In questo periodo di grande incertezza, tutti noi proviamo delle forti emozioni, ma a volte non sappiamo come comunicarle. A volte la vergogna ci blocca. Altre volte nascondiamo a noi stessi di provare nuovi sentimenti. E pensiamo di essere gli unici spaesati o impauriti. Così, noi di Sguardi di Confine abbiamo pensato di lanciare un’iniziativa che possa dare a tutti la possibilità di condividere, distanti ma vicini, i propri pensieri più intimi. Con “Uno Scambio di Sguardi”, proponiamo a tutti i nostri lettori di scrivere una lettera a un “compagno di quarantena”. Sarà un modo, lento e meditato, attraverso il quale poter rielaborare le proprie emozioni, mettendole “nero su bianco”, per effettuare ciò che noi abbiamo affettuosamente chiamato, appunto, uno “scambio di sguardi”. Sguardi che però sono emozioni. Non solo quelle negative, panico, angoscia, ansia, paura, ma tutta la gamma è chiamata in causa. E i benefici in questo gesto terapeutico della scrittura sono tanti: sentirci vicini ora che siamo lontani; condividere con qualcuno, in uno spazio protetto, le emozioni che proviamo; identificarci con le paure altrui per sentirci meno soli; prendersi del tempo per metterle in forma scritta e “rallentare” il pensiero, rallentando così anche le emozioni; trovare qualcuno che ci ascolti e ci legga.
Dato che ormai la routine è interrotta, facciamo insieme qualcosa di straordinario. Diamoci una briciola di speranza e positività a vicenda.
Se vuoi partecipare, prima leggi le parole di qualcun altro, giusto perché il confronto con almeno un’altra persona ti permetterà di gestire meglio le tue emozioni. Se sei sopraffatto, sfogare solo negatività, per un’altra persona che legge può essere deleterio. Quindi misura, dosa, calibra le tue parole e fallo con l’affetto che riserveresti al tuo migliore amico. Ci vuole tatto per stabilire un contatto. Puoi scrivere ciò che vuoi, ma lo scopo è quello di prendere qualcosa di negativo e controbilanciarlo con qualcosa di positivo. Trova almeno una briciola di bellezza per ogni paura che hai, questo il consiglio che sentiamo di dare. Poi, scrivi ciò che vuoi e noi di Sguardi di Confine ti leggiamo volentieri, ti ascoltiamo e così come con le nostre interviste, diamo voce a te. Il motto di Sguardi di Confine è “dove il sentiero è tortuoso e la via non è ancora tracciata”. Il sentiero di questi giorni è in salita, non lo si può negare, ma insieme possiamo tracciare una via di parole per salutarci. Salutare veramente.
Invia la tua lettera a redazione@sguardidiconfine.com e indicaci se vuoi mantenere l’anonimato oppure no. Condividi il tuo #scambiodisguardi con noi
14 Marzo 2020
Ho paura. Ho paura davvero.
Mi spaventa questo silenzio: non sentire le risate dei bambini che aspettano l’autobus a due passi dalla mia finestra e ancor più non sapere quando mi succederà di riascoltarle.
La mattina, ho ben presente il rumore delle automobili che si mettono in moto nel mio quartiere e che partono verso uffici, supermercati, scuole… Ormai sento il frusciare delle ruote sull’asfalto un paio di volte al giorno.
Queste giornate sembrano post-apocalittiche e non passano mai.
Non che prima chissà che vita movimentata facessi, mi si potrebbe obiettare, ed è vero. Ma quella che avevo sottovalutato era la mia libertà di rintanarmi dentro la mia camera a studiare, leggere e guardare serie tv.
Ora tale condizione non dipende più da me.
E mi spaventa non sapere quando finirà.
Se c’è una cosa che più di tutte mi tormenta, è proprio questa, infatti: il non avere tutto sotto controllo.
Immaginate gli attimi di panico che può vivere una persona che non sa quando potrà tornare al cinema, a sfogliare un libro, sentendo il profumo delle pagine prima di acquistarlo, a mangiare una pizza con le amiche… No, non certo per queste cose in sé, sia chiaro: sarebbe davvero da insensibili lamentarsi per una serata priva di svaghi, e, come ho detto, magari l’ultima volta che sono andata al cinema o in pizzeria risale a mesi fa, a ben prima dell’emergenza causata da questo virus maledetto.
