Lucrezia – Solo i piccoli angeli lo sanno

Come ogni sera mi ritrovo seduta da sola sul divano, con un telefilm poliziesco alla tv, la pattuglia dai lampeggianti blu accesi che fa la ronda per controllare che nessuno sia in giro, tantissimi progetti iniziati e mai completati…ma i pensieri da tutt’altra parte.

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È passato ormai un mese da quando, sulle note felici del Carnevale, i bimbi hanno salutato le maestre con la promessa di divertirsi e rincontrarsi più leggeri che mai la settimana successiva. Le verifiche erano già programmate, la tanto attesa gita si avvicinava sempre più, così come la festa per la Giornata Internazionale della Donna, la festa del papà, la festa per l’inizio della primavera.

Ma quella settimana non è mai arrivata: siamo entrati in guerra e all’inizio nessuno l’ha voluto riconoscere, né ammettere a se stesso. Abbiamo cominciato con un “Non è che una forma di influenza un po’ più seria”, “passerà velocemente, l’importante è riguardarsi”, siamo passati ad additare i cinesi, fin quando la psicosi si è definitivamente impadronita delle menti, “#iorestoacasa”, “#tuttoandràbene”, arcobaleni colorati, pasta fatta in casa, pulizie che rimandavamo da una vita…

E la gente che continua a morire in sottofondo, come una stonata melodia lontana, che non cessa mai di risuonare nelle nostre menti, ma alla quale piano piano il nostro orecchio si sta forzatamente abituando. Io per prima non vedevo l’ora di avere una settimana di stacco…quante volte me lo sono ripetuta da inizio anno: non stavo più dietro a tutti gli impegni, mi sentivo sempre come se stessi rincorrendo il tempo, inutilmente. Ero in affanno ma senza correre, indecisa, senza opzioni tra cui scegliere, in ansia benché senza grandi impegni…le cose non stavano funzionando al meglio.

Così ci speravo, ci speravo davvero in quel momento di riposo per tornare a far pace con i miei pensieri, per riorganizzarli come si fa con il materiale scolastico alla fine delle vacanze, per dar loro le giuste priorità, affinché continuassi ad essere produttiva, efficiente, presente per tutti, ma allo stesso tempo non mi dimenticassi di me. E poi la pausa è arrivata, ci siamo stati catapultati tutti dentro; devo dire che non è stato male, all’inizio.

Finalmente quel po’ di tempo in più per tornare a respirare, per parlare a se stessi, ritrovarsi e fare il punto della situazione! È bastato poco, tuttavia, per far precipitare le cose, per trasformare il tempo libero in un senza-tempo scandito da bollettini di guerra, decreti notturni alla popolazione e scene di panico diffuso. È bastato poco per poter uscire di casa solo con una giustificazione, per non riuscire a fare la spesa con la giusta serenità, per iniziare a sospettare delle persone a cui vuoi bene.

Perché ora è così: bardati con mascherine soffocanti, guanti scivolosi, vaghiamo tipo Speedy Gonzales tra le corsie di un negozietto di paese, cercando di evitare il contatto con gli altri, cercando di evitare di incrociare il loro sguardo, cercando di evitare di parlare, tossire, sospirare. “Un metro di distanza dalle carote, un metro e mezzo dai cetrioli e una galassia e tre quarti dalle persone […] quando ho avuto i soldi in mano sono fuggita, mai così veloce, cercando di capire i nuovi sensi unici e i divieti d’accesso alle corsie del supermercato. Una volta uscita ho respirato come mai prima, aria fresca, aria di salvezza.

E ora sono in macchina, con i finestrini abbassati per recuperare ossigeno, perché ancora mi sto riprendendo dagli sguardi sospettosi e inquisitori della gente e dai fumetti che leggevo sopra le loro teste, confusi, impauriti, persi”; così descrivevo l’ultima esperienza in negozio ad un’Anima a me cara, la stessa che mi ha regalato l’espressione del ‘senza-tempo’, che sempre più utilizzo in queste giornate insensate.

Dobbiamo reimparare a vivere i giorni nella loro interezza, ad assaporare ogni ticchettio di orologio, cercando la voglia di andare avanti. Perché ora come ora, quando ti arriva la notizia di persone decedute, siano queste anche degli sconosciuti o dei vaghi conoscenti, una morsa ti prende lo stomaco e ti viene quasi voglia di sdraiarti sul letto, dimenticare il presente, lasciare che il mondo vada avanti senza di te.

Sono a casa 24/7 con una bimba di sette anni. Una bimba spaventata, che chiede costantemente cosa la Coronavirus significhi, cosa comporti, chi stia morendo, cosa succederà qui, a noi, in futuro. Beata piccola, ancora non ha capito che “è già qui”, che “è già con noi”, che “è ora”. Perché siamo tutti insieme in questa ridicola, terribile catastrofe. La piccola mi chiede delle sue care maestre, quando potrà vederle ancora per correre insieme nel giardino della scuola, se potrà consegnare loro il lavoretto di Pasqua che stiamo preparando, se faranno la verifica di inglese per la quale da un mese si sta preparando. Non chiede molto dei compagni, forse è tranquilla perché tanto al TG non fanno che dire che muoiono solo ‘Vecchi. Adulti.”; forse i nostri piccoli angeli sono ancora capaci di stare in contatto l’uno con l’altro anche a distanza, perché sono empatici, sanno cosa provano gli amici, sanno come stanno affrontando il momento. Noi adulti ci troviamo invece in difficoltà: stiamo iniziando a dimenticare il calore degli abbracci (io che non ne ho mai voluti e tantomeno dati, ora immagino il momento in cui potrò rivedere alcune persone speciali, per avvolgerle con lo sguardo, abbracciarle con le mie parole, scaldarle con un sorriso), iniziamo a rivalutare ogni momento dato per scontato fino al mese scorso, gli incontri rimandati, le chiamate silenziate, le occasioni perse.

