Lucia, una vita a fianco dei migranti

La passione per l’aiuto e l’incontro con ‘l’altro’ nasce da dentro. O almeno è così per Lucia Lioi, originaria della Basilicata e lombarda d’adozione. Da sempre è a contatto con i migranti: prima i tunisini, poi gli albanesi, ora gli africani. 

Dopo la sua esperienza come volontaria, a fianco della Croce Rossa, è stata per due anni coordinatrice del più grande centro accoglienza migranti di Busto Arsizio.

Intervista realizzata in collaborazione con Paola Consolaro e Gianluca Bramani

Chi è Lucia?

«Chi sono… sono una donna di 54 anni con un figlio di 23 anni. Sono geometra, ho avuto varie esperienze di lavoro tra le quali la collaborazione con un’azienda. Ho sempre seguito gli stranieri: i tunisini nel ’92, qualche anno dopo gli albanesi. Ho assistito anche al parto di alcune donne di famiglie albanesi che abitavano nel mio paese, ho cresciuto alcuni loro bambini e fatto assumere le mamme in azienda per far avere il permesso di soggiorno.

Nel 2015, poi, c’è stato un arrivo di migranti dall’Africa a Venegono Inferiore: era un’emergenza e sono stati portati in una palestra di una scuola. Sono arrivati il 12 luglio… io il 13 ero là. Da maggio 2016 sono stata per un anno e mezzo coordinatrice del centro di accoglienza migranti di Busto Arsizio (Varese)».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

Com’è stata la tua prima esperienza a contatto con i migranti dall’Africa?

«Sono stata per un anno volontaria nel centro di Croce Rossa a Venegono Inferiore e a Tradate (Varese ndr.). Quello è stato il mio primo contatto diretto con le storie degli africani. Ne conoscevo tante ma non direttamente, così ho potuto sentire le storie di sbarchi e prigionia in Libia da vicino.

Il mio è un voler aiutare, fare qualcosa senza avere però gli strumenti idonei. Gli strumenti erano quelli che avevamo in casa: si portava quello che si pensava potesse servire e si stava lì giornate intere. Con alcuni ho legato di più: un ragazzo, dopo una settimana che era lì, ha ricevuto la notizia che era morta sua figlia. Mio figlio è diventato il suo supporto in tutto e per tutto. Con altri siamo rimasti amici e li frequento ancora ora.

Tra gennaio e maggio di quell’anno ero rimasta senza lavoro quindi avevo fatto anche i corsi per insegnare italiano, sempre come volontaria, tramite la Croce Rossa. Nel frattempo cercavo lavoro. Dal venerdì alla domenica curavo una signora anziana e nel resto del tempo ero con i migranti».

Hai da sempre questa sensibilità per l’incontro con l’altro?

«Non saprei… I primi tunisini sono arrivati nell’azienda dove lavoravo. Io lì collaboravo come geometra. Loro erano a lavorare al mio fianco ma dormivano nelle baracche. Già in quel momento avevo sentito il bisogno di aiutarli per fare avere loro il permesso e una casa.

Poi, sono figlia di migranti della Basilicata… mio padre è stato 15 anni in Germania e ora mi trovo qui in Lombardia. La storia dei migranti insomma era già mia: vedevo mio padre una volta all’anno. Mio padre era così: aiutiamo tutti… e mio figlio è uguale anzi, peggio (ride ndr.)».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

Quali differenze e quali punti di contatto hai notato tra le differenti popolazioni con le quali ti sei confrontata?

«I tunisini erano solo uomini, erano molto chiusi e si faceva molto fatica a comunicare con loro visto che la maggior parte parlava solamente arabo. Avevano una gran voglia di lavorare e una grande forma di adattamento: facevano i muratori e andavano a dormire in baracche o dove capitava.

Gli albanesi sono arrivati in massa: prima gli uomini, poi le donne che li hanno raggiunti. In loro ho notato maggiori esigenze, forse per il colore della pelle simile al nostro. Il bianco viene poco attaccato dal razzismo, il nero subisce di più. Quindi in loro ho visto più ‘arroganza’ per l’avere determinati diritti rispetto a quanto non abbia visto in altre popolazioni.