Però godevo della pace interiore di sapere che tutto era lì, a disposizione.
E mentre egoisticamente penso a me, che sto perdendo la certezza di poter decidere di andare o meno a mangiare un cornetto e bere un cappuccino, immediatamente mi viene alla mente chi sta perdendo anche le certezze economiche che derivano dal venderlo, quel cornetto e quel cappuccino.
Resto senza parole di fronte a questo caos, a questa incertezza.
Mi manca davvero il fiato, in alcuni momenti.
La mia mente, come una scheggia impazzita, nel frattempo, è già passata a pensare proprio all’emergenza sanitaria; al perché si è creata questa terribile condizione che sono ben contenta di vivere se penso alle conseguenze positive che avrà il mio rispettare le regole.
Quando finirà tutto questo? Ce la faranno i nostri ospedali? Che diranno stasera i dati del bollettino ufficiale? Chissà cosa devono provare i medici, gli infermieri, gli operatori socio sanitari che si trovano a dover fronteggiare una situazione così grande e inattesa. E se un domani…
L’ho detto: perdere il controllo delle cose mi atterrisce.
Sono pensieri che, sono convinta, appartengano un po’ a tutti noi che ci troviamo distanti anche di migliaia di chilometri.
Eppure… Eppure in queste mie apnee e in questi momenti di sconforto mi sto rendendo conto di tante cose che non sono affatto scontate, e che rappresentano la finestra da cui entra un raggio di luce che illumina la stanza in cui sono praticamente costretta.
Penso – partendo dalle cose più lontane da me – ai personaggi famosi italiani, che in gran numero stanno aderendo a iniziative volte a farci passare il tempo: fanno dirette sui social in cui chiacchierano, virtualmente, con noi supporters; realizzano operazioni di lettura condivisa, in cui chiedono agli utenti di interpretare un personaggio, e ci si vede, davanti a uno schermo, ogni sera pronti a recitare qualche opera teatrale; ci danno la possibilità di richiedere loro canzoni che, prontamente, suoneranno dal salotto; rendono gratuiti i loro film… è importante, in momenti come questi, una condivisione della normalità.
Si tratta di gesti che sto apprezzando molto, e certo non dimentico quello che è il bene più concreto e reale che stanno facendo, organizzando e pubblicizzando le donazioni agli ospedali italiani.
Continuo poi, pensando all’utilità del programma di solidarietà digitale, promosso da diverse aziende, o ancora al fondamentale aiuto che, notizia delle ultime ore, proviene dal rendere gratuito il medicinale contro l’artrite che sembra stia aiutando i casi più gravi: sarà così più semplice uscire dalla terapia intensiva.
Penso quindi a quelle cose che sono più vicine a me: io e le mie amiche, compagne di palestra, che decidiamo di allenarci in videochiamata, perché, nonostante tutto sia chiuso il nostro istruttore continua a fornirci delle schede di allenamento, e noi non rinunciamo alla normalità di iniziare una serie di flessioni tutte insieme (e nemmeno a quella di sapere che io, molto probabilmente, di flessioni ne farò un paio in meno).
Sono fortemente riconoscente per tutto questo.
Penso ai miei docenti universitari (e a tutti gli insegnanti) che non si sono persi d’animo e che stanno organizzando le loro lezioni, i ricevimenti e gli esami on-line per garantirci la possibilità di continuare a studiare e di rimanere in contatto con loro in caso di qualche dubbio.
Penso alle piattaforme social dove ci sono manifestazioni di affetto incredibili, e inviti alla partecipazione: giochi come “mostrami il tuo outfit da quarantena” dove si fa sfoggio di felpe che non vedevano la luce da anni, pantaloni di pigiami infilati nei calzini di spugna e pantofole di peluche o, più semplicemente, post a fine giornata per condividere la stessa raccontandosi cosa si è fatto, consigliandosi magari qualche libro da recuperare o film imperdibile.
Penso, personalmente, alla mia amica Giulia, che io, peraltro, conosco solo virtualmente, e che nonostante stia attraversando un periodo non propriamente semplice della sua vita, quando al telefono mi ha sentita preoccupata è stata pronta a tranquillizzarmi e a offrirmi un grande aiuto.
La gratitudine nei suoi confronti è immensa.
