Il giornalismo ai tempi del Coronavirus: libertà d’informazione sì, ma c’è un limite?

Da quello che sta avvenendo negli ultimi giorni, la quarantena e il virus che impazza in tutto il Paese, una grande verità il popolo italiano l’ha capita: il giornalismo ha perso ogni dignità e decoro. È un’affermazione forte, ce ne rendiamo conto. Ma la realtà è stata così lampante, così inequivocabile, che il mormorio indignato che da giorni rimbalza da una parte all’altra dell’internet né è la conseguenza diretta.

Questa volta ce ne si è accorti. È inutile nascondere la testa sotto la sabbia e dare la colpa a un modello generalizzato di fare informazione. La verità, terribile ma innegabile, è che nel momento del bisogno, mentre il Paese tremava sotto i colpi dell’infezione, mentre il Governo si affannava per cercare una direzione, il giornalismo banchettava e gozzovigliava sul panico generale.

Per farci un’idea chiara è necessario un salto indietro nel tempo: non bisogna andare lontano , basta dissotterrare quell’ultima settimana di febbraio quando tutto è cominciato

Il 22 febbraio di quest’anno, per la prima volta i giornali d’Italia davano l’allarme per il Coronavirus e la Repubblica salutava così gli italiani: Virus, il Nord nella paura, un buongiorno anche a voi; seguita da Il Giornale che urlava all’ Italia infetta, in veneto il primo morto di Coronavirus. Il 23 febbraio l’antifona non cambia: Il Tempo ci informa che Siamo i più contagiati d’Europa, mentre Il Fatto Quotidiano cerca di sdrammatizzare con un Virus, nord Italia in stato d’assedio.  

Siamo stati letteralmente bombardati da notizie eclatanti, titoloni, numeri che salgono vertiginosamente, morti, grafici, quarantene, serrate … tutto questo mentre il paese affrontava una crisi sanitario-economica senza precedenti

Per fare un esempio lampante: Il Giornale usciva l’8 Marzo con un articolo dal titolo apocalittico: Terapie intensive, documento choc “Liste di meritevoli per essere curati”, che detto così apre uno scenario tutto orwelliano, ma come possiamo immaginare la realtà è ben diversa. Innanzitutto si tratta ancora (perlomeno all’8 marzo) di un “potrebbe”.

Com’era prevedibile, l’aumento vertiginoso di ricoveri mette a dura prova le capacità fisiche degli ospedali, in secondo luogo questa “lista di meritevoli” non è altro che il documento del buonsenso: la società di Anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva Siaarti ha redatto delle line guida per i primari nei casi in cui l’emergenza sanitaria sia superiore alle loro possibilità di cura. Un documento preventivo.

Capite bene come questo “scenario da fantascienza” come viene descritto nell’articolo è assolutamente “normale”: è chiaro che di fronte alla decisione se intubare un uomo in età avanzata o con gravi patologie si prediliga la “maggior speranza di vita”, quindi un giovane, sano … Il discorso cambia quando l’argomento – di per sé delicato è innegabile – viene presentato in termini logici senza isterismi inutili.

Questo comportamento è diventato la prassi

LettoQuotidiano.it, in merito alle tensioni nelle carceri, titola l’articolo Coronavirus: rivolta “violenta” all’interno del Carcere di Modena, 3 morti. Come interpreta il lettore una frase del genere? Le rivolte violente a Modena hanno causato la morte di tre detenuti, giusto? Sbagliato! Appena aperto l’articolo troviamo questa precisazione Tre decessi all’interno del carcere di Modena che non sarebbero direttamente riferibili alle proteste.”, due decessi sono infatti riconducibili all’uso di sostanze stupefacenti mentre il terzo è ancora da accertare. Un quadro ben diverso da quello preventivato.

Potremmo continuare in questo senso all’infinito, ma ci soffermeremo su un altro punto fondamentale che viene dato per scontato costantemente: l’uso del termine “oncologico”

Molti dei decessi riguardano infatti malati oncologici, ma la domanda che sorge spontanea è: gli italiani sanno cos’è il reparto d’oncologia? Non può essere dato per scontato, soprattutto non nel pieno di una situazione di allarmismo collettivo. L’oncologia è la branca della medicina che si occupa della diagnosi, del trattamento e della prevenzione dei tumori benigni e maligni, questi pazienti erano già gravemente malati e il virus ha complicato la loro situazione, questo non li rende di certo pazienti di serie B, o meno meritevoli di cure rispetto ad un cittadino sano! Ma per amor di verità e per garantire la trasparenza, è compito di chi fa informazione garantire che i suoi lettori abbaino un quadro chiaro della situazione.

Ma perché si è arrivati a questo? Perché il sensazionalismo e il titolo boom spopolano nelle testate giornalistiche del nostro paese?

La risposta è ben più semplice di quel che ci si possa aspettare: è tutta questione di soldi. Tristemente è proprio così. Nell’era del digitale i quotidiani, e in generale il mondo dell’editoria, arrancano. Faticano ad adattarsi a nuovi modelli di marketing che non seguono più i percorsi tradizionali. Per una spiegazione più approfondita di quella che è la crisi (e le soluzioni) per il giornalismo nell’era moderna rimando all’articolo del sole240re.

Il problema è semplice: ai giornali si chiede non solo di essere online se vogliono sopravvivere, ma di fare informazione gratuitamente. E i soldi da dove arrivano? I giornali hanno capito una verità fondamentale: se vogliono sopravvivere non possono rendere l’accesso online completamente a pagamento (basti guardare servizi come Google, Facebook … pur rimanendo completamente gratuiti hanno trovato modi alternativi per guadagnare).