Poi sono arrivati i ragazzi africani. Sono molto orgogliosi ma sanno di essere dalla parte del ‘debole’ in questo contesto. Diventano aggressivi solo se braccati o trattati molto male. Altrimenti non li ho mai visti aggressivi: anzi, sono stata protetta da loro in varie occasioni. Quando li ho visti diventare aggressivi (mai contro di me) era solo perché venivano maltrattati, altrimenti no. Ad esempio, nel 2016 il centro di accoglienza di Busto Arsizio è stato disfato: tutto è scaturito da una persona che si è lamentata perché in quel momento non c’era cibo ed è stato umiliato da uno degli operatori:

Ti do 5 euro, vai a mangiarti un panino’.

È stata pesante. Questo ragazzo era un ex militare ghanese: oltre ad una struttura fisica imponente, ha una tempra di tutto rispetto. Se un altro operatore gli avesse detto ‘abbi pazienza, ora vediamo’, sarebbe stato diverso. Chiaramente quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

C’è chi racconta in giro che i migranti vengono qui per fare la bella vita ma non è assolutamente vero. Chiaro che se vedono in giro chi sta bene, vorrebbero stare come loro. Anche i nostri figli fanno lo stesso: ‘Lui ha l’Iphone, perché io non ce l’ho?’.

Ho notato differenze tra le diverse provenienze degli africani. Ad esempio, i nigeriani hanno il ‘business in testa’. Molti scappano da guerre, da persecuzioni: quello che si racconta in giro sono chiacchiere. Un mio amico, ex guerrigliero, ha subito violenze molto gravi, ho visto i segni sul suo corpo. Come lui, molti altri: non puoi maltrattarli. A loro basta poco, basta il rispetto ovvero avere il minino per una vita dignitosa».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

Quindi sono necessari operatori preparati ad accogliere davvero…

«L’ho scritto tante volte: vorrei poter guadagnare tanto per poter fare la volontaria nei centri di accoglienza. Se vincessi alla lotteria, potrei farlo liberamente: senza ordini lo fai perché lo vuoi fare. Come il medico: non puoi farlo di mestiere, lo fai perché ti senti di farlo. Anche in questo caso non puoi farlo perché è un lavoro nel senso tradizionale del termine. Ho passato ore infinite in quel posto, non puoi pensare di andare a casa dopo le 8 ore tradizionali. Sono stata lì fino alle 9, a volte le 10 di sera, perché lo spirito è quello: se lo fai come lavoro, timbri il cartellino e te ne vai, non può funzionare».

Quali sono le caratteristiche che deve avere un operatore pronto ad accogliere migranti?

«Prima di tutto quelle ‘tecniche’, ovvero un minimo di conoscenza delle lingue. Io conosco solo il francese. Poi, fondamentalmente, la sensibilità. Molti operatori erano africani e questo è un aspetto importante. Certo, dipende dalle etnie e culture di provenienza. Alcuni, appena salgono il gradino, diventano subito dittatori. Altri, se seguiti nel modo corretto, se hanno fatto lo stesso percorso prima, sanno di dover fare la stessa cosa con gli altri.

Poi, è importante conoscere le leggi ed essere sempre aggiornato. Inoltre fondamentale è avere una rete sul territorio: i contatti con strutture pubbliche sono fondamentali. Asl, Questura, Comune: devi conoscere come muoverti. In generale sono luoghi ostici contro i migranti, soprattutto se sono neri, altrimenti non sono così. A Busto Arsizio avevamo un reparto di malattie infettive eccezionali: si era creato un contatto diretto. Potevo chiamare e chiedere per qualsiasi cosa, situazione che non succede in altri posti. Loro devono avere apertura e l’operatore deve avere la capacità di creare relazioni di fiducia. Il Comune di Busto Arsizio è sempre stato quello del ‘no’, ovviamente legato a delle motivazioni di fondo.

