#WithRefugees, insieme ai rifugiati. Se “casa” è la bocca di uno squalo

Si dice che il pregiudizio non sopravviva alla prossimità. In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato e aderendo alla campagna #WithRefugees di UNHCR, abbiamo fatto per voi incursione in uno dei due centri di accoglienza SIPROIMI (ex SPRAR) gestiti dalla Cooperativa Sociale Intrecci a Varese. In essi può risiedere un massimo di 30 ospiti complessivi, uomini maggiorenni e singoli.

Tra un piatto di cous cous cucinato da noi e incredibilmente promosso a pieni voti, e una chiacchierata multilingue in giardino con alcuni dei ragazzi, abbiamo tentato di farla più concreta, quella prossimità, e di renderla fruibile anche a chi non avesse ancora avuto occasione di apprezzarla.

Ci permettiamo di chiedere ai lettori soltanto un piccolo esercizio di empatia (no, non è una parolaccia…): dopo essersi messi per qualche minuto nei panni e nello spirito di A., I., M. e Y., saranno i soli giudici del successo della nostra impresa.

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Volete raccontarci chi siete?

Y. – Sono Y., vengo dal Marocco. Ho 43 anni, sono sposato e ho due figli e una figlia. Sono direttore amministrativo di uno studio architettonico, ma adesso… non faccio niente.

I. – Sono I., la mia nazionalità è yemenita. Sono laureato in ingegneria informatica. Mi definirei come una persona disponibile. Adesso sto studiando la lingua italiana, che mi piace molto, in attesa di trovare un lavoro, in futuro. Mi piace nuotare, giocare a calcio e a scacchi. (Avendo conosciuto la sua intelligenza, non sorprende affatto sia uno scacchista, n.d.r.) Sono alto…

M. – “Sono un figo!”

Y. – “Contattatemi!”

(Ridiamo tutti.)

M. – Sono M., vengo dalla Siria e abito in Italia da quasi un anno. Ho 24 anni, non sono sposato. Aggiungete queste informazioni, ché non si sa mai! Adesso tocca a “Saddam, il Presidente”! (Mentre ridiamo di nuovo, sposta il registratore verso A.)

A. – Siete come Al Jazeera, dopo arriva la BBC! Mi chiamo A., vengo dall’Iraq e ho trent’anni. Non sono ancora sposato. Ho una grande famiglia in Iraq. In questo momento sto imparando a parlare italiano e sono qui da 8 mesi.

Perché avete lasciato il vostro Paese?

A. – Sono qui in Italia perché nel mio Paese, l’Iraq, c’è la guerra, non c’è sicurezza. Ci sono tanti problemi, come ad esempio il terrorismo.

I. – Adesso c’è una grande guerra anche in Yemen, e sono qui come rifugiato. Ho paura della guerra, ho visto tanti morti, anche qualcuno della mia famiglia.

(Capiterà anche in seguito: alcuni decidono di non rispondere per ragioni di sicurezza, n.d.r.)

Com’è stato il vostro viaggio?

Y. – Sono venuto in aereo grazie al visto, semplice. Sono arrivato in Italia e poi sono andato in Svezia perché ero malato. Un amico mi ha detto di andare da lui per curarmi. Dopo la Svezia, a causa degli accordi di Dublino, sono dovuto tornare in Italia perché avevo avuto il visto qui. Ho sofferto molto quando sono arrivato in Italia. È bene parlare sia delle cose positive che negative.

I. – Sono arrivato con il visto, sono stato anche in Finlandia quasi due mesi e poi sono dovuto tornare in Italia per rispettare la Convenzione di Dublino. Sono stupito, perché in Italia sto facendo una buona vita, e mi piace vivere qui. Finora non mi è capitato di incontrare particolari episodi di razzismo nei miei confronti, e ne sono felice.

M. – Dalla Siria sono arrivato in Egitto per via aerea, e da lì in Libia con i trafficanti. Ci sono rimasto un poco e avendo constatato che non era un posto sicuro sono dovuto scappare. Non potevo viaggiare in auto o aereo, così ho attraversato il mare diretto in Europa. Arrivato a Lampedusa ci sono restato per un mese; poi mi sono aggregato a un gruppo di altri Siriani, e dalla Sicilia abbiamo salutato il vostro Paese, diretti in Germania, dove siamo rimasti per 6/7 mesi prima di essere rimandati indietro in Italia (sempre secondo la Convenzione di Dublino, n.d.r.). Qui ho trovato una vita bellissima.

A. – Sono uscito dalla città di Mosul verso il Kurdistan con i trafficanti, e da lì ho ottenuto un passaggio legale via aeroporto per la Turchia. Sono rimasto lì per un mese e 11 giorni, poi mi sono imbarcato per l’Italia. Siamo stati in mare per 6 giorni, ed eravamo in 130 su un barcone. Sono arrivato in Italia a novembre 2016 e ci sono rimasto per 3 giorni; poi sono partito per la Germania dove sta parte della mia famiglia. Sono restato un anno e nove mesi, per poi essere rimandato in Italia per la legge europea sull’asilo.

