Lucia, cancro ovarico: «Non chiamateci guerriere»

Cosa significa fare i conti con il tumore ovarico? Come si affronta la scoperta della mutazione genetica BRCA tra i propri geni? Ce lo racconta Lucia Politi mettendosi a nudo per noi. Affinché si salvino le donne sane, mentre sono ancora in tempo. Perché «l’informazione è l’unica arma che abbiamo per rimanere in vita».

Un tumore fin troppo poco studiato quello ovarico, poco conosciuto ai più. Non un cancro “vip” come quello al seno. Quello alle ovaie è un tumore meno noto, ma altamente più mortale. Un “killer silenzioso” come molti lo nominano.

I numeri e i dettagli li lasciamo al nostro articolo di approfondimento (clicca qui). Di seguito riportiamo invece la nostra intervista a Lucia, una donna che non vuol essere definita “guerriera”, perché sa che quello è solo un termine per nascondere ipocritamente tutto il dolore che il cancro porta con sé. Una donna che non vuole essere associata alla “mutazione di Angelina Jolie”. Perché Lucia, come ogni donna, ha un nome e un cognome. E la sua vita è unica e di valore, come quella di ogni essere umano.

Oggi Lucia il tumore ovarico lo racconta, lo diffonde a gran voce. Ma la sua è una “Voce di Vetro”, perché «le nostre voci sono dei sussurri rispetto a quelle di chi è affetto da altri tumori – spiega – Siamo numericamente poche, siamo una minoranza risicata, quindi abbiamo bisogno di qualcosa che amplifichi la nostra voce, la porti fuori e la trasmetta. Per questo pensiamo al vetro: un elemento che può trasmettere le onde sonore e propagarle. Però le nostre voci sono fragili, proprio come il vetro. Apparentemente robuste, basta un nulla per mandarle in frantumi. Come le nostre vite».

Proprio grazie a Lucia, in collaborazione con l’Associazione aBRCAdaBRA (di cui fa parte), il 12 gennaio è in programma l’evento “Voce di Vetro”, uno spettacolo teatrale e un convegno scientifico a Busto Arsizio (VA), dalle 15 alle 18 al Teatro Sant’Anna.

Nell’attesa di riempire la sala per salvarci, grazie all’informazione, immergiamoci in questa testimonianza, intima e profonda, di Lucia.

Chi è Lucia?

«Lucia è una donna che ha avuto la sventura/fortuna di incrociare il proprio cammino con un cancro. Non si chiama “il male”, non si chiama “malattia incurabile”, ma ha un nome ben preciso: cancro. E un cognome: ovarico. Perché nel mio caso si tratta di cancro ovarico.

Nel 2013 ho effettuato un banalissimo controllo ginecologico di routine. Avevo 51 anni compiuti. Mi sono state individuate delle masse abnormi parlandomi di cisti. E pensavo bastasse asportarle, qual era il problema? Perché tutto vai a pensare, tranne che la malattia possa colpire te. Nella nostra visione di vita, la malattia colpisce sempre gli altri, mai noi in prima persona. Invece poi ti accorgi di avere una patologia che si chiama adenocarcinoma ovarico sieroso di alto grado, terzo stadio avanzato metastatico».

Dopo quando tempo hai avuto il referto definitivo?

«Dopo l’intervento, quindi dopo un mese dalla visita ginecologica. Sono stata operata d’urgenza perché la ginecologa, dall’ecotransvaginale ha capito che tutto era nato come cisti ma si era evoluto in altro. Ecco quindi questa diagnosi: stadio avanzato. Perché purtroppo il tumore ovarico lo si individua a uno stadio già avanzato (terzo o quarto solitamente).

A parte lo shock iniziale, era subentrata una parte di me che mi faceva pensare di poterne uscire: per me terzo stadio non voleva dire nulla. Ok, terapia, chemio e ne esco fuori. Questo perché sei totalmente impreparato a questo evento. È come se la tua mente mettesse in un angolino tutto per tenere sopito ciò che c’è dietro.

