Matilde – Nel “niente” (ritrovando un noi)

Relazioni. Reciprocità. Scambio.

Credo che queste siano le parole che utilizzo di più nella mia quotidianità: nella vita privata così come in quella professionale, il mio sforzo è sempre quello di cercare relazioni, connessioni, scambio e arricchimento reciproco, con uno sguardo vigile e al contempo affascinato sul contesto in cui siamo immersi costantemente, volenti o nolenti.

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Poi arriva Covid, mi piace chiamarlo così, quasi come fosse un mio conoscente stretto, tanta è l’astinenza di contatto che mi va bene considerare mio amico persino questo virus. E Covid ha deciso che dovrò cambiare per un po’ le mie parole preferite. Già, perché da una settimana buona, ormai, siamo confinati nelle nostre case, soli o nella migliore delle ipotesi con i nostri familiari. Che poi, “migliore delle ipotesi”, è relativo, perché questa necessità stringente di vivere improvvisamente una dimensione familiare full immersion, a tuttotondo, chi l’ha mai espressa? Siamo onesti. Poco importa dei desideri e dei progetti che avevamo fino ad una settimana fa: è arrivato Covid. “Che sarà mai? Questione di resistere”, dico. Sarà vero?

Covid ci mette di fronte ad una scelta forzata: la solitudine. Un isolamento coatto che diventa ben presto alienazione. “Fate esercizio in casa, leggete un buon libro, cucinate un buon piatto, guardate un film”, ci dicono. Ma davvero abbiamo bisogno di tutto questo tempo per fare queste attività? Sarà che io cucino tutti i giorni piatti buoni (più o meno); che prima di dormire leggo qualche pagina, perlopiù libri utili per la mia professione, è vero, ma non posso farci niente se mi piacciono quelli; che di esercizio ne faccio sempre piuttosto poco, e sicuramente non da sola, non in casa, non parlando con uno schermo su cui un’attraente ragazza scolpita come non sarò mai mi incita a non mollare proprio ora -e se volessi mollare?-; che di film ne guardo talmente tanti che a volte ho il dubbio che siano loro a guardare me. Davvero dobbiamo aspettare di essere di fronte al “niente” per fare qualcosa per noi stessi?

Ci invitano sempre di più a mantenere la nostra routine per mantenere la calma in questa situazione caotica. Una routine in cui il più delle volte, per sentirci liberi dobbiamo programmare lo “sgarro” dalla tabella di marcia, cosicché alla fine persino lo sgarro è controllato. Per dirla in altre parole, per sentirci liberi dal programma, dobbiamo programmare la nostra libertà. Non so se ridere o piangere di questo assurdo paradosso. A questo servono le tabelle di marcia, a darci l’effimera illusione di non perderci mai. E alla fine ci si ritorcono contro come boomerang taglienti, quando scopriamo di non essere infallibili.

Ma davvero le solite routine ci aiutano? Seriamente, qualcuno sta davvero mantenendo una qualche parvenza di sanità mentale grazie alla sua tabella di marcia? Intorno a me sento solo dubbi, paura, tristezza, giustamente, aggiungo. Nessuno mi dice: “Ah che bello, per fortuna ho mantenuto la mia solita routine, come sto bene!”. A chi vogliamo darla a bere, nel migliore dei casi lavoriamo da casa, nel peggiore nemmeno quello, alle 18.00 aspettiamo tutti il bollettino della Protezione Civile come l’aggiornamento di Radio Londra durante la guerra, facciamo la conta dei nuovi casi, deceduti, guariti, ricoverati, in quarantena, di più o di meno rispetto a ieri? E il picco? La mia regione a che punto è? Le mascherine e il gel? E le Partite Iva? Oddio, ho tossito, aspetta, vado a misurarmi la febbre, non si sa mai… Questa è la vera routine adesso. E riesce difficile pretendere che non lo sia. Siamo esseri umani. Sforzarsi a tutti i costi di mantenere uno schema che funzionava (forse) prima di questa situazione, significa rifiutarsi di capire che la situazione è profondamente mutata. E capisco quanto sia difficile, io stessa sono in difficoltà: siamo refrattari a qualsiasi tipo di cambiamento, perché non sembra possibile, è assurdo essere stati catapultati in una dimensione apocalittica nel giro di una manciata di ore.

A questo punto, io credo che potremmo anche concederci di perderci, di mollare. Ma perderci ci terrorizza.