Penso alla splendida iniziativa di un’altra mia amica virtuale, Matilde, che è psicologa e che offre gratuitamente, rendendo disponibile la sua mail e il suo numero di telefono, supporto psicologico per chiunque dovesse averne bisogno in questo momento difficile.
E potrei andare avanti ancora per molto, perché tante sono le cose a me vicine che, nonostante questo periodo non sia certo il più roseo per il nostro paese intero, mi fanno sentire fortunata.
Lo avevo detto: è la luce di una galassia intera quella che entra dalla finestra.
Giulia
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13 Marzo 2020
Caro compagno di quarantena,
Benvenuto a pranzo da me. Questo invito è perché noi italiani non amiamo pranzare da soli. Dall’estero questa nostra tradizione è percepita da tutti e alcuni la trovano insolita.
Leggi di piùSì, perché in quel momento parliamo, condividiamo e, spesso, ci ritroviamo a parlare di cibo anche mentre stiamo mangiando. L’Italia infatti io la associo al pranzo della domenica, allo stare in famiglia e al sole. Lo so che mancano solo pizza e mandolino per completare il quadro, ma quando si diventa sensibili ci si rifugia anche in questo!
Comunque, in questo pranzo voglio usare la più banale delle convenzioni della nostra lingua per chiederti: come stai? una volta ho letto che si chiede a qualcuno come sta per raccontargli come stiamo noi. Ma io desidero conoscere fino in fondo ciò che provi e, a differenza di come ti immagino so che se fossi una mamma l’ordine di priorità delle tue paure sarebbe diverso dal mio e, se fossi un adolescente “bloccato a casa” con i genitori, già posso pensare a quanto ti senti in trappola nella vita, figuriamoci ora. Se fossi un’anziana signora che aspetta i volontari per il cibo, ti direi: non sei sola, verranno! non preoccuparti che se proprio faccio un colpo di telefono. Oddio, chi mi conosce sa che il telefono mi mette ansia, quindi farei chiamare qualcun altro. Il punto è che penso a te, chiunque tu sia.
Con questo pranzo voglio invitarti a parlare delle tue emozioni, ma inizio dicendoti le mie. Solo perché in una conversazione qualcuno deve rompere il ghiaccio. E non è facile nemmeno per me.
Io sono divisa, una parte di me vorrebbe dirti: tutto bene! l’altra invece vorrebbe dire che no, non sto bene. Ho paura per tanti motivi, il virus risveglia in me vecchi ricordi della malattia, ha interrotto la mia routine, ha portato un cambiamento improvviso in una vita non molto movimentata, ha portato preoccupazione, ansia e incertezza per il futuro. In generale ho paura degli inizi e delle fini, ho paura per quanto riguarda le “cose grandi” di fare passi falsi negli ambiti: lavoro, famiglia, relazioni personali, futuro.
Queste parole buttate lì come un elenco a loro volta si rifanno a delle cose specifiche. Sembrano generali, ma sono le paure riferite alla vita di tutti i giorni e, sai una cosa? Non ho tempo nella vita di tutti i giorni di mettermi lì a pensare a queste paure. Non le affronto perché i passi si fanno uno alla volta, non si inizia la maratona senza aver mai fatto un giorno di allenamento. Ma ora che c’è tempo di pensarci, se me le tengo tutte dentro e non le dico a qualcuno, queste paure, rischio che diventino una montagna ingombrante di pensieri che nella mia testa seguono un ordine circolare.
Pensavo che nella gerarchia degli affetti alcuni fossero più in alto, per esempio, quando dico che “sono preoccupata per i miei nonni” anche se lo penso davvero, in realtà dentro di me vedo i volti di tutti i miei cari, non indistintamente ma uno per uno. La mia mente (o forse il mio cuore) è affollata da tante persone, ma ne ho invitata solo una a pranzo.
Forse voglio dire a me stessa che basta poco per non sentirsi soli e sapere di non esserlo. Di solito io convivo bene con la solitudine e non è dolore, ma ora il virus ha portato alla luce questa solitudine partecipata di tante persone che hanno bisogno di stare vicine e non possono. Forse dopo impareremo a usare con più cautela la frase: ti sono vicino con il pensiero.
