Mondo digitale, parola alla psicologa Sonia Bertinat: «Il pericolo non è la tecnologia in sé ma l’uso che ne facciamo»

Tecnologia, progresso, rivoluzione digitale. Come potremmo vivere, ormai, senza il nostro smartphone a portata di mano, senza le indicazioni del miglior ristorante più vicino, senza notifiche e messaggi audio? Ormai la tecnologia fa parte della nostra esistenza, e c’è anche chi parla di “uomo tecnocratico”. Ma quanto impatta la nostra vita e la nostra psiche? Come possiamo utilizzarla consapevolmente e positivamente senza rischiare che prenda il sopravvento su di noi?

Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Sonia Bertinat. Psicologa Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico, da anni si occupa di dipendenze da sostanza e comportamentali, di tematiche LGBT e dell’impatto delle nuove tecnologie sulla vita intrapsichica e relazionale delle persone. Ne parla approfonditamente sul suo blog, Identità in Gabbia, e in questa intervista.

Da un articolo del suo blog, leggiamo: “La meccanica, la tecnologia, ci è oggi indispensabile. Le teorie di riferimento sono indispensabili. Ma è solo quando attuiamo un vero contatto umano che mettiamo al primo posto la persona e a beneficiarne sarà anche lo strumento”. Quindi, come possiamo fare in modo che la tecnologia sia un ausilio positivo dell’essere umano e non, al contrario, sovrasti l’individuo?

«Viviamo in un mondo in cui è arduo sottrarsi all’uso della tecnologia. Permea le nostre vite come mai avremmo immaginato vent’anni fa. Hanno agevolato la nostra vita in modo incredibile fornendoci strumenti potentissimi. Hanno un fascino irresistibile perché grazie ad esse abbiamo accesso a molte informazioni in tempo zero e possiamo connetterci con il mondo ad ogni ora. Come ogni ausilio però dobbiamo mantenere non solo il controllo da esse ma anche l’autonomia da esse: sapere come fare senza, per dire. Non delegare totalmente alla tecnologia la gestione della nostra vita affinché la nostra vita non dipenda da essa.

Faccio un esempio laterale. E’ come se pensassimo di non poterci muovere perché l’auto non parte. E’ un paragone forzato sicuramente ma tutti abbiamo provato il senso di spaesamento quando non abbiamo una connessione o manca l’elettricità o la batteria dello smartphone segna un pericoloso 1%. Mantenere il know- how, il saper fare senza, affinché la tecnologia sia un’utile aiuto ma non un sostituto alle nostre vite. Un uso umano della tecnologia intende proprio questo: usarla per migliorare le nostre vite e le nostre relazioni e non delegando la nostra vita ad essa».  

Ci sono dei rischi, a livello cognitivo, per la sovraesposizione alla tecnologia, soprattutto pensando ai bambini e quindi a chi sta ancora formando la propria psiche?  

«Gli esiti cognitivi li abbiamo sperimentati tutti. Abbiamo molta meno memoria di 20 anni fa quando ricordavamo molte più cose di adesso; cose che ora affidiamo alle memorie di smartphone e pc ad esempio. La memorizzazione è resa non indispensabile nel momento in cui posso recuperare una informazione in pochissimo tempo, posso raggiungere la destinazione senza far ricorso al mio senso di orientamento grazie ad una mappa digitale.

Anche il ragionare sulle cose può essere aggirato dalla possibilità di ottenere una risposta rapida con una ricerca di pochi secondi.

Questo non sarebbe dannoso di per sé nel momento in cui potessimo sempre contare su questi hard disk esterni del nostro cervello: ma se vengono a mancare, come dicevo prima, non possiamo rimanere inermi.

Noi adulti rischiamo di perdere l’allenamento mentale nel fare le cose ma in casi di necessità li recuperiamo.

Nei bambini il rischio è che non si allenino i processi di know-how e di memorizzazione che permettono l’apprendimento e lo sviluppo corretto delle funzioni mentali, rischiando di renderli molto più dipendenti dalla tecnologia.

E’ come se noi adulti avessimo un Sistema Operativo con programmi funzionanti che in parte deleghiamo all’esterno. Nei bambini il rischio è che quei programmi non si installino e rimangano installati all’esterno».

Si sente di dare dei consigli ai genitori? Come e quanto permettere ai propri figli di entrare a contatto con la tecnologia? 