Ho preso coscienza della malattia vera e propria dopo un anno. Dopo l’intervento e il primo ciclo di chemioterapia ho provato qualcosa di inenarrabile. L’intervento è stato devastante, immagina di squartare un agnello da capo a piedi e tirare via tutto ciò che c’è dentro: essendo un terzo stadio significa che il tumore è già uscito ed è già nel resto del corpo. Quindi ti svuotano, ti resta una sensazione del nulla.

La parte più importante della donna è quella dell’utero e delle ovaie: la missione del corpo delle donne è riproduttiva. Da questo evento il mio apparato genitale produce morte: tutto il contrario per cui una donna è stata “programmata”.

Comunque, dopo l’intervento avevo grande fiducia e certezza di guarire. Nella mia ignoranza non era contemplata la possibilità di non guarire. Dopo un anno, la prima recidiva. Lì prendi coscienza della malattia. Significa che, essendo già un tumore metastatico, delle micrometastasi non sono state eliminate dalla chemioterapia, qualcosa è sfuggito. Quindi, se anche una piccola cellula tumorale rimane attiva, ha del tempo a disposizione per crescere. Nel mio caso, molto fortunato, mi ha lasciato libera per un anno dalla malattia.

Durante il controllo di “follow-up”, all’improvviso, a settembre è riapparsa. Quando pensi di averla cancellata ed eliminata totalmente dalla tua vita, con un carico di obiettivi nuovi da raggiungere e di progetti da realizzare, riappare. Avevo brindato e festeggiato alla rinascita e alla mia nuova vita, avevo pensato di avere una seconda possibilità da vivere, da non sprecare.

Ecco, questo bel castello che si era costruito nella mia mente, è crollato. E ti accorgi che era un castello fatto di carta, di sabbia. Basta un nulla per capire che non è esattamente così come avevi pensato. Quindi sono andata in depressione, ho fatto tanti anni di psicoterapia con una terapista, psiconcologa. È chiaro che, chi ti può aiutare, è un esperto nel settore. Ho passato tanti anni con lei perché questo sentimento di morte accompagna un malato di cancro dal momento in cui apre gli occhi al momento in cui li chiude. Non c’è mai un attimo nella nostra vita in cui non abbiamo coscienza della nostra malattia.

Per un anno avevo messo da parte la malattia. Poi ti accorgi che non è possibile. Noi siamo la nostra malattia e non possiamo scindere le due cose. Nel momento in cui compi questo passo di accettazione della malattia come parte di te, come te stessa, ti accorgi che tutto è precario nella tua vita, che devi rivedere tutti gli obiettivi, i progetti. Tutto ciò che avevo pensato nel primo anno, come mete da raggiungere, le ho messe da parte. Perché non puoi più progettare a lunga scadenza. Viviamo con un’idea di noi come esseri immortali. Non è così: il nostro tempo non è immortale. È la nostra mente che è fallace da questo punto di vista.

Dico sempre che il tempo è circolare. Non ha un inizio e non ha una fine. Sono sempre in questa situazione di perenne contemporaneità. Io sono sempre qui. Non progetto il futuro. Perché non lo so se lo avrò. Perché non mi è data la possibilità di progettare un futuro. E non guardo più al passato perché quella è una vita che non mi appartiene più. Quindi mi guardo adesso. Questo anche grazie alla psicologa che mi ha aiutata e mi ha sempre detto: “Guarda non davanti a te, non dietro di te ma a destra e a sinistra”. Così trovi dei punti saldi: la famiglia, gli amici, gli affetti. E per i quali tu continui a combattere.