La vicinanza, comunque, mi fa pensare a quelle domeniche di sole e a tutta la gente che si ammassa nei centri commerciali. Non mi sento di giudicare questa usanza che solo ora vedo chiaramente dall’altro lato della medaglia. Ci ammassiamo perché vedere facce, corpi, vestiti, cose, ci dà l’illusione di pienezza. E riempiamo non perché dentro siamo vuoti, ma al contrario tutti abbiamo dentro cose da dare, un mondo colorato, una vita intima che scorre.
E tra le mie più grandi paure – forse è anche la tua – c’è la condivisione di questa intimità. Siamo tanto bravi a pranzare insieme parlando del tempo che fa, del coronavirus, dei morti, dei bilanci, dei vivi, dei malati. Ma siamo sempre incapaci di esprimere le nostre emozioni facendolo a parole. Non è vero?
È un mondo confuso, quello delle emozioni. Ci orbitano dentro, ci dominano, ci trasportano e più cerchiamo di controllarle o lasciarle andare, più ci sembra che sfuggano. A me sfuggono sempre.
Quando le scrivo mi sembra di sigillarle e impacchettarle per qualcuno, ma se scrivessi solo di panico e angoscia forse non farei del bene. Il dialogo è spesso come un tango eseguito da due dilettanti, ma non per questo non bisogna ballare. Comunque, tu cosa stai facendo per arginare la crisi? una persona saggia mi ha dato l’idea che raccontare la quotidianità aiuti. Io non me la sento di raccontarti come scorre la mia giornata, ma dato che mi piace cucinare, come secondo ti chiedo quale sia il tuo piatto preferito. Facciamo che il vino lo porti tu. Ora però voglio anche dirti qualcosa che mi emoziona in positivo, sono brava in questo. Quando parlo della bellezza tento di trovare le parole migliori così che ti arrivi un riflesso di come la vedo. E mi chiederai, cosa cavolo vedi di bello in questi giorni? Allora, io personalmente vedo la possibilità di parlare con gli amici ed è come se il virus ci desse un pretesto per ritrovare quell’unione che a volte sento un po’ meno. Ora mi sento vicina, presente, unita ai miei amici, te compreso.
L’occasione di scrivere queste emozioni condivise è come far parte di un grande romanzo, fatto di tante case nelle quali scorrono tante vite e tanti pranzi. Di solito non si sa nulla di quelle vite, ma ora che sono in pericolo improvvisamente ci importa. Il lato positivo, se fossi ottimista, sarebbe la speranza che dopodomani ancora ci importerà.
Questo virus per me non è stato come un naufragio, ma nemmeno lo vivo come se fosse una cosa che appartiene al mondo degli altri, ho provato sulla pelle cosa significa avere una malattia che dalla notte al giorno ti porta in ospedale. Solitamente non tiro fuori quel ricordo perché lo temo, ma ora approfitto dell’occasione. Inizio con il confessare una cosa mai detta: mi piacciono i fruttini alla mela dell’ospedale. No dai, a parte gli scherzi, in questo preciso istante della mia vita in cui, proprio come te, sono chiusa in casa e potrei pensare al mare, all’estate e a cose belle, penso all’ospedale.
Penso alle infermiere e quanto le loro cure mi abbiano aiutato dentro. Ti vedono al tuo peggio, le infermiere: sfatto, brutto, malato e non pulito e il loro lavoro immane è quello di farti pensare che nonostante la malattia tu sei una persona. Quando penso alla cura, penso al sorriso di una donna sconosciuta che spunta per assicurarsi che io stia bene con un cenno del capo, un gesto frettoloso che sistema una coperta. Sono stata grata per quelle cure e tutta questa manfrina che forse non ti interessa è per dire a te e a me stessa, che la paura passa. Se basta un volto rassicurante e un contatto così distante a far passare la paura a me, forse oggi passa anche a te.
Non so, me lo auguro. Magari poi tu sei incazzato e stanco.
Siamo semplici dopotutto, ci bastano l’affetto, la serenità, la speranza e la salute per andare avanti. Questi sono i miei ingredienti e tu ne avrai degli altri, mi puoi mostrare la ricetta quando prenderemo il caffè. Che voglia di bermi un caffè in compagnia…
Te lo chiedo ancora, tu come stai? Dimmi qualcosa di vero però, qualcosa di te, qualcosa che mi sia di conforto, con cui identificarmi, qualcosa che mi dia fiducia e che sia resistenza, qualcosa di realistico, umoristico, affettuoso e semplice.
Ne ho bisogno. Tu?
Isabel
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