C’è da dire che sono successi casi singolari. Un ragazzo è andato in giro nudo per Busto Arsizio: sono andata di notte in pronto soccorso e l’ho trovato ammanettato. Non c’è stata la comprensione da parte di nessuno per ipotizzare che ‘forse’ aveva problemi mentali. Ha subito un processo per direttissima il giorno dopo: nei giornali è emerso che si era tolto i vestiti ‘perché i vestiti italiani non gli piacciono’. In realtà è nigeriano, sordo e con grossi problemi mentali ed è poi stato ricoverato in psichiatria per un mese: nessuno si è esposto per ammetterlo facendo invece uscire alle cronache locali che si trattava di un ragazzo ‘stupido’ e superficiale. Pensa che gli hanno messo pure l’obbligo di firma: come poteva rispettarlo un ragazzo con problemi mentali? Io e un altro operatore eravamo sempre in psichiatria per non abbandonarlo.

È emerso anche che un ragazzo aveva picchiato altre persone: la dottoressa che l’ha preso in cura mi ha detto che in realtà non aveva fatto nulla di ciò che era riportato sui giornali, si era solo spaventato ed era in una situazione critica, in stato di ansia e solo agitato. I giornali hanno riportato le dichiarazioni dei carabinieri: ‘Ragazzo africano picchia persone’… Anche lui poi è finito in psichiatria e, in verità, non ha mai picchiato nessuno».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

Come hai trovato il centro accoglienza migranti di Busto Arsizio al tuo arrivo?

«Ho pianto. Venivo dalla Croce Rossa come volontaria, i problemi ci sono anche lì ma eravamo tanti volontari, con tanto movimento e passione. La prima volta che ho messo piede nel centro di Busto Arsizio ho visto delle persone a modi zombie: cattivo odore e nessuno che salutava. Sono entrata in macchina, ho chiamato la persona che mi aveva mandata lì per il colloquio e, piangendo, ho detto che non avrei messo più piede lì. Mi ha risposto di provarci: sono andata avanti così una settimana: dopo le mie 8 ore, entravo in macchina e piangevo. Non concepivo che quei ragazzi potevano stare così.

Poi è arrivato il gruppo di ivoriani e con loro sono partita. Facevo lezione, insegnavo, parlavo… da lì è cambiata la situazione. Prima del mio arrivo, solo in 3 o 4 avevano un attestato di A1 su più di 100 persone. Penso da sempre che prima di tutto sia necessaria la conoscenza delle lingue, così, l’anno successivo al mio arrivo, avevamo una 50ina di promozioni in A2 e degli iscritti in terza media tra cui gli ultimi arrivati ivoriani. Arrivati a maggio, a settembre erano iscritti a scuola in terza media direttamente. Quando il primo anno mi sono trovata il pacchetto delle promozioni ero contenta, valeva la pensa sudarseli».

Come hai fatto per organizzarti con l’accoglienza nel centro migranti?

«Lo dico sempre, non avevo i requisiti per occupare quel posto, assolutamente no. Sono un geometra e sapevo poco il francese, migliorato con loro negli anni. Non avevo le competenze necessarie per essere coordinatore di un centro migranti. Quindi sono andata avanti lì comportandomi come quando ero volontaria. Ero felice perché stavo svolgendo un lavoro per il quale avevo passione. Certo, alcune regole sono istituzionali, con orari e dettami, comportamento all’interno del centro etc.

Chiaro, è una comunità: se non ci sono regole non funziona. Ma le regole sono fatte anche per essere sviate qualche volta. Chiudi un occhio quando serve e lo fai anche a seconda della persona con la quale hai a che fare. Esiste il meccanismo della diffida: è un mezzo che va usato per me in casi estremi, invece molti lo utilizzavano di regola. Appena rientravano in ritardo, ricevevano la diffida. Dovevano rientrare alle 10 di sera: pensa d’estate, ragazzi giovani, tanti giovanissimi, costretti a rinchiudersi nel centro a quell’ora con il caldo che faceva.

