la sua expertise artistica Alexis Clements sfrutta il medium documentaristico per esaminare l’impatto dei luoghi sulle vite della comunità LGBTQI e viceversa, interrogando e sfidando sensi e discorsi. “All We’ve Got” ha già avuto la sua premiere a New York, Parigi, Madrid, Buenos Aires – presso il MALBA, il più importante museo d’arte contemporanea – e San Francisco. Quest’estate sarà a Parigi presso il Centro Pompidou e ci auguriamo che il film arrivi presto in Italia. Nel frattempo, Sguardi di Confine porta in esclusiva le parole della sua realizzatrice. Il film è distribuito da Women Make Movies.

English interview here

Il tuo documentario “All We’ve Got” è ispirato alla tua opera teatrale “Unknown”, nella sinossi è possibile leggere che l’opera “chiede come possiamo conoscere una persona al di là del ruolo che recita nelle nostre vite o delle etichette che la società gli applica”. La vita di un individuo è spesso intrecciata alla storia e da essa definita, ma allo stesso tempo, la vita è paradossalmente personale e soggettiva. Quindi, uno dei tuoi scopi è stato quello di interrogare questo paradosso attraverso diversi media? 

«Il processo di affrontare la propria sessualità, almeno negli Stati Uniti, per come l’ho vissuto e per come l’hanno vissuto delle persone con le quali ho parlato, include l’essere definiti da un’etichetta. Per alcuni l’identità sarebbe potuta essere piena di altre etichette: nero, immigrato, disabile. Per quanto riguarda la maggior parte dei “bianchi”, essi hanno spesso potuto vivere senza l’imposizione di tali etichette, finché hanno fatto coming out o hanno deciso di identificarsi come LGTBQ pubblicamente o con le persone che conoscono.

Il rovescio della medaglia è che le etichette, particolarmente quella LGTBQ, arrivano con la promessa non detta che esista un’altra comunità di altre persone, lì fuori, alla quale è possibile appartenere. Si può andare al bar gay o alla libreria lesbica, al gruppo di incontro trans per trovare altre persone con la stessa etichetta. Ma certamente il fatto di condividere quell’etichetta come lesbica o trans, o anche nero o disabile non significa necessariamente avere qualcosa in comune con quel gruppo. Anche se si è incoraggiati a stare insieme a causa di essa.

Io ho provato entrambe le cose: l’avere una nuova etichetta applicata a me,  il sentire che ciò che avrei dovuto fare con quell’etichetta avrebbe riguardato il cercare altre persone con le quali condividerla. Ma ho anche scoperto che l’essere in una stanza con persone che condividevano con me quell’etichetta non significava necessariamente sentirmi di formare una comunità. Allo stesso tempo ho finito per costruire molte nuove amicizie in virtù del fatto che ho trascorso molto tempo in spazi LGBTQ.

Tutto questo può suonare ovvio, e altre persone che sono state alle prese con diversi aspetti delle loro identità presto nelle loro vite, potrebbero avere sentimenti diversi rispetto alle etichette, perché con esse ci sono cresciute. Ma per quanto mi riguarda, io non ho affrontato la mia sessualità fino ai miei vent’anni e così ho vissuto questo momento paradossale da adulta e posso dire che ancora mi affascina. L’identità è un’ossessione culturale negli Stati Uniti. Le identità sono comoditizzate, scrutinate, rese armi, enfatizzate al massimo o sottovalutate in infiniti modi.

Non conosco la loro funzione in altri paesi e ambientazioni ma sarei entusiasta di conoscere come operano in altri ecosistemi culturali

Penso che negli Stati Uniti il fatto di assumere o prendere una particolare identità sia legato a un profondo desiderio, spesso insoddisfatto, di appartenenza e di un significato. Ciò si può mettere in relazione al fatto che molte persone in questo paese hanno delle eredità di rimozioni forzate nelle loro famiglie e comunità, quindi, per questo motivo hanno avuto una concomitante pressione ad assimilarsi. Penso che alcune persone trovino significato nelle loro identità LGTBQ e lo trovino anche in comunità che non scorgono altrove, anche quando c’è una falsa promessa intrinseca rispetto a queste ampie etichette.