Per inciso: se c’è una parola che le donne “cancrenate (come ci definiamo scherzando), odiamo, è essere definite “guerriere”. Un guerriero è colui che scende in campo, in battaglia, sapendo chi è il nemico e sapendo contro chi andare a combattere. Noi non abbiamo scelto nulla, non abbiamo voluto indossare alcuna armatura, non amiamo le armi. Non siamo guerriere. Siamo donne che stanno subendo la violenza di una malattia, che stanno cercando di reagire a questa violenza, con ciò che ognuno di noi ha a disposizione.

Non chiamateci guerriere. È un termine detestato. Come è detestato quando ci definiscono donne forti, coraggiose, che hanno fatto della malattia un motivo per irrobustirsi, reagire. Siamo fragili, estremamente fragili. Io non sono forte. Sono una persona che piange spesso. Non perché sono depressa ma perché la malattia ti toglie il sorriso.

La felicità interiore non ce l’hai più, godi delle piccole cose. Quindi nel percorso di malattia mi sono confrontata, negli anni, con varie recidive. Essendo il mio tumore metastatico, dico che ogni anno “timbro il cartellino”.  Perché ogni anno ho avuto la recidiva e quindi nuovi cicli di chemioterapia. Sono devastanti fisicamente e psicologicamente. Perché da persona autonoma e indipendente, ti riduci ad essere dipendente da altri. Ti accorgi che, se non hai qualcuno accanto, non puoi fare nulla, neanche alzarti da sola dal letto e per una settimana, dieci giorni, vivi in totale subordinazione rispetto agli altri. Chi è sempre stato autonomo, la vive come una sconfitta. Io l’ho vissuta con un senso di grandissimo dolore verso la famiglia perché erano loro che dovevano accudirmi.

Fare le chemio significa gestire le nausee per cui qualsiasi odore diventa motivo di fuga, vorresti aver perso il senso dell’olfatto. Avere in bocca il sapore metallico che ti fa schifo ma non riesci a toglierlo. Insomma, ci sono una serie di effetti legati alla malattia fisici e psicologici. Per una donna come me, attiva e lavoratrice, dovermi trovare a fare i conti con l’allettamento forzato, non lo si accetta facilmente. Quindi non vedi l’ora di poterti rimettere in piedi.

Ricordo un aneddoto: subito dopo l’intervento, tornata a casa, avrei dovuto passare un mese a letto ma la prima cosa che ho fatto è stata prendere il panno per pulire a terra e, appoggiandomici sopra, lo passavo per casa. In quel momento non volevo far la polvere sul pavimento ma dimostrare a me stessa che potevo ancora fare determinate cose, testarmi e vedere fino a che punto potevo mettermi in pista».

A differenza con il tumore al seno, il cancro ovarico è meno noto ma più pericoloso…

«Esatto. Il tumore al seno è quello che più colpisce le donne e quello più oggetto di studio. Ma è anche quello che ha una mortalità decisamente inferiore. Ed è anche grazie al fatto che il tumore al seno è individuato subito: un nodulo minuscolo lo senti. Puoi essere tu il primo scopritore della patologia. Il tumore ovarico no, non lo senti. Non hai fastidi e non hai nulla. Lo scopri quando è già avanzato e la mortalità è all’80%. Rispetto al tumore al seno, noi siamo quelle che muoiono di più ma siamo meno presenti nelle statistiche perché numericamente inferiori.

Quindi siamo quasi tutte condannate a morte. Come il Miglio Verde: sappiamo che prima o poi moriremo, non sappiamo quando ma siamo nel Miglio Verde. E ne siamo tutte coscienti. Prima o poi arriveremo anche noi lì».

Cancro ovarico e mutazione genetica: nel tuo caso è il gene BRCA 1.

«Esatto. Recentemente è stato scoperto che alcune patologie tumorali sono dovute a una mutazione genetica del nostro DNA. Alcune, al seno e alle ovaie, possono essere determinate da questi geni. BRCA 1 o BRCA2. Da recenti studi stanno inoltre scoprendo che non esistono solo queste due mutazioni genetiche ma anche tante altre».