Tra l’altro, nessuno dichiara l’età corretta: molti minorenni dicono di essere maggiorenni quando invece sarebbe meglio per loro dichiarare l’età reale. Ma non lo sanno e vanno istruiti anche su questo. Seguendo l’articolo 15, fanno richiesta di protezione direttamente in Questura al loro arrivo: lì l’operatore (oberato di lavoro) non sta lì a guardarlo in faccia dicendogli che si vede che non ha 18 anni. Se dichiari 18, è così e non possiamo farci niente. Insomma, le età dichiarate sono tutte sballate: molte volte le loro storie hanno dei pezzi che non si incastrano correttamente. Ad esempio, alcuni dicono di avere 19 anni e poi scopri che hanno un figlio di 8… qualcosa non torna».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

A te raccontano la loro vera storia e dichiarano l’età reale?

«C’è una grossa diffidenza: ora forse non è più così perché quello che passano in Libia non gli dà il tempo di ragionare, qualcuno invece arriva con storie già preconfezionate. Infatti alcuni, prima di arrivare qui, hanno fatto un periodo di lavoro in Libia invece di passare dalla prigione. Sono i ragazzi che qui spesso vengono visti negativamente perché ‘sono in salute’. Bene, questi ragazzi, trascorrendo un periodo relativamente ‘tranquillo’ di lavoro in Libia, ricevevano imbeccate con quello che conviene dire. Alcuni pagavano addirittura le storie. Chi le vendeva non aveva interesse che andassero a buon fine o no ovviamente.

In generale, comunque, i ragazzi immigrati dall’Africa sono diffidenti: secondo loro, o non credi alla loro storia o gliela vuoi cambiare perché non vuoi fargli prendere il permesso di soggiorno, se te la dicono prima magari non la consegni etc. Non capiscono che in commissione vanno loro da soli e lì non c’è nessun mediatore presente eccetto quello ufficiale della commissione.

Hanno questo senso di protezione verso le loro cose: non vogliono dire che hanno lasciato in Africa un bambino piccolo perché sanno che tu, italiano, potresti giudicarlo negativamente. Poi scopri che hanno una moglie, più figli e varie situazioni diverse. Sono pochi quelli che riescono ad instaurare un feeling con l’operatore. Fin da quando lavoravo in Croce Rossa mi veniva detto di non chiedere loro le storie perché ‘intuiscono’ dalla nostra reazione se va bene o male. È una fesseria: se mi racconti la tua storia, io ti ascolto. Posso farti una battuta se sono in confidenza con te e ti dico cosa penso, ma si tratta di un rapporto d’amicizia in quel caso».

Essere donna in un centro di quasi 200 uomini, vantaggi e svantaggi…

«Una donna giovane è un problema perché scattano gelosie ‘affettive’. Nel mio caso no: io sono una mamma. Contrariamente a quello che molti pensano, l’africano ha grande rispetto per le donne. Per loro nessuno supera la mamma. Per loro è mamma chiunque abbia l’età per esserlo, più grande di loro. Scherzando dicevo che ho fatto un figlio solo ma mi ritrovo con 400 persone che mi chiamano mamma. Persone anche poco più piccole di me in alcuni casi. Mi hanno spiegato che anche la sorella, se è più grande, non la si chiama per nome perché è una forma di rispetto. Ci ho messo due anni per farmi chiamare Lucia: chi mi chiama Lucia è perché ha raggiunto una grande confidenza con me. Altrimenti sono sempre ‘mamà’.

La figura della donna è quindi molto positiva in un centro di accoglienza. Quando sono arrivata, ad esempio, c’erano alcuni ragazzi anglofoni che avevano l’abitudine di andare in giro in mutante. La seconda volta che ho detto loro ‘non mi sembra il caso’, non lo facevano più. Sono andata in un altro centro per poco tempo e quell’abitudine ce l’avevano e non c’è stato niente da fare. Ma a Busto, dove c’ero io, non si poteva venire in ufficio ‘sbracati’, senza camicia o maglietta non si entra. Mi mostravano così rispetto».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

Lo stesso rispetto lo hai ricevuto sia dagli africani cristiani che dai musulmani o hai trovato differenze?