Covid ci fa tanta paura anche per questo, perché ci sentiamo persi: vorremmo conoscerlo, sapere come si muove, sapere che intenzioni ha, così da programmare le sue mosse, anticiparlo, controllarlo, sconfiggerlo grazie a protocolli standardizzati, leggi organiche e curve matematiche. Ma la natura non funziona così, la natura ha le proprie leggi, e non è detto che queste siano sempre così chiare all’uomo, perlomeno all’inizio. Chissà se ci toglieremo mai questa illusione di onniscienza, di infallibilità e di onnipotenza (spoiler: no, mai.). Non poter sapere, non poter controllare, questo ci fa davvero impazzire.

“Che fai oggi?”, “Niente.”, “Ma come niente?”. Come se “niente” fosse peccato mortale. Nella mia esperienza, quando ho programmato per filo e per segno come condurre una giornata, mi sono sempre disattesa, quando non ho programmato niente, invece, sono riuscita a combinare un sacco di cose, con mia grande sorpresa. Mi sono data la libertà di “non fare”, scoprendo la naturale bellezza del “fare”.  Riscoprire la lentezza, il bello del “niente”, questo ci riesce difficile, è la cosa più faticosa e sfibrante di questo isolamento, tanto che non ce la facciamo, dobbiamo per forza fare qualcosa, anziché stare a perdere tempo.

Ma ho detto “niente”, non “vuoto”: quanto bello potrebbe esserci dentro quel “niente”? Con quante cose potremmo riempirlo?

Sono una psicologa, amo il contatto umano, stringere mani, incrociare sguardi, accogliere in abbracci struggenti, piangere senza pudore e lasciarmi andare a risate sguaiate. Forse non è la definizione accademica di ciò che faccio, ma è sicuramente quella umana. E umano è il calore che mi circonda quando lavoro, e mi anima e mi nutre ogni giorno in una professione che scopro in ogni momento tanto difficile quanto sorprendente e appagante. La quarantena ha portato il freddo relazionale, il distacco. Perché quella distanza interpersonale di sicurezza è solo un metro tra due corpi, ma inspiegabilmente apre voragini profonde, crea vuoti incolmabili, le mani non si possono più stringere, gli occhi si velano di tristezza, gli abbracci diventano tutti virtuali, e ognuno di noi inizia a scavare nei cassettini della propria memoria per scovare l’ultimo abbraccio che ha dato, perché lo abbiamo dato così per scontato? Quell’ultimo bacio, perché è stato così frettoloso? Tutto assume nuovi confini, nuove definizioni, nuovi significati, nuove sfaccettature. Muta il significato di vita e di morte; muta il significato del tempo, fatto di attimi probabilmente perduti per sempre; muta il significato del corpo, fatto di recettori tattili che ora sono inspiegabilmente avvolti dal torpore, stimolati solo dal contatto con superfici fredde e inanimate, prive di qualsiasi capacità di renderci un feedback. È una relazione a senso unico con un esterno inanimato, e questo decisamente non fa per noi.

Non potevo sopportare l’idea di non poter far niente – sopportare il “niente” è facile a dirsi, molto meno facile a farsi –  quindi ho attivato una linea di supporto telefonico gratuito, per offrire un filo a cui potesse appendersi chiunque dall’altro capo del telefono si sentisse perso in questa situazione. E si sono appese, con tutte le forze, moltissime persone che hanno trovato la forza di raccontarmi come stessero affrontando l’isolamento, con quali paure, quali risorse, quali speranze. È una settimana che mi nutro delle loro telefonate, mi ringraziano per l’aiuto che do loro senza chiedere niente in cambio, ma la verità è che io non so come ringraziare loro per quello che danno a me. Perché in tutta questa storia non ci sono i forti e i deboli, i vincitori e i vinti, gli esperti e gli ignoranti, i ricchi e i poveri. C’è un “noi” che probabilmente va riscoperto e coltivato, una comunità che lotta unita contro un unico nemico, Covid.

Nonostante tutte le mie tabelle di marcia di questi anni, non mi sono mai sentita così utile, impegnata, grata, responsabilizzata come in questo momento, quando le tabelle ho dovuto stracciarle tutte, e mi sono trovata di fronte al “niente”. Io l’ho riempito così, e spero che una volta passata la tempesta ci ricorderemo tutti di quanto ci siamo sforzati di creare relazioni nei modi più impensabili e ci siamo persino riusciti, di quanto ci siamo aiutati, supportati, di quanto ciascuno ha riempito il “niente” dell’altro, senza saperlo, senza volerlo, di quanto ci siamo amati anche se non potevamo più nemmeno toccarci. E alla fine, caro Covid, grazie, non avrei mai pensato di dirlo, ma grazie, perché mi hai fatto capire ancora di più che non cambierò mai le mie parole preferite:

Relazioni. Reciprocità. Scambio.

Matilde

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