La distanza forzata comporta anche questo, una riflessione su ciò che è stato, gli errori commessi, le potenziali svolte future. Ogni giorno devo inventarmi attività per occupare il tempo, devo diventare – senza esserlo davvero – maestra, mamma, cuoca, animatrice, allenatrice, compagna di classe, poliziotta, parrucchiera, donna delle pulizie; devo pensare a cosa leggere insieme, quale dettato fare, che tabellina studiare e che esperimento provare; devo tranquillizzare questa piccola Anima senza minimizzare troppo, devo spiegare senza creare pregiudizi – perché già ci pensa la televisione ad attaccare e trovare capri espiatori ogni giorno – che la situazione è grave ma ne usciremo. La gente muore ma stiamo cercando una cura, siamo chiuse in casa ma il sole splende e fa crescere le prime margherite e violette che, per una volta, non saranno subito calpestate e potranno abbellire un po’ il quadro che vediamo dalla finestra. Cuciniamo insieme per imparare la (eco)sostenibilità, guardiamo nuovi film per fingere di essere al cinema, dipingiamo per affinare la manualità in modo divertente, riordiniamo per prenderci cura di noi stesse – perché l’ordine esteriore si rifletterà in un ordine più sottile, interiore, di sentimenti e idee…e ora ce n’è davvero tanto bisogno.

Poi litighiamo, ci scontriamo, ci arrabbiamo, perché come sardine in scatola siamo costrette a condividere un piccolo spazio, perché la convivenza non è facile, perché ognuno vive bene nella propria quotidianità solo grazie alla possibilità di ritagliarsi degli spazi ‘per sé’, che vanno poi a bilanciare e riequilibrare la vita familiare. E così è questa la mia preoccupazione: da un lato l’istruzione, che ne risentirà senza dubbio soprattutto ai più bassi livelli di scuola, dall’altro lato lo sviluppo di un’intelligenza emotiva, l’espressione di emozioni, preoccupazioni e idee, l’esorcizzazione ‘del mostro’ per non creare una fobia ma lasciare solo un’importante lezione di vita. E allora ecco che, forse, questo senza-tempo monotematico non è poi così insensato. Mi dico, mi dicono, che deve servire ad altro.

La primavera che sboccia “scalda – scrivo sempre a quella Cara persona – prova a scongelare gli animi ancora intorpiditi, metabolismi bloccati in sculture di ghiaccio, pensieri incupiti. Ci mostra la via verso la nuova luce, da guardare con riconoscenza e speranza, per avere un nuovo atteggiamento da mostrare al mondo quando la guerra sarà finita.

E sconfiggere il virus sarà aver vinto una battaglia, quel che determinerà se la guerra sarà vinta o persa, sarà ciò che rimane in e attorno a noi. Cosa avremo imparato, come ci saremo evoluti, su cosa decideremo di concentrarci, se sul nettare della vita o sulla polvere che lo nasconde”. Il momento va sfruttato, con i bambini così come con gli adulti, per portare un diverso insegnamento, per far riflettere e lasciare che ognuno trovi il modo di ‘tirarsi fuori’. Ora, che siamo in una fase di transizione tra un prima e un dopo diversi tra loro, imparare ad esprimersi, a concretizzare la propria sensibilità, imparare ad amare, a lavorare per la collettività è di vitale importanza.

Perché torneremo a vivere, torneremo ad avere una routine diversa da quella di letto-frigo-compiti-divano-cartoni, inizieremo a ricostruire una normalità con nuovi princìpi e nuovi valori e sarà allora che si vedranno i frutti di questa guerra, quali fiori sbocceranno. Verrà poi il momento di fare i conti con la politica, con l’Europa, con le persone che ci hanno abbandonato, con quelle riscoperte e i nuovi arrivi. Verrà il momento di fare un nuovo bilancio delle aspettative, togliere qualche impegno e dedicare qualche caffè in più agli amici o – se non si può – dedicare loro un saluto, una buona notte inaspettata, un pensiero sincero.

Verrà infine il momento, in cui tutto questo sarà passato, ma avremo imparato a guardarci dentro e allora saremo più forti, osserveremo le cicatrici nell’Anima e sapremo cosa fare, riconsidereremo le nostre paure. In fondo i delfini sono tornati, le acque si stanno ripulendo, le lepri invadono i parchi pubblici, lo smog si dissolve, la terra si riappropria della propria salute, con forza, per sopravvivere. E da qui in poi dovremo imparare a fare lo stesso: perseguendo ciò che ci fa stare bene, che ci fa andare avanti, aggrappandoci alle speranze, sorridendo alla vita e combattendo per migliorare tutto il possibile, in noi e fuori.

Lucrezia

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