«E’ impossibile oggigiorno impedire che i bambini e ragazzi entrino in contatto con la tecnologia. Da quando nascono la sperimentano in casa o osservando i genitori. Non è quindi tanto un “quanto” ma un “come”. L’approccio deve essere il più possibile consapevole, e lo deve essere nei genitori in primis. Stimolare la riflessione sul perché usiamo un qualcosa e sul perché ci è utile permette di capire come interviene nella nostra vita e quali funzioni va a sostituire.

Il pericolo non è la tecnologia in sé, questo lo dico sempre e ci tengo a ribadirlo, ma l’uso che ne facciamo ed il ruolo che ha nella nostra vita.

Ai genitori quindi consiglio innanzitutto di auto osservare il loro rapporto con la tecnologia così da essere consapevoli del suo uso per poterne trasmettere il senso ai loro figli.

L’uso di alcuni dispositivi poi dovrebbe seguire le età di sviluppo cognitivo che permetta di capire cosa si sta facendo. Molti di noi da piccoli hanno provato l’ebbrezza di tenere il volante e “guidare” nel vialetto di casa in braccio a un genitore, ma nessun genitore metterebbe alla guida da solo un bambino.

L’ebbrezza e la curiosità va accompagnata, guidata e supervisionata instillando fin nei più piccoli un corretto uso dei mezzi tecnologici.

Se sono gli adulti stessi che sottovalutano effetti, rischi e potere della tecnologia, difficilmente daranno una buona educazione digitale ai figli.

Sulle app relazionali, i social, poi, ci sono dei limiti di età fissati per legge sia per una questione di privacy e di gestione dei dati sia per i rischi che i bambini possono correre con esse. Gli stessi videogiochi, utilissimi per sviluppare abilità oltre che come mezzo ludico, devono essere adatti all’età del bambino o adolescente che deve essere in grado di capirlo e non esserne turbato.

Non lasceremmo i bambini in giro per strada a incontrare sconosciuti o realtà molto diverse da loro; ma li possiamo accompagnare tenendoli per mano, spiegando loro cosa stanno incontrando e cosa evitare».

Parlando invece di terza età, spesso si associa questa fase della vita alla solitudine. Potrebbe aiutare, in questo, la tecnologia? 

«Per quanto riguarda la terza età di sicuro la tecnologia può essere di aiuto sotto vari aspetti.
Per quanto riguarda la solitudine e la difficoltà di movimento di sicuro la tecnologia può permettere un contatto col mondo e con la rete sociale che aiuti a sentirsi parte e non esclusi. Il poter per esempio mantenere un contatto costante con figli e nipoti che vivono lontano con le videochiamate o seguendo i social.

Ma anche mantenere rapporti, o ritrovare rapporti, con persone importanti del passato perse di vista per l’impossibilità di vedersi di persona.

Un altro aspetto importante è il discorso della tecnologia come supporto alla qualità della vita, alla memoria e alle abilità motorie. Molto si sta facendo, ad esempio, nella riabilitazione delle demenze con l’uso della realtà virtuale che permette di stimolare le aree cerebrali ad esempio motorie senza il rischio di farlo nella vita reale».

Nelle dipendenze in generale, quanto è importante l’elemento di fuga dalla realtà e la voglia di evadere? Nella dipendenza da tecnologia si ritrova questo elemento in maggior misura rispetto alle altre dipendenze?

«Tengo a precisare che non esiste una dipendenza da tecnologia a livello di disturbo unico con riconoscimento scientifico. Lo stesso DSM (Manuale statistico diagnostico dei disturbi mentali) non è riuscito a trovare un consenso unanime per la Internet Addiction.

Questo perché, a differenza delle dipendenze classiche, non è la tecnologia a creare dipendenza ma le cose che facciamo attraverso essa. E sono tantissime. Una persona che perde il senso del tempo con la pornografia online ha le stesse caratteristiche di chi perde il controllo col gioco online?

La voglia di evadere, di fuggire la realtà si può attuare in tanti modi. Le cose che posso incontrare con la tecnologia sono uno di questi ma non è la tecnologia a rendermi dipendente.

Quando abbiamo un disagio forte, un vuoto incolmabile siamo più vulnerabili ad incontrare qualcosa che ci dia sollievo, ci riempia. Ma è a quel disagio, a quel vuoto che dobbiamo prestare attenzione e non tanto a ciò che lo riempie e lo allevia.