«Stesso rispetto. I nigeriani sono quelli più ‘sfrontati’, io li chiamo i ‘napoletani dell’Africa’ e me lo posso permettere perché sono lucana: sono gli unici che, al massimo, hanno fatto una battutina, che comunque dura 30 secondi. Ma la donna adulta, per tutti loro, merita rispetto. Alcuni mi dicevano: ‘Il dolore che prova una donna per partorirci è tale che non possiamo neppure immaginarlo, fa 9 mesi a rischiare la vita per farci nascere, come facciamo a non rispettarla?’.

Si pensa che gli africani trattino male le donne. Al massimo sono le donne africane che trattano con superiorità gli uomini in tutto e per tutto. Molti hanno figli fuori dal matrimonio, ma anche se si ‘stancano’ del figlio nato dal matrimonio stesso, in un attimo lo lasciano al marito e se ne vanno. La maggior parte dei ragazzi ivoriani padri, avevano lasciato i loro figli alle loro stesse mamme perché le loro mogli se n’erano andate».

Al di là del fatto che esistono anche centri per migranti donne (come questa nostra intervista racconta), molti italiani commentano (negativamente) che in Italia arrivano solo ragazzi giovani che hanno abbandonato le loro mogli e famiglie in Africa…

«Bisogna sapere una questione fondamentale: molte mamme africane, se sanno che il figlio della vicina di casa è andato in Europa ed è ‘diventato ricco’, magari solo perché vedono una sua foto accanto a una macchina parcheggiata per strada, si indebitano per fare partire il figlio. E deve farlo, non può non farlo, anche se rischia di morire. Molte mamme hanno questo potere suoi figli: ‘Devi andare, lui è andato e sta bene, devi farlo anche tu’. Quindi raccolgono i soldi per farli partire, così come poi ne raccolgono tanti altri per fargli uscire dalle carceri libiche.

Alcuni magari riescono a non pagare la traversata dalla Libia: a pochi capita ma può succedere. Un mio amico ex guerrigliere della Costa d’Avorio ha pulito kalashnikov per due mesi in Libia, poi ha detto a una guardia che non ce la faceva più: l’ha fatto uscire di corsa, in mutante, così è salito di nascosto su un gommone.

Spesso invece vengono torturati, stuprati, maltrattati dal carcere in Libia. Un ragazzo che conosco è stato più volte stuprato in carcere e mi ha raccontato dei particolari per i quali sono stata male. Per non parlare di quello che succede alle donne.

Un altro ragazzo nigeriano ha una pallottola nel braccio: era in una specie di carcere con donne e uomini insieme. Le guardie portavano fuori gli uomini, li mettevano davanti alla porta e dovevano sentire quello che succedeva dentro e non reagire. Lui ha sentito le donne dentro urlare, ha reagito e si è preso una pallottola… Forse, chi parla, dovrebbe informarsi un po’ di più».

Raccontami quali attività hai avvitato con i ragazzi immigrati nel centro di accoglienza di Busto Arsizio

«Prima di tutto la scuola. Abbiamo avviato corsi in collaborazione con il CPA di Gallarate. Poi con il gruppo di volontari di Stoà. Iniziato già prima del mio arrivo, facevano solo corsi di sera con pochi frequentanti: poi ci hanno offerto di andare da loro in oratorio a seguire le lezioni.

Dei ragazzi del liceo artistico invece si sono offerti di venire a fare lezione di musica con una ex insegnante. Non potevano entrare nel centro, nessun volontario poteva entrare perché era stato vietato per dei problemi che c’erano stati. Siamo però riusciti a fare organizzare il corso di musica di questi ragazzi direttamente lì: hanno seguito in tantissimi, le lezioni le facevamo direttamente nel salone.

Abbiamo collaborato anche con il liceo classico Daniele Crespi. Era partita in modo sperimentale: un gruppo di ragazzi di via dei Mille andava da loro a scuola a seguire lezioni di italiano grazie a degli alunni. È andata bene, abbiamo anche organizzato una festa finale all’interno dell’istituto e i ragazzi hanno giocato a pallavolo insieme. Si era instaurato il normale rapporto tra coetanei, è stato bello.