Come lo hai scoperto? Tra l’altro, è la mutazione genetica che si è diffusa mediaticamente grazie ad Angelina Jolie…

«Sì, e mi sento molto offesa quando mi si dice: “Hai la mutazione di Angelina Jolie”. Io ho la mutazione del BRCA che, grazie a lei, è stata portata alle luci della ribalta. Lei ha permesso che se ne parlasse per la prima volta. Ho scoperto di avere questa mutazione perché allo IEO a Milano ho partecipato a una sperimentazione farmacologica dove era obbligatorio il test genetico, era il 2015.

Non sapevo cosa fosse il test genetico, e così mi si è aperto un altro mondo. In pratica, una parte del mio DNA ha questa alterazione nei geni. Quindi non è dovuta a nessun agente esterno. Era presente nel mio patrimonio genetico. Ad alcuni rimane silente, ad altri si sviluppa con un tumore al seno, all’ovaio o al pancreas.

Nel mio caso ha dato il via a un tumore all’ovaio. La mia mutazione la BRCA1, è la mutazione più aggressiva perché colpisce indifferentemente seno e ovaio o uno, o l’altro. La BRCA2 colpisce invece principalmente il seno, in misura più inferiore l’ovaio.

Grazie al test genetico ho scoperto di aver ereditato questa mutazione da mio padre. Lui non ha sviluppato un tumore ma, dalla parte di mio papà, c’è stata una strage per tumore al seno. Io sono la paziente 0 in quanto tumore ovarico».

Perché non si può fare il test genetico a richiesta come esame di screening?

«Bella domanda. Bisogna chiederlo al Ministero. Se tu non hai una familiarità con forme tumorali al seno o all’ovaio e vuoi fare il test genetico, lo paghi qualche migliaia di euro (2 o 3mila euro). Per avere l’accesso con Sistema Sanitario Nazionale devi avere in famiglia casi dichiarati di tumore al seno o all’ovaio.

Pensa, nel mio caso mio padre è morto di altro. Quindi non abbiamo avuto modo di conoscere prima questa possibilità. Se avessi saputo della mutazione, avrei potuto chiedere prima il test genetico.

Per questo l’associazione aBRCAdaBRA, di cui faccio parte, si batte per il riconoscimento del test genetico come test di screening per la popolazione che potrebbe essere già notoriamente a rischio. L’ideale, però, sarebbe estenderlo a tutta la popolazione adulta e non solo a quella fetta potenzialmente a rischio. Altrimenti, ad esempio, le persone adottate sono tagliate fuori a priori. Così come le persone portatrici “sane” che non hanno sviluppato la malattia ma hanno trasmesso la mutazione ai figli: come fai a sapere se hai il gene mutato se non rientri nei casi che possono avere accesso al test? Insomma, io l’ho fatto troppo tardi, ma almeno l’ho fatto.

Grazie alle sperimentazioni condotte negli ultimi anni, adesso sono a disposizione dei nuovi farmaci detti parp-inibitori che, a differenza delle chemioterapie standard, agiscono in maniera mirata sulle cellule tumorali in cui è più “evidente” la mutazione genetica. L’uso del parp-inibitore dà degli ottimi risultati: alle donne con tumore ovarico con mutazione genetica, il parp-inibitore fa in modo che la formazione di nuove metastasi rallenti.

Io ne sto assumendo uno conosciuto come olaparib e da quando lo assumo non recidivo più ogni anno e ho un periodo più lungo “libero da malattia”, come si dice in gergo. Nel mio caso, dal 2016 ad oggi non ho avuto nuove metastasi ed è un periodo di tempo lunghissimo. Ogni 28 giorni faccio i miei controlli in ospedale e, se gli esami sono tutti nei limiti della norma, mi consegnano il farmaco che dura, appunto, 28 giorni».

