Moreno Di Rocco, italiano di etnia rom: una laurea per uscire dal buio ed essere esempio di luce

Studiare per riscattarsi. Studiare per essere un modello. Studiare perché “la sapienza è l’unico modo per uscire da determinati contesti”. Cambiare vita è possibile, anche se i tuoi primi anni li hai vissuti in una roulotte. Togliersi lo stigma di dosso di una società che non va mai troppo a fondo, pure. Se ci metti determinazione e sacrificio.

E così Moreno Di Rocco – il nostro intervistato, un fiero italiano di etnia rom – ha fatto il possibile per guadagnarsi ciò che per molti è scontato: il rispetto e l’equilibrio. Laureatosi in farmacia, oggi lavora in De Cecco, è volontario del Banco Alimentare e insegna pugilato a tutti coloro che hanno bisogno di sfogarsi e condividere emozioni. Perché l’empatia è un’altra sua carta forte.

Chi è Moreno Di Rocco?

«Moreno Di Rocco è un italiano di etnia rom che, dopo tanti anni di sacrifici, è riuscito a farsi conoscere per quello che è in realtà: un italiano di etnia rom e una brava persona. Tutti i giorni dimostro di esserlo, sia a me stesso che agli altri».

Com’è stata la tua infanzia?

«Ho vissuto i primi 7 anni della mia vita in roulotte. Mia madre era giovanissima, aveva 15 anni quando sono nato. Mio padre, Guido Di Rocco, italiano di etnia rom, era un ex pugile professionista, è stato campione italiano e lavorava spesso nei locali notturni.

I miei genitori si sono separati presto, io avevo circa 4 anni. Sono cresciuto nel quartiere di San Donato a Pescara e non con poche difficoltà. Mia madre faceva le domande per la casa popolare e non poteva far sapere che era l’ex moglie di mio padre. Questo a causa di pregiudizi verso l’etnia rom. Così alcune richieste sparivano nel nulla e non si sapeva che fine facessero.

Per quanto riguarda il lavoro, lo stesso. Per mia madre è stata dura. Faceva pulizie nelle case di signore benestanti e aveva sempre questo “timbro” addosso. Lo stesso è successo a me a scuola: alcuni insegnanti che dicevano che io sarei diventato delinquente solo perché ero un po’ più vivace degli altri ragazzi.

Nessuno scommetteva su di me. Mi vedevano vivace e giocherellone e non capivano che quella vivacità era un modo per chiedere delle carezze. Ma ho avuto anche degli insegnanti che riuscivano a farmi stare calmo facendomi delle carezze o facendomi dei complimenti, mi mettevano così in “imbarazzo” ed emergeva la mia timidezza.

A 10 anni è iniziato il mio cambiamento, sono cambiato di colpo. Mi sono reso conto che i pregiudizi degli altri erano sempre presenti verso di me. Succedeva pure con le prime ragazzine, alcune erano attratte per il fatto che io fossi “diverso”, altre invece scappavano. Lo stesso per quanto riguarda i miei coetanei: “Quello è zingaro”, dicevano sempre.

Però, dalla la mia fisionomia non “sembravo” rom, questo perché ho preso molti tratti somatici da mia madre. Così, quando davanti a me parlavano male dei rom e poi scoprivano la mia etnia, venivano a chiedermi scusa: “Allora ci sono anche quelli bravi”, mi dicevano. Inizialmente ci stavo male, un po’ perché mi vergognavo, un po’ perché da ragazzino cerchi carezze, affetto e “conferme” dalla società».

Quindi nascondevi la tua etnia?

«Sì, a causa dei pregiudizi degli altri. Ma sono andato avanti e sono cambiato.

Sono contrario sia alla violenza che al non lavoro. Il lavoro è fondamentale. Mio padre ha avuto dei problemi di giustizia ma sia lui che mia madre mi hanno sempre insegnato l’educazione.

Crescendo ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Farmacia, questo anche perché dovevo dimostrare qualcosa in più alla società. Avevo capito anche che, per uscire da determinati contesti, dovevi essere sapiente, dovevi mettere la sapienza davanti a tutto e alzare il livello culturale. Ci sono riuscito anche se con tante difficoltà.

Nascendo in un quartiere così non si ha la possibilità di fare l’università, i soldi non ci sono. Così di notte facevo le consegne del pane, di giorno andavo in università e alla sera giocavo a calcio per pagarmi l’università. Ho investito i miei 20 anni nello studio, avevo le forze per farlo. Organizzavo anche serate di pugilato, davo una mano a mio padre in palestra e da allora sono volontario del Banco Alimentare. Sono anche un cristiano professante».

Cosa ha significato per te l’istruzione?

«Studiare per me ha significato uscire da un determinato contesto. Dovevo vedere la luce nel buio del quartiere e della città. Tanti ragazzi come me non hanno la forza per fare ciò che ho fatto io, anche se ormai non siamo più eccezioni. Considera che a Pescara esiste la comunità rom testimoni di Geova, a volte fanno anche discorsi in lingua romanì. Questo per dire che il livello culturale si sta alzano in ogni ambito.