L’anno dopo, il professor Lombardo, insieme alla preside del liceo Crespi (lungimirante), ha aumentato il numero di frequentanti: in 16 hanno fatto quasi tutto l’anno come alternanza scuola-lavoro e il tutto si è concluso con festa e attestato finale. Quest’anno purtroppo il corso si è interrotto malamente anche se si era arrivati a 40 ragazzi che una volta a settimana andavano al liceo. Si è dovuto interrompere perché il centro di Busto Arsizio è stato chiuso.

La cosa bella non era tanto l’italiano che stavano imparando ma vedere come si preparavano prima di uscire. Quando andavano al CPA era una ‘tragedia’: l’insegnante mi chiamava per sottolineare che non dovevano andare in ciabatte a scuola. Spiegarlo a 110 persone non era facile. Invece, quando è iniziato il corso al Crespi, mi sono ritrovata tanti ‘fighetti’, profumati e vestiti di tutto punto. Pensare che la prima volta è stata uno sbuffare unico ma al loro arrivo non gli è sembrato vero. Scuola ‘vera’ e con insegnanti loro coetanei. Da 16 partecipanti iniziali, il giorno dopo sono andati in 32: non potevo farli andare tutti. Peccato che questa esperienza sia stata interrotta bruscamente senza poter preparare i ragazzi.

Il nostro mediatore è andato a parlare con gli studenti del Crespi, io ho telefonato in diretta perché non potevo essere lì quel giorno… abbiamo pianto tutti insieme. Mi sembrava giusto salutarli. Si sono documentati per capire cosa fosse successo ma era giusto ricevessero una spiegazione da parte nostra. Comunque, molti sono rimasti in contatto con i propri ‘alunni’.

Fondamentale inoltre è imparare i loro nomi: io inizialmente ho usato il loro numero di codice. Molte volte vengono snaturati. Non puoi dire ‘tu fai questo’. Quindi ho imparato tutti i loro nomi, non si può non impararli.

Altre attività svolte sono stati i pranzi in famiglia, il volontariato con Legambiente e vari lavori in una scuola come il dipingere le aule scolastiche. Ci siamo offerti volontari ovunque: non ci hanno accettato, non c’è stato verso».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

Perché non hanno accettato la vostra proposta di lavorare come volontari?

«Perché non ci volevano. Non volevano i nostri ragazzi, non c’è niente da fare. Con il Comune di Busto Arsizio ci siamo offerti insieme a Legambiente per pulire i boschi o i parchi visto che dicevano che eravamo noi a sporcarli, manutenzione del verde, sistemazione dei giardini…. Niente.

Con Legambiente hanno sistemato i giardini di via Rossini: c’erano bambini dietro la finestra a guardarli e salutarli, erano felici. L’ultima esperienza è stata con i lupetti dei Boyscout: un ragazzo timidissimo e pochi altri hanno fatto una serata con loro. Avevamo aperto un nuovo filone: hanno cucinato e mangiato insieme, i bambini erano la felicità in persona e non vedevano l’ora che tornassero. Avevamo fatto anche il gruppo musicale: bellissimo.

Inoltre, siamo andati a suonare in un teatro a Gallarate con l’aiuto della preside del CPA con un ragazzo che veniva da Novara. Poi siamo andati in un asilo a Gallarate, ovviamente si faceva musica con le percussioni. Il giorno dopo è uscito un articolo di giornale con le dichiarazioni dell’assessore alla Cultura di questa città: ‘Cosa c’entrano i bonghi con il Natale?’. Quest’asilo non ha avuto finanziamenti quest’anno. L’associazione genitori controbatteva con questa situazione. Tra l’altro era un asilo multietnico: c’erano donne con il velo e bambini musulmani che cantavano insieme a tutti gli altri le canzoni di Natale. Ho conservato quell’articolo: se si ricordassero che Gesù non è bianco, non è alto e biondo con gli occhi azzurri, forse capireste.

Pensa che sono atea in tutto e per tutto: qualche ragazzo mi ha detto, scherzando, che è un bene, così non patteggio per nessuno, altri mi hanno detto che se tutti gli atei fossero come me sarebbe un bene. Pecco di presunzione, però… gli ho anche scioccati con questo fatto. Si mettevano a parlare per ore sul perché fossi atea.