Tutto questo per dire che penso ci siano molti angoli per esaminare questa questione identitaria, perciò io l’ho esplorata attraverso il teatro e il film in modi diversi. Penso che probabilmente continuerò a farmi domande riguardo all’identità perché è un argomento così vasto!».

Perché il titolo “All We’ve Got”?

«In inglese la frase “All we’ve Got” può avere una connotazione un po’ negativa – ad esempio, non abbiamo molto quindi facciamo il possibile con ciò che abbiamo – ma ha anche il significato letterale di abbondanza: guarda tutto ciò che abbiamo. Io amo questo doppio significato.

Penso che le donne queer si siano abituate all’idea che non abbiamo molto. Non c’è mai stato abbastanza in quanto a luoghi organizzati concepiti per loro. E quei luoghi sono molto precari, lo sono sempre stati. Quindi, quando l’ennesimo bar chiude, penso che per alcune persone ciò sia avvertito con un senso d’inevitabilità, ossia che i nostri luoghi stanno sempre chiudendo.

Volevo riconoscere quel sentire ma anche sfidarlo. Infatti, noi abbiamo molto, considerati gli ostacoli che affrontiamo. Inoltre, il lavoro che le donne queer hanno fatto, in particolare per quanto riguarda la giustizia sociale organizzata nella storia, è stato davvero notevole. Abbiamo forza, una forza straordinaria e potente che ha cambiato il corso della storia. Può sembrare all’apparenza e nella stampa popolare che non siamo così presenti, ma ciò non è affatto vero. 

Quindi la mia speranza è che le persone vedano il doppio significato nel titolo».

Durante un’intervista hai parlato del tuo viaggio lungo gli Stati Uniti come del tuo “pellegrinaggio Queer”. Nei primi anni 70 era quasi un rito di passaggio per le persone queer. Hai avuto l’opportunità di scoprire qualcosa di più su te stessa durante il viaggio e qual è stato uno degli episodi più memorabili mentre hai girato il documentario?

 «Ci sono stati dei momenti così meravigliosi durante il viaggio! C’è stata una notte brava, ubriachi all’Alibis, il bar in Oklahoma che ha incluso giocare a freccette e così tanti shot da farci letteralmente gattonare nel letto al ritorno. C’è stato il risveglio con i polli alla Casa de Cuentos al centro Esperanza Peace and Justice a San Antonio, Texas, e il trascorrere il tempo con delle donne in uno studio di ceramica di lì. C’è stato l’essere scarrozzati in un camion da una donna chiamata Shewolf (lupa), che era un’abile intagliatrice e aveva un ranch nel quale aveva dato il via a una comunità di donne circa dieci anni prima.

Aveva fondato un gruppo di mutuo supporto di donne lesbiche anziane che andavano reciprocamente a casa di altri membri anziani del gruppo incapaci di svolgere i lavori di casa autonomamente. C’è stato il terremoto in California dopo una lunga e meravigliosa cena al taco con un gruppo di studenti del college che abbiamo intervistato lì. E’ stata una raccolta di tutti questi momenti, davvero, e anche tanto altro. Ho imparato così tanto in questo processo e sono grata per tutto il tempo e le energie che le persone ci hanno dato. Tutti sono stati incredibilmente gentili».  

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In “All We’ve Got” uno dei principali argomenti è la gentrificazione e tu ne scrivesti già nel 2010 in un articolo: “L’effetto Soho”. E’ sempre stato uno dei tuoi interessi questo legame tra economia e società, l’impatto della gentrificazione e le sue conseguenze? Perché ti colpisce così tanto a livello personale?