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Che cosa non vi piace dell’Italia?

M. – Trovare un impiego è un po’ difficile, e anche avere una casa, perché senza contratto di lavoro non c’è tanta possibilità. Per noi arabi spesso c’è solo il lavoro in nero. Non è facile come per gli altri, perché quando arriviamo parliamo una lingua completamente diversa dall’italiano.

Y. – Ho trovato molte cose positive e negative. Essendo malato, appena arrivato in aeroporto, hanno chiamato le autorità che si occupano dei rifugiati. Sono arrivato il 6 marzo e il 7 marzo era già arrivato il dottore per me: ha fatto tutto quello che mi serviva, analisi etc. La cosa negativa è però il fatto che, sin dalla mia infanzia, avevo sentito solo parlare bene riguardo l’accoglienza degli Italiani, tutti dicono che l’Italia è meglio degli altri Stati europei. Appena arrivato invece ho percepito una differenza rispetto a quella che credevo fosse la mentalità italiana, ho visto e provato sulla mia pelle che c’è stato un cambiamento radicale, e questo non è positivo. Perché l’italiano è civilizzazione, storia dell’Europa intera. Ci sono tante persone che si impegnano per gli immigrati e sono molto accoglienti. Il lato umano degli Italiani è molto evidente rispetto a tutti gli altri popoli europei, e questo penso sia dovuto alla storia dell’Italia. Il razzismo non è compatibile con l’essere umano italiano. Inoltre il problema del lavoro in nero di cui parlava M. è una piaga per l’Italia. In Germania, in Svezia, in Danimarca, se qualcuno lavora in nero è catastrofico. In Italia invece un mio amico mi ha raccontato che lavora 8/9 ore al giorno ma il contratto è solo per 4 ore. Quindi ne lavora almeno 4 in nero. Gli hanno detto che se viene il controllo deve dire che ne lavora solo 4. Peccato che quando è arrivato il controllo lui abbia detto la verità e l’ispettore ha risposto: “Beh va bene, almeno tu hai un lavoro”. Come può dire così un uomo che rappresenta lo Stato? È schiavismo questo.

M., ci hai raccontato di esser passato per la Libia, che in Europa è spesso definita “porto sicuro”. Tu che cosa ne dici?

M. – Se non c’è governo o c’è la guerra è chiaro che non può esserci sicurezza, e ciò accade perché quando qualcuno commette un crimine nessuno lo contesta e interroga. Ho visto sia il bene che il male. Buone azioni di cui sono stato testimone sono per esempio derivate dalla solidarietà fra fratelli arabi e concittadini: ci si aiutava nelle situazioni disperate. Invece altri ti sfruttavano e basta. Ci sono alcuni Libici che mi hanno aiutato. Come in tutti i Paesi, esistono le buone e le cattive persone, solo che laggiù forse le cattive sembrano di più delle buone, e possono arrivare a usare il tuo sangue per guadagnarci col traffico di uomini. Ne ho passate tante prima di mettermi in mare, insomma. Posso aggiungere altro? (Gli rispondiamo che è libero di dire o non dire tutto quello che vuole.) Di questi tempi in Libia le persone oneste devono scappare dal Paese proprio come ho dovuto fare io, per cui non posso giudicare l’intera nazione: forse ci sono stato nel momento sbagliato, dato che c’era la guerra. La gente mi chiedeva perche volessi andare in un Paese in guerra: semplicemente non mi sarei mai aspettato una situazione del genere, dove alcune persone possono davvero vendere e comprare altre persone. Perfino alcuni Libici sono vittima di compravendita umana, da parte di alcuni loro compatrioti in combutta con i criminali che stanno sabotando il Paese. Così come altri hanno sabotato la Siria e l’Iraq. Per cui ovunque tu abbia trovato caos, troverai anche quel genere di persone.

Siete tutti musulmani. Che cos’è l’Islam per voi?

I. – Pace. Per noi non c’è alcun problema ad avere a che fare con i cristiani o con chi venera un altro Dio. Dobbiamo rapportarci come esseri umani, come fratelli in pace. Per questo diciamo “Salam Aleikun! La pace sia con te!” a mo’ di saluto. Il concetto più importante nell’Islam è la pace. Non deve esistere terrorismo: gli islamici veri sono contro la violenza di ogni genere.

A. – Sono d’accordo con I.: Islam è pace. E in Italia posso andare in moschea, posso dire che sono musulmano senza problemi, o almeno a me non è capitato di incontrarne.