Altre attività: abbiamo partecipato a una conferenza al Maga di Gallarate sulla migrazione con il professore del Crespi. L’unica volta che ci hanno cercato è stata con l’associazione genitori dell’asilo di Gallarate, per il resto eravamo sempre noi a proporci».

Le istituzioni facevano visita al centro?

«Il sindaco è venuto quanto c’era il ‘casino’, davanti alla porta. Sia la prima volta quando i ragazzi sono andati a protestare in piazza, sia quando ci sono state lamentele per la carta di identità. Per il resto nessuno, di nessun partito, è venuto a far visita lì. C’è da dire che le porte erano chiuse, avrebbero dovuto chiedere di venire. Gli unici che venivano a bussare alla porta erano i testimoni di Geova: li ho allontanati, non perché dessero fastidio a me, ma per quello che dicevano ai ragazzi, non volevo gli irretissero nelle loro convinzioni. Alcuni pretendevano di parlare con loro e non solo con me. Insomma, secondo me in quel modo era dannoso.

Invece, il pastore della chiesa evangelica dove andavano i nigeriani era particolarmente attento. Più volte mi ha chiamata dicendomi: ‘Non importa di che religione sono, organizziamo, vengo a prenderli’.

È stata bellissima, poi, la veglia di preghiera interreligiosa sul tema del martirio organizzato con il Pime a marzo del 2017. Si è riflettuto come, in tre religioni diverse, si veda il martirio. C’erano nigeriani, musulmani e tanti altri».

Come convivono così tante differenti etnie tra loro?

«Convivono pacificamente senza nessun problema. In due anni non ho mai visto una discussione tra musulmani, cristiani e altro. Vivono tranquillamente la loro vita. L’anno in cui sono arrivata ho chiesto di fare la festa di fine Ramadan: abbiamo cucinato e preparato in un salone grandissimo diverse pietanze. I ragazzi cristiani hanno festeggiato insieme a loro. Era una festa a tutti gli effetti. Anche perché loro in Africa convivono in modo naturale tra differenti religioni, molti mi hanno detto che al loro paese festeggiavano il Natale e poi il Ramadan e non capivano come mai noi avessimo così tanto stupore rispetto alla convivenza tra religioni. Erano in 200 e non li ho mai visti discutere su questo tema. Era più facile discutessero di politica… o di calcio. Le discussioni, al massimo, erano tra me che amo Ronaldo e altri che amano Messi».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

È mancato qualcosa nella buona gestione del centro di accoglienza a Busto Arsizio secondo te?

«Non sarebbero dovuti essere in tanti. Il numero eccessivo crea problemi. L’ha permesso la Prefettura. Capitava chiamassero avvisandoci di preparare dei posti per un’emergenza di nuovi arrivi. Una struttura così grande, però, non va bene. Non ho visto grosse risse ma me le sarei aspettate. Sono arrivati a convivere 200 ragazzi di una decina di etnie diverse: nigeriani, gambiani, ganesi, ivoriani, maliani, siriani, etiopi, somali, liberiani, un ragazzo egiziano, un armeno e un russo per un periodo. 12 Paesi diversi, che è ancor più differente rispetto a pensare a 12 etnie diverse. All’interno dei singoli paesi ci sono numerose etnie: quindi contiamo almeno 50etnie diverse, metà cristiani, metà musulmani.

Pensa ai siriani: appena verificata la loro provenienza dovrebbero avere subito tutti, di diritto, il permesso. Sappiamo benissimo tutti cosa sta avvenendo in Siria. Invece si fanno 6 mesi o un anno anche loro nei centri di accoglienza prima del processo. Non ha senso.

L’accoglienza non dovrebbe essere così: non puoi tenere una persona in sospeso due anni, due anni e mezzo, prima che venga analizzata la prima volta. Non è concepibile. Per legge inizialmente si parlava di 6 mesi per la prima commissione. Ora siamo arrivati a due anni e mezzo, è assurdo».

Lo Stato italiano, secondo te, potrebbe gestire l’accoglienza rispettando i 6 mesi per la prima commissione?

