Isabel – Caro compagno di quarantena…

Caro compagno di quarantena,

Benvenuto a pranzo da me. Questo invito è perché noi italiani non amiamo pranzare da soli. Dall’estero questa nostra tradizione è percepita da tutti e alcuni la trovano insolita.

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Sì, perché in quel momento parliamo, condividiamo e, spesso, ci ritroviamo a parlare di cibo anche mentre stiamo mangiando. L’Italia infatti io la associo al pranzo della domenica, allo stare in famiglia e al sole. Lo so che mancano solo pizza e mandolino per completare il quadro, ma quando si diventa sensibili ci si rifugia anche in questo!

Comunque, in questo pranzo voglio usare la più banale delle convenzioni della nostra lingua per chiederti: come stai? una volta ho letto che si chiede a qualcuno come sta per raccontargli come stiamo noi. Ma io desidero conoscere fino in fondo ciò che provi e, a differenza di come ti immagino so che se fossi una mamma l’ordine di priorità delle tue paure sarebbe diverso dal mio e, se fossi un adolescente “bloccato a casa” con i genitori, già posso pensare a quanto ti senti in trappola nella vita, figuriamoci ora. Se fossi un’anziana signora che aspetta i volontari per il cibo, ti direi: non sei sola, verranno! non preoccuparti che se proprio faccio un colpo di telefono. Oddio, chi mi conosce sa che il telefono mi mette ansia, quindi farei chiamare qualcun altro. Il punto è che penso a te, chiunque tu sia.

Con questo pranzo voglio invitarti a parlare delle tue emozioni, ma inizio dicendoti le mie. Solo perché in una conversazione qualcuno deve rompere il ghiaccio. E non è facile nemmeno per me.

Io sono divisa, una parte di me vorrebbe dirti: tutto bene! l’altra invece vorrebbe dire che no, non sto bene. Ho paura per tanti motivi, il virus risveglia in me vecchi ricordi della malattia, ha interrotto la mia routine, ha portato un cambiamento improvviso in una vita non molto movimentata, ha portato preoccupazione, ansia e incertezza per il futuro. In generale ho paura degli inizi e delle fini, ho paura per quanto riguarda le “cose grandi” di fare passi falsi negli ambiti: lavoro, famiglia, relazioni personali, futuro.

Queste parole buttate lì come un elenco a loro volta si rifanno a delle cose specifiche. Sembrano generali, ma sono le paure riferite alla vita di tutti i giorni e, sai una cosa? Non ho tempo nella vita di tutti i giorni di mettermi lì a pensare a queste paure. Non le affronto perché i passi si fanno uno alla volta, non si inizia la maratona senza aver mai fatto un giorno di allenamento. Ma ora che c’è tempo di pensarci, se me le tengo tutte dentro e non le dico a qualcuno, queste paure, rischio che diventino una montagna ingombrante di pensieri che nella mia testa seguono un ordine circolare.

Pensavo che nella gerarchia degli affetti alcuni fossero più in alto, per esempio, quando dico che “sono preoccupata per i miei nonni” anche se lo penso davvero, in realtà dentro di me vedo i volti di tutti i miei cari, non indistintamente ma uno per uno. La mia mente (o forse il mio cuore) è affollata da tante persone, ma ne ho invitata solo una a pranzo.

Forse voglio dire a me stessa che basta poco per non sentirsi soli e sapere di non esserlo. Di solito io convivo bene con la solitudine e non è dolore, ma ora il virus ha portato alla luce questa solitudine partecipata di tante persone che hanno bisogno di stare vicine e non possono. Forse dopo impareremo a usare con più cautela la frase: ti sono vicino con il pensiero.

La vicinanza, comunque, mi fa pensare a quelle domeniche di sole e a tutta la gente che si ammassa nei centri commerciali. Non mi sento di giudicare questa usanza che solo ora vedo chiaramente dall’altro lato della medaglia. Ci ammassiamo perché vedere facce, corpi, vestiti, cose, ci dà l’illusione di pienezza. E riempiamo non perché dentro siamo vuoti, ma al contrario tutti abbiamo dentro cose da dare, un mondo colorato, una vita intima che scorre.