«Wow hai veramente fatto le tue ricerche! Quando scrissi dell’effetto Soho nel 2010 ero interessata a sfidare nuovamente il discorso. Scrissi quel saggio dopo che un teatro aveva chiuso e in qualche modo le persone facevano determinati discorsi sulla perdita degli spazi artistici. Specifica di quel saggio, tuttavia, era anche la piega verso il discorso un po’ colonialista: le persone arrivate qui per prime hanno creato qualcosa che non c’era e ora se n’è andato.

Quando mi venne chiesto di scrivere dei teatri che avevano chiuso non volevo veramente lasciarmi coinvolgere da quei discorsi, volevo vedere oltre l’esperienza di una singola persona o di una generazione. Suppongo che questo sia stato parte di ciò che ho cercato di fare con “All We’ve Got”, ossia cercare di vedere il disegno più grande, allontanandomi da un micro focus su uno spazio individuale e facendomi domande rispetto a più spazi. Individuando quali schemi ci sono e quali lezioni si possono apprendere da spazi che non rientrano nei soliti discorsi.

Ed è stato anche personale, perché come persona e artista queer, donna bianca con un’educazione al college che non vive nello stesso posto in cui è nata, anche io sono inevitabilmente parte della gentrificazione. Mi sto muovendo e sto vivendo ora in spazi in cui c’è una migrazione economica e voglio capire come io e gli altri possiamo ridurre l’impatto dei nostri movimenti.  

Su di un altro livello, sono figlia di una famiglia militare negli Stati Uniti. Mio padre è stato chiamato in servizio e ci siamo spostati molto nel corso degli anni. Quindi stare in un solo luogo non è stata un’opzione per me e la mia famiglia. Dovevamo muoverci per il lavoro di mio padre. Non potevamo costruire una comunità o una forte relazione con i luoghi. So che anche molti altri che si sono trasferiti non hanno avuto una scelta a riguardo. Sta diventando sempre più comune. Certamente ci sono enormi popolazioni che si sono dovute spostare a causa di disastri climatici, guerre, violenze e migrazioni economiche.

Tutto ciò mi ha lasciato con molte domande riguardo i discorsi fatti sulla casa o sui luoghi, su chi può rivendicare quegli spazi e come e su cosa significhi essere radicati in un posto. Penso che queste domande cresceranno e basta in futuro, dato che sempre più persone sono forzate a spostarsi per così tante ragioni diverse».

Storicamente la città era il luogo in cui le persone queer “scappavano”. In serie tv come Pose, The Tales of the City o The L Word, per esempio, viene raccontata la vita queer nella città in diverse decadi. Pensi che la finzione, in tv e nella letteratura abbia avuto un ruolo nel diffondere l’idea che la città significhi vita queer e la campagna invece è luogo di oppressione? Pensi che “All We’ve Got” o il genere del documentario possa aiutare le persone a vedere da una prospettiva diversa?

«Ci sono molti fantastici libri che ho letto a questo proposito e che scavano nella questione. Due che consiglierei immediatamente sono: Safe Space: Gay Neighborhood History and the Politics of Violence di Christine Handhart’s e in the Country: Youth, Media, and Queer Visibility in Rural America di Mary Grat. Anche The Gentrification of the Mind: Witness to a Lost Imagination di Sarah Schulman esamina molto ciò che chiedi nella domanda.

Di certo apparentemente e per molte persone la dicotomia città\campagna è reale. Dove vivo a Brooklyn ci sono molte persone queer di tutte le età che sono venute a New York da tutto il paese e tutto il mondo per essere qui, spesso non per trovare un senso di libertà in quanto persone queer ma anche per perseguire carriere nelle arti o nel settore culturale.