Mi dicevi che hai avuto la sventura ma anche la fortuna di incrociare il tuo cammino con il cancro ovarico, perché?

«Perché, nel momento in cui ho scoperto di avere questa mutazione, ho saputo di avere il 50% di possibilità di averla trasmessa alle mie due figlie che, dopo aver fatto anche loro il test genetico, sono risultate entrambe positive alla mutazione del BRCA1. Insomma, ho avuto la sventura di incontrare il cancro ovarico ma, sapendo di avere la mutazione, ho avuto la fortuna di salvare le mie figlie: loro hanno la possibilità, che io non ho avuto, di mettersi in salvo.

Mettersi in salvo vuol dire esclusivamente un approccio chirurgico: togliere i seni (fare la mastectomia preventiva con ricostruzione del seno tramite protesi) e togliere le ovaie. Perché sai che, avendo il gene, hai altissime percentuali di sviluppare un tumore. Perché rischiare di scoprire di essere ammalati, rischiare di avere metastasi e tutto ciò che ne consegue, chemioterapie comprese?

Alcuni medici non concordano con questo approccio. La maggior parte, però, è d’accordo. Si chiama prevenzione per un motivo. Altrimenti è “sorveglianza”: quando scopri un nodulo che è già un carcinoma intervieni. Quindi fai comunque l’intervento che potresti fare da sano, senza chemioterapia.

Ecco perché ci interessa arrivare alle donne sane: le donne devono sapere che alcuni medici hanno un atteggiamento “conservativo”, un atteggiamento dettato più dalla cultura che dalla medicina. Perché la prevenzione chirurgica è l’unica forma di salvezza. Non esiste altro.

E, prima di tutto, serve l’informazione. Alcune donne mi rispondono: “Ma io faccio il pap-test”. Il pap-test, in realtà, serve solo per individuare il tumore alla cervice uterina. Per il tumore all’ovaio serve l’eco-transvaginale. Pensa al mio caso: la visita di routine con la ginecologa era stata 6 mesi prima. A gennaio 2013 ho fatto la nuova eco-transvaginale e sono state individuate queste due masse, una di 15, l’altra di 13 centimetri di diametro. In quella di sei mesi prima non c’era nulla. Insomma, facendo il calcolo si era capito che il mio tumore era nato tre mesi prima. Si sono sviluppate di 5 centimetri al mese. In ogni caso, fare l’eco-transvaginale, ogni 6 mesi, non ti mette in sicurezza».

Quali sintomi avevi prima di scoprire il tumore ovarico?

«Il tumore ovarico non ha sintomi direttamente associabili. I suoi sintomi possono essere confusi con gastrite, stitichezza, disturbi intestinali, influenza. Io non avevo nulla. A gennaio avevo fatto il mio controllo annuale e, reduce dalle feste di Natale, avevo solo pancia gonfia ed ero molto stitica. Ma lo ero sempre stata. Quindi era tutto nella norma. È stata brava la mia ginecologa ad avere l’intuizione corretta facendomi fare subito un nuovo controllo. Se non fosse stato per lei io non avrei fatto altri controlli e avrei aspettato gli altri 6 mesi per fare l’eco-transvaginale di routine e, forse, non ci sarei stata più».

Come ti sei avvicinata all’associazione aBRCAdaBRA?

«Dopo aver scoperto di essere mutata ho iniziato a fare ricerche su internet. Ho scoperto questa associazione e il gruppo Facebook privato, dedicato a chi ha questa mutazione genetica. Era aprile 2017 quando mi sono iscritta.

Nel mese di maggio hanno realizzato un convegno scientifico dedicato alle mutazioni genetiche a Pavia. Così ho conosciuto le altre componenti della onlus. Sono eccezionali, stanno facendo un lavoro encomiabile. Si stanno battendo tantissimo per il riconoscimento di questa mutazione, affinché si dia dignità a chi ha questa mutazione e non ci sia l’ironia stampata addosso della “mutazione di Angelina Jolie”. Questa mutazione è qualcosa che ti porti dentro e che sai che puoi trasmettere ai tuoi figli: come madre è ciò che ti manda più in paranoia. Sai che non è colpa tua ma puoi aver trasmesso ai tuoi figli una sentenza di morte.