«Secondo me sì, c’è a monte un discorso economico che rallenta tutto.  A Milano, un’unica commissione territoriale gestisce Como, Milano, Varese, Lecco e Pavia. L’ultimo numero identificativo che ricordo, in provincia di Varese, era attorno al 5.500. Significa che dal 2014, quando è iniziato il percorso, sono passati quasi 6mila migranti solo in provincia di Varese: non puoi avere una sola commissione territoriale.

Pensa che mi sono trovata con un ragazzino arrivato ad aprile 2014 con identificativo numero 4. Quando è andato in commissione ha detto di essere minorenne e credo sia vero. Era un minore insomma: quando lo scopri fai fare per legge un altro percorso. Invece no: ha avuto la commissione sospesa, rientrato nel centro e dimenticato letteralmente. Non poteva rinnovare il permesso di soggiorno di 6 mesi, non aveva carta di identità, né tessera sanitaria. Problema enorme perché non si riusciva a curarlo. Abbiamo sollecitato Questura, Prefettura, commissione territoriale, le abbiamo provate tutte e non c’è stata risposta. Gli è arrivata la data di commissione a gennaio 2018. Quattro anni e poi gli hanno dato il diniego. Con quello, almeno, abbiamo rinnovato il permesso di soggiorno. Visti i tempi, ha deciso di andarsene in Francia. Lì sono molto più veloci.

In Germania è un altro mondo. Se vai a scuola ti pagano. L’importo che arriva dalla Comunità Europea è uguale per tutti gli Stati, poi ogni Paese lo utilizza in modo diverso. in Italia arrivano direttamente 2,50 euro al migrante al giorno dei famosi 35, invece in Germania i 350 euro al mese vengono dati davvero al migrante, oltre l’accoglienza, la casa e tutto il resto: nel senso che vengono accantonati per il migrante su un conto che lui non può toccare ma sono per lui. La Germania ha capito che la moneta circola e se alcune aziende li assumono, prendono degli sgravi: lo stipendio che ricevono è in parte dello Stato. Un ragazzo che ho conosciuto in Italia ora prende 700euro al mese in Germania lavorando in un supermercato. Questa è accoglienza e ha una logica di ritorno per il Paese intero.

Tra l’altro, se ti viene negato il permesso, torni al tuo Paese con i soldi che sono stati accantonati per te: hai una base per poter ripartire. Anche in Francia è differente: il welfare tutela i migranti minori, cosa che in Italia non succede. Sono abbandonati, molti si prostituiscono e chi li cerca sono italiani…».

Cosa hai imparato stando a fianco dei migranti?

«Ho imparato la capacità di affrontare i problemi. A parte che ti dicono sempre ‘Dio è grande’. Che significa ‘vado avanti’. Ho avuto molti problemi, sia economici che personali: insieme a loro ho imparato ad affrontare le cose. Posso avere soldi per non fare la spesa? Ma loro hanno la famiglia lontano. Molti di loro non li vedranno mai più.

Mi hanno insegnato ad affrontare i problemi in maniera diversa. Quando li sentivo piangere perché un figlio stava male, pensavo a mio figlio: l’avrei messo in macchina al volo ma loro, la disperazione, la devono affrontare da soli. La società e le leggi dovrebbero aiutarli. Questi ragazzi mi hanno aiutato a superare la depressione. Nessun problema di quelli che avevo e ho è grande quanto il loro».

Lucia Lioi Centro accogliernza migranti Busto Arsizio (1)

Quale vantaggio possono portare alla società italiana i migranti?

«Il confronto a livello culturale prima di tutto. Noi abbiamo l’arroganza di pensare di essere superiori, loro possono portare il confronto. Io ho scoperto la loro cucina e soprattutto il loro modo di mangiare, diverso dal nostro. Questo confronto culturale tra ‘noi e gli altri’, ci dovrebbe far fare un bagno di umiltà. Se scopro come un’altra persona è capace di vivere con poco, devo impararlo. Forse queste sono le questioni più importanti: le paure che si hanno del terrorismo, della religione, potrebbero scomparire. I nostri figli potrebbero crescere meglio se capissero che non devono avere paura».

Per concludere, ci lasci tua canzone preferita?

«‘Quattro Stracci’ di Guccini».

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