Ma questa è la grande e facile storia da raccontare e la ripetitiva e accomodante storia che tanto ama la cultura popolare. E questo certamente non è come va la vita vera. Le comunità rurali non sono intrinsecamente arretrate e le aree urbane non sono poi così progressiste. C’è un ampio varco di vita che accade nel mezzo di quei due ambienti. Secondo il sondaggio del 2017 sulle case americane, il 52% degli americani vive in periferia, quella vasta area del mezzo in cui molti giovani crescono.

Un’altra scrittrice che sto cercando di conoscere meglio e che scava in questi discorsi sottili e i modi in cui i luoghi ci formano è Japonica Brown-Saracino della quale ho iniziato il libro How Places Make Us: Novel LBQ Identities in Four Small Cities e non ho ancora finito di leggere.

Comunque, spero di aver aiutato a complicare un po’ quei discorsi popolari in “All we’ve Got”. E’ certamente una parte di ciò che mi ha spinto a farlo. Ma un film è come un lungo saggio piuttosto di un intero libro. C’è così tanto che non ho potuto includere e così tanto da dire ancora sull’argomento. Ecco perché d’istinto ho risposto con titoli di libri. La realtà è che è così difficile trovare media sulle donne queer, non c’è mai abbastanza per avvicinarsi in quell’enorme varietà di vite che le donne queer hanno vissuto».

Hai detto in altre interviste che il tuo documentario non si focalizza solo sui bar, piuttosto sugli spazi: politici, artistici, intersezionali. Se non fosse stato per tutte le persone che hanno lavorato in questi spazi, non potremmo immaginare la nostra storia. Pensi che ci sia una responsabilità per le nuove generazioni di preservare questi luoghi e come possono imparare a farlo?

«Non mi piace il quadro della “responsabilità” — non perché disincentivi il fatto di sentirsi dire che ci si debba far carico della storia altrui, ma anche perché penso che se qualcosa non abbia più significato in una società non sia necessariamente la responsabilità di nessuno mantenerla. 

Cosa penso sia veramente interessante è che c’è un grande discorso nella cultura di ora sulla “cancellazione” delle lesbiche e ciò viene in larga parte dalle lesbiche più anziane. Sentono che la loro cultura sia trascurata e svalutata. Da un lato è assolutamente vero che il contributo delle donne LGTBQ non è stato incluso abbastanza nelle storie pubblicate nei musei, film etc. Questo è stato parte di ciò che mi ha fatto fare il film.

Perché volevo creare contenuti sulle donne queer e le loro storie, dato che avevo così tanta difficoltà a trovarli io stessa. Ma questo non è un fenomeno del tutto nuovo. Non c’è stato un cambiamento improvviso che ha peggiorato la situazione. Il termine lesbica è diventato popolare solo nel 20esimo secolo e non è stato associato a un’identità politica fino al 1970.  Quindi ciò che è successo riguarda il fatto che ora sia possibile per le donne queer identificarsi in molti più modi.

Per la maggior parte della seconda metà del 20esimo secolo se ti identificavi come donna ed esploravi una situazione di non-eterosessualità o non ti rispecchiavi nel tuo genere e volevi uscire con persone che facevano qualcosa di simile a te, probabilmente saresti finito in luoghi di lesbiche perché erano gli unici nei quali potevi andare. E c’era molta pressione per conformarsi in questi luoghi, che fosse una separazione di ruoli butch-femme o pressione di assimilarsi alle norme della classe media e “passare” per etero, o il sentirsi dire di non essere abbastanza radicale o non avere il giusto taglio di capelli per essere una lesbica femminista. Per non menzionare le dinamiche razziali. Audre Lorde parla di tutto ciò nelle sezioni del suo libro Zami: A New Spelling of My Name. 

Oggi, almeno in qualche luogo negli Stati Uniti la pressione a conformarsi si è un po’ sollevata, oppure c’è una varietà maggiore di identità alle quali puoi rifarti! Non è cancellazione ma crescita. E’ costruire partendo dall’eredità queer e rifiutare di conformarsi all’eteronormatività e i ruoli rigidi che presuppone, portando quell’eredità ancora più lontano. E’ qualcosa da celebrare.