Lo svago, il gioco, il divertimento sono modi in cui da sempre l’essere umano evade dalla realtà. Il perché ho bisogno di evadere fa la differenza e sta a monte del modo in cui lo realizzo.

Per i ragazzi inoltre il concetto è ancora diverso. Noi adulti (dai 35/40 anni in su) spesso viviamo ad esempio il virtuale, il digitale come un mondo altro e di conseguenza come potenziale rifugio. I ragazzi, nati immersi in questo mondo, non ne vedono le differenze da quello che noi chiamiamo reale e interagiscono online come fanno online considerandoli solo strumenti diversi per lo stesso scopo: mantenere le relazioni coi pari.

Un ragazzo che, per esempio, apparentemente sembra avere un problema con la tecnologia è un ragazzo che cerca altre vie per relazionarsi o trovare altri spazi di relazione quando il suo mondo sociale “offline” diventa ostile come nei casi di bullismo».

C’è una correlazione tra dipendenza da tecnologia e gioco d’azzardo online? Si influenza a vicenda? 

«Partendo da quanto detto prima, e cioè che scientificamente non si possa parlare di dipendenza da tecnologia, no.

Diciamo che una correlazione può essere data dal fatto che se si sta molto connessi si ha più possibilità di incappare in pubblicità di siti di gioco online.

Il disturbo da gioco d’azzardo ad oggi è l’unica dipendenza comportamentale riconosciuta dal DSM. Ma non varia nel suo uso online o offline per caratteristiche ed esiti.

Il gioco online può essere più pericoloso solo perché presente h24, accessibile in ogni momento da smartphone e avvicinabile senza che gli altri ci vedano giocare. Il fatto che il denaro sia virtuale può poi accrescere il rischio di eccedere perché non dobbiamo andare al bancomat per ritirare quando finiscono i soldi e non abbiamo il contatto fisico con i soldi. Inoltre il giocare a casa propria riduce la possibilità di interrompere il gioco come nell’offline (ad esempio perché il bar chiude) e la possibilità di interrompersi dà la possibilità di riprendere il controllo».

Quanto i social media rappresentano una volontà di mascherare la propria identità? Quanto esprimono invece il bisogno di egocentrismo di ciascuno di noi?

«I social possono avere due effetti totalmente differenti: mascherare o sentirsi più liberi. 

Chi sente la necessità di mascherarsi, fingersi altro da sé, inventarsi un personaggio, se non lo fa per meri intenti fraudolenti, può farli per una insoddisfazione, una mancanza di autostima che lo porta a non presentarsi per come è.

Ma spesso, l’assenza del contatto fisico (per certi versi una pecca di tutto ciò che è virtuale perché toglie dalla relazione molti canali sensoriali) può risultare liberatorio per alcune persone, soprattutto ragazzi, che riescono così ad esprimersi più genuinamente di quanto farebbero nella realtà offline.

C’è poi per gli adulti il rischio legato, come detto sopra, a considerare virtuale e offline come mondi separati che non hanno effetti gli uni sugli altri. Lo vediamo spesso sui social dove le persone adulte si permettono con tanto di nome e cognome azioni verbali che magari nella vita offline non oserebbero mai fare, come se nel virtuale ci fosse una sorta di impunibilità. Ma anche in questo caso la domanda è: il virtuale mi trasforma o mi fa vedere per quello che sono quando non percepisco le regole del vivere civile vincolanti?

La visibilità (traduco così il termine egocentrismo) è un grosso piatto sul quale poniamo molte questioni legate ai social. L’essere visibili può diventare l’unico modo di sentirsi esistere e si rischia di esacerbare questo bisogno.

Per i ragazzi la visibilità invece diventa più un qualcosa che fa parte della costruzione della loro identità: che avvenga online o offline non differisce molto.

Quello che conta, per un approccio sano, è quello di mantenere legate tutte le parti che mettiamo in gioco nella vita offline o online, far sì che si possano sperimentare per conoscerci meglio, per renderci più completi e non per spezzettare la nostra identità fino a non sapere più chi siamo. Anche le maschere possono essere utili se ci permettono di conoscere e conoscerci meglio. Se invece perdiamo il controllo sulla maschera che usiamo rischiamo di consumarci un po’ come succede a Dart Vader».

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