Insomma, ho seguito questa associazione nei suoi vari eventi. Sono andata al flash-mob dedicato al tumore al seno metastatico. Questo per iniziare a far sentire anche la voce delle donne di tumore ovarico. Tante malate di tumore ovarico mi hanno chiesto perché andassi se l’evento non era dedicato a noi. Sono voluta andare perché per me, il tumore è tumore. Che sia al seno, all’ovaio o ovunque sia: la sofferenza non conosce una localizzazione. E poi sono andata perché volevo farmi sentire. Sono andata con lo scopo di iniziare un percorso: volevo diventare parte attiva di questa onlus. Non volevo lamentarmi senza muovermi.

Così, in quell’occasione, ho incontrato la referente regionale della Lombardia, Maria Grilli. Una donna eccezionale che ha fatto della sua malattia la sua missione, dovremmo prendere tutti esempio da lei. Aiutare altre persone dovrebbe essere un obiettivo comune su questa terra: non puoi rimanere tranquillo nella tua casa sapendo che c’è chi soffre, quando solo con la tua informazione potresti aiutare altri.

E proprio per questo ho sottolineato a Maria come fosse importante parlare anche di noi donne con tumore ovarico: “Noi esistiamo, e moriamo molto più di voi”. Dobbiamo dare dignità a tutte queste morti. Dobbiamo dare loro uno scopo, un senso. È anche una gratificazione per i familiari.

Così io e Maria abbiamo iniziato a collaborare in maniera fattiva e, grazie al team Lombardia da lei creato, si stanno organizzando eventi e campagne di sensibilizzazione. Un primo passo è l’evento del 12 gennaio al teatro Sant’Anna di Busto Arsizio: Voce di Vetro. In occasione della Giornata del Tumore Ovarico (8 maggio), faremo altro.

È importante dare risonanza alla nostra voce: abbiamo una voce flebile, fragile, la nostra voce è un sussurro. Abbiamo bisogno di amplificare le nostre voci. Soltanto facendoci sentire possiamo salvare altre vite. Si parla sempre di “pink”. Del “verde tiffany”, che è il nostro colore, non se ne sente mai parlare».

Quali cambiamenti e quali riflessioni hanno scatenato l’arrivo del tumore?

«Sapere di avere un tumore scatena dentro di te il panico assoluto. La paura diventa la tua compagna di letto. E poi programmi il dopo. Ho già in mente tutto. Come vorrò il funerale: non sarà religioso perché non sono credente. Voglio essere cremata perché credo nella possibilità di diventare altro. Quindi le mie ceneri dovranno essere sparse al vento, come la cenere lavica, ottimo fertilizzante per i terreni. Voglio diventare concime per la terra. Dalle mie ceneri deve nascere, come dico scherzando, un papavero. Voglio che una parte di me rinasca sotto altre spoglie, altre sembianze. Non credo nei cimiteri. Ha più significato, per me, sapere di poter essere ovunque, nella terra. Ogni frammento di me dovrà depositarsi e diventare qualcosa nel mondo. Questo mi dà un senso di continuità. È il mio “eterno” e la mia visione di “immortalità”. In tal senso posso pensare all’immortalità. Non c’è un inizio o una fine ma c’è sempre un tempo continuo».

Cos’è per te la vita?

«…non si può fare questa domanda. Non esiste una risposta. Non è la nascita o la morte. La vita è un’idea forse. Ad esempio, nel mio caso penso sia fondamentale mantenere il mio cognome: mi dà un ancoraggio alla storia, ai miei avi, a ciò che è stato il mio passato. Mi dà un’idea di vita presente: ci siamo stati in questo particolare momento e ha avuto significato esserci in questo momento.