E penso che le persone sostenenti l’idea della cancellazione lesbica, perché non hanno il vantaggio che ho avuto di lavorare come volontaria all’archivio di storia lesbica, perdano di vista il fatto che i giovani sono assolutamente affascinati dalla storia queer. C’è un costante flusso di giovani che vengono all’archivio per visitare, partecipare agli eventi e fare ricerca. In altre parole, la storia è assolutamente ancora stimolante e significativa.

Non penso che le persone la mantengano a causa di un senso di responsabilità, penso che la mantengano perché ci tengono, perché gli dà senso di appartenenza e finalità. Mostra loro che la storia che sentono nel mondo è incompleta e fornisce loro strade per raccontare storie più complesse, per costruirne di nuove. Ecco perché dovremmo mantenere quella storia, non perché abbiamo qualche malriposta idea di dover portare i fardelli della generazione precedente».

L’evoluzione della tecnologia ci ha portato internet, lo spazio virtuale per eccellenza. Può causare un senso di alienazione dagli spazi fisici ma può essere anche utile perché grazie ad esso si può accedere alla cultura queer più facilmente. Lo spazio virtuale è  un oggetto di discussione nel documentario?

«Accenno all’influenza del web molto brevemente nel film, per far notare che ha fatto cambiare gli spazi che avevano la funzione primaria di luogo d’incontro per le persone che volevano trovarne altre per frequentarsi, e per far notare che è uno strumento potente per aiutare le persone a trovarne altre per incontrarsi di persona.

Ma non mi sono soffermata molto tempo sui luoghi d’incontro virtuali. Perché sono interessata, in questo documentario, all’impatto politico dei luoghi queer e delle comunità, le quali fanno affidamento sulle persone che si presentano di persona. Penso che sia utile incontrare persone e condividere cose online, ma non penso che un cambiamento reale si manifesterà senza “metterci la faccia”».

C’è una canzone nel soundtrack del documentario che ti piace particolarmente o che ti ricorderà del tuo film?

«Dato che non ho avuto grandi finanziamenti per questo progetto, mi sono affidata alla generosità delle tante persone per includere musiche e materiale d’archivio nel film. Una degli artisti che mi ha omaggiato della sua generosità è stata l’incredibile musicista e scrittrice Lourdes Pérez, che mi ha consentito di utilizzare un estratto di lei e Irene Ferrera che mettono in scena la canzone di Pérez: “Luisa Capetillo”.

Capetillo era una scrittrice portoricana attivista per i diritti del lavoro e delle donne, della quale sono venuta a conoscenza dopo aver ascoltato la canzone. Nell’estratto della canzone che senti all’inizio del capitolo nel film, al centro Peace & Justice a San Antonio, Texas – lo spazio in cui Pérez e Ferrera interpretano la canzone, si può avere un assaggio dell’intrigante eredità di Capetillo. Nello specifico, se si capisce un po’ di spagnolo, si può sentire che venne arrestata per aver camminato nelle strade indossando i pantaloni, cosa che a Portorico era illegale per le donne nei primi del 900.

Di fatto, ruppe molte barriere nella sua vita, dal suo modo di vestire a chi e come amava, alle norme religiose e sociali e anche su quelle che riguardavano i lavoratori e i diritti delle donne. C’è qualcosa di veramente meraviglioso riguardo il fatto che Pérez e Ferrera, due lesbiche di origine ispanica, portino avanti  la storia di un’icona queer attraverso la loro musica, utilizzando la musica per sfidare le storie che rifiutano di ricordare persone come Capetillo. E poi è una gran canzone!».

Si ringrazia Martin Gjataj per la traduzione in inglese.

All Weve Got, Trailer from Alexis Clements on Vimeo.

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