Ho studiato sia per me che per i miei fratelli e sorelle. Sono il più grande di tutti loro e volevo che loro avessero un riferimento: “Se c’è riuscito Moreno ci posso riuscire pure io”. Volevo mostrare loro che era possibile e come poterlo fare.

È vero anche che, nei casi di difficoltà, non ho mai avuto paura e vergogna di chiedere una mano. Non è semplice, a volte la timidezza è una fragilità. Normalmente si cerca di proteggere la tua fragilità perché le persone “cattive” possono approfittarsene. Una persona buona, invece, capisce e fonde la tua fragilità con la sua e così si crea un rapporto vero e autentico.

Per quanto riguarda il lavoro, sono stato sempre un lavoratore. Ho fatto un sacco di lavori: consegne del pane, cameriere, barman, animatore, realizzazione eventi. Dal 2012 al 2015 ho iniziato a lavorare in De Cecco, prima al confezionamento e successivamente al controllo qualità. Dopo 4 anni sono andato via e, dopo circa due anni, sono stato richiamato e reintegrato in azienda: mi rivolevano in azienda perché sapevano che ero una persona preparata e responsabile».

Moreno Di Rocco, italiano di etnia rom, farmacista, De Cecco

Possiamo dire che il tuo percorso professionale è stato un riscatto verso lo stigma che la società impone sulle persone di etnia rom…

«Sì, ma non sono capace di dare una definizione. Non posso dire “ho vinto”. Lo fa chi è una persona orgogliosa e vuole predominare, così mette davanti il proprio ego. Per me invece è stata una conferma di ciò che io pensavo e di ciò che tante persone pensavano di me.

Ora devo pensare a mantenere la mia stabilità morale e lavorativa. Poi voglio essere riferimento per tante persone che, come me, soffrono. Il sabato mattina faccio lezioni di pugilato a persone che hanno crisi esistenziali: rabbia implosa, mancanza di autostima, aggressività repressa. Visto che sono una persona molto empatica riesco a lavorare bene con loro. La condivisione aiuta a crescere: loro aiutano me e io aiuto loro».

Cos’è per te la vita?

«Posso dire che sono felice. La vita è questa, se non passi per la sofferenza non raggiungi mai la gioia, altrimenti è tutta illusione. Se sei sofferente è solo vittimismo, se sei sempre felice significa che si pazz. Allora raggiungi la gioia dopo la sofferenza.

Mi sono liberato completamente qualche anno fa. Fui chiamato in televisione a Quinta Colonna dopo la morte di Vittorio Casamonica perché mia nonna era una Casamonica. In quell’occasione mi sono mostrato per ciò che ero: io sono questo, parte del mio sangue è così e mi dovete accettare per ciò che sono. So che posso andare in giro a testa alta perché sono una persona onesta. Con tutti i miei limiti e difetti ma sono una persona pulita».

Subisci ancora discriminazioni dopo il tuo “riscatto”? Nascondi di essere di etnia rom?

«No, oggi sono libero. Quando mi presento alle persone dico subito: “Sono un italiano di etnia rom”. Metto subito le mai avanti così do la possibilità di scegliere. Lo stesso anche a livello lavorativo, tutti mi rispettano per ciò che sono. Tutti sanno chi sono, sanno tutto. Non ho problemi con gli altri e non sento più il peso addosso della discriminazione. La sentivo da ragazzino, oggi non più. Il peso addosso lo puoi sentire quando ti comporti male.

Quando parlano degli zingari che spacciano, chiedo la differenza tra chi vende droga e chi la compra: il rapporto è uno a uno. E poi mi rivolgo alle amministrazioni comunali: come si può pensare di superare l’emarginazione collocando tutte le persone disagiate nelle case popolari, tutte insieme? Bisognerebbe essere tutti nello stesso contesto: condividere la vita al fianco di chi vive esperienze di vita positiva per trarne del positivo. Altrimenti per te la normalità è l’emarginazione e hai solo esempi negativi al tuo fianco».

Moreno nel futuro? Sogni da realizzare?

«Vivo alla giornata, parlo in termini di Fede. C’è chi ha già deciso per me. Quindi vivo ciò che la vita mi propone. Vivo, non sopravvivo».

Per chiudere, la tua canzone preferita?

«Te ne dico più di una. Quella che mi rappresenta è “Lo zingaro felice” di Alex Britti perché parla della libertà e semplicità di un ragazzo di 30 anni. Mi ricorda una fase particolare della mia vita quando stavo raggiungendo la laurea.

L’altra canzone è “Una carezza in un pugno” di Celentano, la canto sempre al Karaoke. Infine Lucio Dalla, “L’anno che verrà”, è bella e nostalgica perché mi ricorda un caro amico che ora è in Australia, è una canzone che dedico a lui, Davide».

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