E tra le mie più grandi paure – forse è anche la tua – c’è la condivisione di questa intimità. Siamo tanto bravi a pranzare insieme parlando del tempo che fa, del coronavirus, dei morti, dei bilanci, dei vivi, dei malati. Ma siamo sempre incapaci di esprimere le nostre emozioni facendolo a parole. Non è vero?

È un mondo confuso, quello delle emozioni. Ci orbitano dentro, ci dominano, ci trasportano e più cerchiamo di controllarle o lasciarle andare, più ci sembra che sfuggano. A me sfuggono sempre.

Quando le scrivo mi sembra di sigillarle e impacchettarle per qualcuno, ma se scrivessi solo di panico e angoscia forse non farei del bene. Il dialogo è spesso come un tango eseguito da due dilettanti, ma non per questo non bisogna ballare. Comunque, tu cosa stai facendo per arginare la crisi? una persona saggia mi ha dato l’idea che raccontare la quotidianità aiuti. Io non me la sento di raccontarti come scorre la mia giornata, ma dato che mi piace cucinare, come secondo ti chiedo quale sia il tuo piatto preferito. Facciamo che il vino lo porti tu. Ora però voglio anche dirti qualcosa che mi emoziona in positivo, sono brava in questo. Quando parlo della bellezza tento di trovare le parole migliori così che ti arrivi un riflesso di come la vedo. E mi chiederai, cosa cavolo vedi di bello in questi giorni? Allora, io personalmente vedo la possibilità di parlare con gli amici ed è come se il virus ci desse un pretesto per ritrovare quell’unione che a volte sento un po’ meno. Ora mi sento vicina, presente, unita ai miei amici, te compreso.

L’occasione di scrivere queste emozioni condivise è come far parte di un grande romanzo, fatto di tante case nelle quali scorrono tante vite e tanti pranzi. Di solito non si sa nulla di quelle vite, ma ora che sono in pericolo improvvisamente ci importa. Il lato positivo, se fossi ottimista, sarebbe la speranza che dopodomani ancora ci importerà.

Questo virus per me non è stato come un naufragio, ma nemmeno lo vivo come se fosse una cosa che appartiene al mondo degli altri, ho provato sulla pelle cosa significa avere una malattia che dalla notte al giorno ti porta in ospedale. Solitamente non tiro fuori quel ricordo perché lo temo, ma ora approfitto dell’occasione. Inizio con il confessare una cosa mai detta: mi piacciono i fruttini alla mela dell’ospedale. No dai, a parte gli scherzi, in questo preciso istante della mia vita in cui, proprio come te, sono chiusa in casa e potrei pensare al mare, all’estate e a cose belle, penso all’ospedale.

Penso alle infermiere e quanto le loro cure mi abbiano aiutato dentro. Ti vedono al tuo peggio, le infermiere: sfatto, brutto, malato e non pulito e il loro lavoro immane è quello di farti pensare che nonostante la malattia tu sei una persona. Quando penso alla cura, penso al sorriso di una donna sconosciuta che spunta per assicurarsi che io stia bene con un cenno del capo, un gesto frettoloso che sistema una coperta. Sono stata grata per quelle cure e tutta questa manfrina che forse non ti interessa è per dire a te e a me stessa, che la paura passa. Se basta un volto rassicurante e un contatto così distante a far passare la paura a me, forse oggi passa anche a te.

Non so, me lo auguro. Magari poi tu sei incazzato e stanco.

Siamo semplici dopotutto, ci bastano l’affetto, la serenità, la speranza e la salute per andare avanti. Questi sono i miei ingredienti e tu ne avrai degli altri, mi puoi mostrare la ricetta quando prenderemo il caffè. Che voglia di bermi un caffè in compagnia…

Te lo chiedo ancora, tu come stai? Dimmi qualcosa di vero però, qualcosa di te, qualcosa che mi sia di conforto, con cui identificarmi, qualcosa che mi dia fiducia e che sia resistenza, qualcosa di realistico, umoristico, affettuoso e semplice.

Ne ho bisogno. Tu?

Isabel

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