M. – La parola “Islam” ha la stessa radice della parola “salam”, pace. Ciò significa che è vietato rubare, uccidere o commettere qualunque crimine. Quello che ho imparato dalla mia stessa religione è che non importa a quale classe o gruppo tu appartenga. Perché il mio Paese è multietnico e poli-confessionale, eppure siamo tutti cresciuti insieme senza far caso alla fede gli uni degli altri. Che fossimo musulmani o cristiani o atei, non ci prestavamo attenzione: tutto ciò che ci importava era la legge di non nuocere agli altri e di portare soccorso a chi ne avesse bisogno. E anche di contrastare le sedizioni, come quelle di coloro che si definiscono musulmani ma hanno distrutto l’immagine dell’Islam. Quello non è Islam, quelle persone non lo rappresentano, perché la dottrina non ordina di andare in altri Paesi a uccidere innocenti, donne, bambini. Nemmeno una piccola formica! La religione mi proibisce di uccidere una formica, figuriamoci un altro essere umano. Quelle persone sono apparse proprio quando è esploso il caos in Siria: per me non sono veri musulmani, i veri musulmani possono vivere ovunque e aiutare chiunque.

Y. – L’Islam è inteso in modo differente. Il Medio Oriente è diverso dal Nord Africa. A parte la Libia, l’Islam in Nord Africa è vissuto più liberamente. Abbiamo un solo filone di Islam, i sunniti. Il Marocco è aperto: puoi andare in chiesa, al bar, in discoteca. Ci sono tante discoteche quante moschee. E c’è anche la prostituzione, le banche con gli interessi… cose che la religione non accetta. Per me la religione, in generale, è paragonabile all’equilibrio psichico. Come qualcuno che vive con malessere e va a bere un bicchiere per stare meglio. Ecco, la religione è così per me. Oggi i giovani che vivono la religione con estremismo lo fanno perché non l’hanno studiata bene. La religione è equilibrio, sostegno mentale. L’Islam è una religione modesta, e il profeta Maometto non ha mai detto di uccidere qualcuno. Ha detto che l’anima è molto cara a Dio. Per me è la politica che fa male alla religione, in generale. È un problema culturale.

Cosa vi piace dell’Italia? Cosa volete per il vostro futuro?

Chi avete lasciato dei vostri cari nel Paese da cui venite?

M. – Ho lasciato la mia famiglia da quasi nove anni. I miei fratelli, dopo essere passati dal Libano, sono andati in Turchia, e sono lì da quasi 4 anni. Io sono qui da quasi un anno, con mio fratello.

Y. – In Marocco distinguiamo la famiglia grande e quella piccola, la propria. Mio padre è morto, restano mia mamma e 7 fratelli (3 maschi e 4 femmine). Tutti sono sposati tranne la minore. Il mio fratello più grande ha un figlio e una figlia. Io sono sposato e ho lasciato in Marocco mia moglie con 3 figli, due maschi e una femmina. 13 anni, 10 anni e 5 anni. Mia moglie è una dentista. Io sono stato obbligato a lasciare il Marocco.

A. – Parte della mia famiglia è rimasta in Iraq, papà e mamma con 2 sorelle e 2 fratelli. La vita è difficile perché non c’è sicurezza. E io non posso tornare per questo motivo. Ho due fratelli più grandi che sono in Germania da 20 anni, e un altro più piccolo che è lì da 10.

Riuscite a comunicare con loro? Vi aiuta la tecnologia?

A. – Sì, grazie agli smartphone e alle app come WhatsApp riesco a comunicare con la Germania e perfino con la mia famiglia in Iraq. È l’unico modo per avere notizie gli uni degli altri e tenersi in contatto anche con le persone con cui lavoriamo e che ci aiutano.

Come vi trovate nel centro di Varese dove vivete?

I. – Mi trovo bene. Elena, Umberto e gli altri operatori sono gentilissimi, e con gli altri ospiti vivo bene.

M. – Ho fatto amicizia con il custode, che parla arabo e ci aiuta moltissimo, e anche con l’altro custode, Alberto, che è sempre buono con noi. Alessandro, Luca, Elena, Umberto: gli operatori sono tutti bravi. C’è anche una suora stupenda, che mi vuole bene. Anche i volontari, Federica, Gessica, Gian Paolo, che ci insegnano la lingua, sono fantastici. Sono amico anche di Alì, un “paperone” come noi…

A. – Sono in questa bella cooperativa dall’1 aprile 2019. Mi trovo benissimo con Elena, Luca, Alessandro, con Gessica e Federica che ci aiutano con la lingua italiana, e con gli altri volontari. Si mangia molto bene, e Varese è una città che mi piace, dove ho incontrato tante belle persone.

Y. – Dal mio arrivo qui – 1 mese e 8 giorni – posso dire che faccio paragoni ogni giorno con la situazione precedente. Qui c’è Elena che lavora davvero bene, lo dico senza complimenti. L’unica cosa migliorabile sarebbe il cibo, ma in generale, comunque, va tutto bene. I miei compagni sono davvero brave persone. Mi fa piacere essere qui.

Noi invece i complimenti a Elena Pastorino li facciamo di cuore, e ringraziamo la Cooperativa Sociale Intrecci e i suoi ospiti del SIPROIMI per averci aperto le porte con generosità e attenzione.

Che cosa scegliete, quindi, lettori? Pregiudizio o prossimità?

Intanto, buona Giornata Mondiale del Rifugiato ai nostri A., I., M. e Y., e a tutti quanti.

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[Sguardi di Confine would like to thank Nada Elnitaifa Kurmino for the translations from Arabic.]

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