La vita è essere adesso qui sapendo che però domani sarai da un’altra parte. Sapendo che non finisce con me la vita e non è iniziata con me. È iniziata con la storia dei miei avi e non finirà con me. Continuerà tramite le mie figlie e continuerà con me in un modo differente. La vita è l’immortalità della mia anima. Non ha niente di fisico, la mia vita. È su un piano più filosofico. La vita è garantire un significato all’esserci qui, ad esserci consapevolmente e con un significato in questo momento. Altrimenti, in un tempo infinito, quale significato trovi al tuo nascere e morire? Sei il nulla insieme ad altri nulla. Allora io do valore al mio essere presente adesso. Se la mia vita di adesso è quella che mi ha portato a fare questa riflessione, della mia stessa vita, allora ha significato che io sia stata qui. Sono sensazioni legate ad una vita infinita».

La tua canzone preferita?

«Non ho una canzone preferita ma, nell’ultimo periodo, ascolto con molto piacere e commozione “La Cura” di Battiato (la versione orchestrata). È stupenda perché è l’accompagnamento che tutte noi vorremmo. Questo prendersi cura della persona, accompagnarla. Non è solo un abbraccio. È un accogliere la malattia della persona. Accoglierla. E accompagnarla».

È importante il ruolo delle persone che ti stanno attorno….

«È fondamentale. Chi ti sta attorno deve imparare ad accogliere. E non è facile. Cosa significa accogliere? Non vuol dire essere compassionevoli. Non voglio compassione attorno a me. Non voglio essere compatita. Non sono una vittima.

Chi ti sta attorno deve imparare ad accogliere le tue paure. Ed è la parte più difficile per un familiare. La paura è la mia compagna di vita e la mia compagna di letto. E so che è difficile accogliere questa mia parte. È più facile spronare la persona malata a non avere pensieri negativi, a reagire, a pensare che non tutto andrà male: è la parte che fa più male al malato e che lo fa sentire più in colpa. Se mi dici di reagire, è come se mi stessi dicendo che non sto lottando, che ho l’approccio sbagliato, che mi sto abbandonando, ma dicendo così mi fai sentire più in colpa e allora non ti dico più niente.

Se sei vicino a una persona malata, accogli la sua paura, piangi con lui. Non puoi dire che le cose andranno bene. Non sappiamo come andranno. Voglio che tu mi dica: “Sì, le cose possono non andare bene e io ti sono accanto”. Dire invece: “Stai tranquillo, andranno bene”, è una chiusura. Sembra che tu voglia tenere fuori il cancro dalla tua vita. Invece il cancro sono io. Il cancro esiste.

È vero, quando una persona si ammala di cancro, i malati sono tutti i componenti della famiglia. Lo è mio marito e lo sono le mie figlie: visite settimanali, medicine e tanto altro diventano parte della tua vita e di chi ti sta vicino. Il cancro è coinvolgente ed è estenuante. Ma siamo noi questo. Quindi consiglio a chi è accanto a un malato di accogliere. Anche se non avete la forza, se gli argomenti vi fanno paura, se sono cose che non volete sentire o ascoltare, fate uno sforzo, perché anche la persona che lo vive vorrebbe non sentire questi argomenti. Io ho il terrore di ascoltare questi discorsi, quindi posso capire che anche tu non voglia sentirli, ma purtroppo sono me. Se ti dico che voglio pianificare la mia morte c’è un motivo. Voglio che le cose vadano in quel modo e ora posso farlo, non dopo. Voglio parlarne perché anche questo fa parte della mia vita. È l’evento che tutti considerano la conclusione della propria vita e io voglio programmarlo, così come programmo la passeggiata in montagna. E chi ti è vicino deve ascoltarti. Facendolo diventare un argomento non drammatico ma condiviso».

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