Un giornale adotta il cosiddetto paywall: dà accesso limitato all’utente ad una selezione di articoli ed editoriali, per poi chiedere un pagamento per continuare la lettura. Poi abbiamo naturalmente il Native advertising, che riguarda il non dividere la pubblicità dal contenuto in maniera netta: questo rende al lettore più difficile distinguere dove finisce l’articolo e comincia l’annuncio pubblicitario. Al momento, la maggior fonte di reddito per un giornale è proprio la pubblicità: quindi banalmente maggiore è il numero di click (persone che aprono l’articolo) maggiore è il guadagno.

Da qui l’importanza del titolo ad impatto

Proviamo ad immaginare una situazione che in questi giorni è abbastanza (sfortunatamente) comune: muoiono per il virus cinque persone, di cui quattro con malattie pregresse e uno over 80, nel paese x. Il giornale titola strage di Coronavirus a x. Il virus avanza implacabile” piuttosto che Cinque morti per il Coronavirus a x: quattro di loro erano già malati gravi, l’ultimo aveva 86 anni”. La differenza c’è e si sente. Il primo titolo ha molta più probabilità d’attrarre la curiosità dei lettori e di conseguenza di fare maggiori guadagni. In questo forse sta anche all’utente del vasto mare dell’internet, educarsi e tenersi il più lontano possibile dai titoloni ad effetto.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso: la fuga di notizie che ha portato alla diffusione della bozza del decreto sul Coronavirus

Che cosa è successo? Da anni si sa le istituzioni pubbliche e gli uffici del governo sono un colabrodo, da cui notizie e “soffiate” fuoriescono un po’ da ogni angolo. Ma che nel pieno di un’emergenza nazionale, un decreto che vada ad imporre norme stringenti assolutamente senza precedenti, facendo piombare il paese nel caos, venga fatto trapelare… questo ci mancava.

Il primo giornale a diffondere la notizia, sul blocco della Lombardia e di altre 14 regioni, è stato il Corriere.it, in un articolo firmato da Fiorenza Sarzanini. La notizia si è poi diffusa a macchia d’olio ed è stata ripresa da altri giornali, per finire infine sulle testate internazionali. La CCN riporta il fatto, asserendo di aver ricevuto la notizia “dall’ufficio stampa della regione Lombardia”, per poi rettificare con un “anche dall’ufficio stampa della regione Lombardia”.

Ma dal Pirellone arriva la smentita. Come se non bastasse il pdf del decreto ha cominciato a circolare nella serata del 7 marzo su diversi social network e sulle chat di Whatsapp. Ora risalire alla fonte, ovvero chi dai palazzi del potere ha ritenuto buona cosa diffondere la bozza prima della firma ufficiale del presidente del Consiglio Conte, è un’impresa che lasceremo ai posteri perché difficilmente nomi verranno fatti. Ma per quel che riguarda i giornali una riflessione è doveroso farla.

Dove finisce la libertà d’espressione e inizia il dovere civico del giornalista?

Siamo chiari, i primi ad essere responsabili di questo disastro sono certamente coloro, che per primi, “dall’interno” hanno fatto uscire la notizia. Ma non è possibile giustificare i giornalisti con un semplice “hanno fatto il loro lavoro”, come ha dichiarato Marco Travaglio intervistato a ottoemezzo (La7). Le conseguenze sono state troppo gravi e troppo debilitanti per un paese già traballante per nascondersi dietro la libertà professionale; tutti abbiamo visto le corse folli nelle stazioni di Milano per fuggire al sud.

Non è questo mettere in pericolo la popolazione? In un momento dove si chiede ai cittadini uno sforzo immane nel mutare le loro abitudini è ancora legittimo creare caos? E dove sono i limiti di quello che è concesso? È così inverosimile che nel pieno di un’epidemia i mezzi di comunicazione collaborino con le forze statali per un’informazione chiara, che non crei ulteriore confusione?

Questo non toglie la libertà di espressione del giornalista che è sacra e inviolabile

Ma andando a spulciare la legge del 3 febbraio 1963, n. 69, che disciplina l’ordine dei giornalisti, troviamo, all’articolo 2 sì i diritti ma anche i doveri: È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertàdi informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede…”.

In quel “rispetto della verità” è implicito l’obbligo di coerenza tra titolo e articolo, o almeno dovrebbe esserlo. In un mondo in cui non si leggono quasi più i giornali, ma ci si limita a scrollare gli articoli per leggere frettolosamente i titoli, spesso questi sono le uniche cose che vengono lette.

Infine è utile ricordarsi della legge dell’8 febbraio 1948, n.47, l’articolo 15 dice chiaramente “…Le disposizioni dell’art. 528 del Codice penale si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti.”.

È compito del giornalista assicurarsi che le sue pubblicazioni non siano dannose per il morale della comunità, e possano creare effetti deleteri. Non possiamo fingere che questi siano tempi normali, non lo sono. Per tutti è difficile andare avanti e credere che “andrà tutto bene”, ed è sempre più chiaro che leggere il giornale non aiuti proprio nessuno. Forse i giornalisti dovrebbero ricordarsi che la parola ha conseguenze, e che quando un intero paese ti guarda col fiato sospeso non è il momento di giocare a chi la spara più grossa.

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