Maria Rosaria – Simone de Beauvoir e l’essenza del Noi

Care sorelle,

oggi ho letto un articolo su Repubblica dal titolo “Educatori scolastici enorme ingiustizia”, in cui si racconta la storia di un‘educatrice “arrabbiata contro chi si fa gioco delle sue competenze”.

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Giustamente l’educatrice spiega come la chiusura delle scuole per emergenza coronavirus, ci abbia esposto all’incertezza salariale. A oggi, infatti, non sappiamo se saremo pagate. In questo periodo di quarantena, sto rileggendo “il secondo sesso” di Simone de Beauvoir e mi rotola in testa una frase: “economicamente uomini e donne costituiscono quasi due caste”.

Solitamente gli uomini hanno salari più elevati e, guarda caso, le professioni in cui vi è una maggiore presenza femminile vengono sottopagate. A naso, credo che questo sia il caso dell’educativa scolastica. Gli educatori uomini sono una minoranza e credo che questo dato non sia da sottovalutare. Noi donne siamo, o veniamo considerate, procacciatrici di secondo reddito. Costituiamo inoltre un esercito di lavoratrici più funzionali di qualsiasi altro lavoratore.

Chiediamoci come mai la sempre più facile espulsione delle donne nel mondo del lavoro non provochi particolari contestazioni. Forse perché le donne non vengono mai considerate come una massa di pure e semplici disoccupate? Secondo una logica sessista e patriarcale (mi fa una certa impressione usare ancora queste espressioni nel 2020, ma tant’è) c’è pur sempre un lavoro di cura a casa ad aspettarle. Ebbene, mi son chiesta, oltre a questa macroriflessione, che cosa posso fare io, educatrice donna? Non sarebbe male, per esempio, iniziare a organizzarsi come lavoratrici partendo magari da un gesto semplice: iscriversi al sindacato. Io l’ho fatto, perché sono convinta che la lamentazione solitaria sia funzionale al sistema. Certo non basta fare la tessera, ma da qualche parte bisogna pur iniziare.

Lo so, vi sono oggi altre questioni, come quelle legate all’angoscia e alla fatica di un pensiero razionale, perché la paura bussa forte, e quei colpi li percepisci chiari e netti. Mi consigliate di descriverli, narrarli, ma io mi sono sempre definita una lacrima solitaria che ha un certo pudore nella condivisione delle proprie intime sofferenze. Lo so è un limite. Posso dirvi però che io guardo la tristezza negli occhi, ma poi irriverente mi giro e rivolgo lo sguardo in qualche luogo immaginario, oppure pianifico il da farsi cercando la risposta anche sui libri. Pagine di letteratura, pagine di saggistica, pagine di filosofia. 

A proposito di ciò, mi viene in mente il mito della caverna di Platone, ambientato però in questo silenzioso 2020. La specie umana è ritornata (o forse non vi è mai uscita, ma così rischio di divagare, perciò lasciamo stare) nella caverna, un rifugio, una sorta di ritiro temporaneo dalle loro attività predatorie. Tra chi si rifugia, però, vi è anche il predatore dei piccoli predatori che se ne sta accucciato nel suo nascondiglio e sta già pensando a come fare razzie anche in questa circostanza.

Uno scenario che fa ben poco sperare, tuttavia, essendo un’utopista instancabile, compare in questa visione apocalittica, quella di una donna che, salendo a fatica, s’incammina verso l’uscita. I suoi occhi contemplano il tutto, il buio, la luce, il fuori e il dentro, l’essenza del NOI.

Adesso torniamo al qui e ora, alla quotidianità delle nostre esistenze in quarantena, cose più spicciole, nessun “mondo delle idee”. Le vostre nipotine mi hanno chiesto di partecipare al flashmob col quale si chiedeva ai cittadini di imbracciare il proprio strumento, affacciarsi alla finestra e suonare. La più piccola delle vostre nipoti che, al contrario di me, non ha vergogna alcuna nel manifestarsi, ha voluto poi che la sua esibizione fosse postata su un social. Voi lo sapete quanto io sia antiquata, mi sembrava una modalità un po’ frivola. La furbetta però ha insistito, dicendomi che fuori c’era un silenzio spettrale e che voleva con il suo sax far vibrare nell’aria le note di “Over the Rainbow”, condividendola con gli altri. Ebbene, mi sono arresa e ho pensato: “da qualche parte bisogna pure iniziare”.

Maria Rosaria

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