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Scambio di Sguardi

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In questo periodo di grande incertezza, tutti noi proviamo delle forti emozioni, ma a volte non sappiamo come comunicarle. A volte la vergogna ci blocca. Altre volte nascondiamo a noi stessi di provare nuovi sentimenti. E pensiamo di essere gli unici spaesati o impauriti. Così, noi di Sguardi di Confine abbiamo pensato di lanciare un’iniziativa che possa dare a tutti la possibilità di condividere, distanti ma vicini, i propri pensieri più intimi. Con “Uno Scambio di Sguardi”, proponiamo a tutti i nostri lettori di scrivere una lettera a un “compagno di quarantena”. Sarà un modo, lento e meditato, attraverso il quale poter rielaborare le proprie emozioni, mettendole “nero su bianco”, per effettuare ciò che noi abbiamo affettuosamente chiamato, appunto, uno “scambio di sguardi”. Sguardi che però sono emozioni. Non solo quelle negative, panico, angoscia, ansia, paura, ma tutta la gamma è chiamata in causa. E i benefici in questo gesto terapeutico della scrittura sono tanti: sentirci vicini ora che siamo lontani; condividere con qualcuno, in uno spazio protetto, le emozioni che proviamo; identificarci con le paure altrui per sentirci meno soli; prendersi del tempo per metterle in forma scritta e “rallentare” il pensiero, rallentando così anche le emozioni; trovare qualcuno che ci ascolti e ci legga.

Dato che ormai la routine è interrotta, facciamo insieme qualcosa di straordinario. Diamoci una briciola di speranza e positività a vicenda.

Se vuoi partecipare, prima leggi le parole di qualcun altro, giusto perché il confronto con almeno un’altra persona ti permetterà di gestire meglio le tue emozioni. Se sei sopraffatto, sfogare solo negatività, per un’altra persona che legge può essere deleterio. Quindi misura, dosa, calibra le tue parole e fallo con l’affetto che riserveresti al tuo migliore amico. Ci vuole tatto per stabilire un contatto. Puoi scrivere ciò che vuoi, ma lo scopo è quello di prendere qualcosa di negativo e controbilanciarlo con qualcosa di positivo. Trova almeno una briciola di bellezza per ogni paura che hai, questo il consiglio che sentiamo di dare. Poi, scrivi ciò che vuoi e noi di Sguardi di Confine ti leggiamo volentieri, ti ascoltiamo e così come con le nostre interviste, diamo voce a te. Il motto di Sguardi di Confine è “dove il sentiero è tortuoso e la via non è ancora tracciata”. Il sentiero di questi giorni è in salita, non lo si può negare, ma insieme possiamo tracciare una via di parole per salutarci. Salutare veramente.

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Ecco le lettere dei nostri lettori

20 Marzo 2020

Ilaria – La mia famiglia nell’attesa

Ho iniziato questa lettera molte volte, e ad ogni inizio avevo in mente un argomento diverso di cui parlare. All’inizio ero concentrata su come sono cambiati i ritmi della mia vita. Ma in realtà ho scoperto che, in fondo, questo periodo di incertezza dopotutto è quasi l’estensione della mia forma mentis, perennemente indecisa sul da farsi, perennemente in fase embrionale.

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Io sono costantemente in attesa, progetto sempre di prepararmi per qualcosa di diverso. Mi conservo per un futuro ipotetico che poi non arriva mai, perché continuo a rimandare e rivoluzionare progetti, cambiamenti, decisioni per poi ritirarmi all’ultimo, quando effettivamente arriva il momento di agire. E questo perenne stato di attesa oggi è reale, condiviso da un numero indeterminato di persone, che, come me, attendono. Vivere nell’attesa, ora più che mai, mi sembra insopportabile. Leggere le parole degli altri mi ha però fatto sentire meno sola, meno in balia di me stessa e delle mie paranoie.

Per questo per iniziare – e finire – questa lettera ho rivolto lo sguardo fuori da me, per liberarmi da un’ansia patologica che mi impedisce di concludere qualunque cosa. Ho guardato mio fratello, mia madre e mio padre, con i quali sto condividendo questi momenti. Anche se a volte ci sono degli scontri, in questo istante c’è un’atmosfera pacifica.

Mio papà poco tempo fa era proprio qui davanti a me, seduto al tavolo, a leggere una vecchia rivista ripescata chissà dove. Lui non legge quasi mai. Non è proprio nelle sue corde prendersi un po’ di tempo e farsi compagnia con un libro. Eppure, qualche momento fa era lì, ad interessarsi di un vecchio articolo sui moti del ’68. Di solito cerca sempre qualcosa con cui impegnarsi perché in casa gira come un leone in gabbia. Da quando siamo costretti a casa ha sistemato mensole, ha fatto giardinaggio, ha messo a posto la mansarda, mi ha aiutata a ribaltare camera spostando armadio e librerie.

Io mi rendo conto che oggi è la festa del papà e non gli ho fatto niente. Ora lui e mia mamma sono in cucina, stanno cucinando il pranzo. Sarebbe più corretto dire che lei cucina e lui segue direttive, ma il punto è che osservandoli mi danno l’impressione di essere una giovane coppia che scopre il piacere di fare qualcosa insieme, e la mia presenza sembra quasi intrusiva.

Mio fratello, informatico, lavora da casa. Fa gli orari di ufficio, e, quando stacca, inizia puntuale il suono della sua chitarra elettrica, segno che ha finito e che si è svestito dei panni da impiegato per vestire quelli da musicista (metal). Quando lo sento so che sono le sei di sera, ha sostituito il ruolo delle campane della chiesa. Nel mettere a posto camera mia, sotto al letto, ieri ho trovato un tema che aveva scritto in prima media. Parla di noi, della nostra famiglia, e non ha escluso né cane né gatto.

In effetti, ci sono anche loro nel mio quadro: Diana, il mio cane, sonnecchia nel giardino, si gode i raggi di sole. Il mio gatto Sushi mi sta rivolgendo uno sguardo fisso e irritato perché tra poco è momento di pappa e nessuno lo sta considerando. C’è da dire che il tono tragicomico con il quale mio fratello ha descritto di ciascuno di noi nel suo tema è esemplare, di gran lunga migliore del mio. Probabilmente lo tirerò fuori stasera per leggerlo ad alta voce.

Mi rendo conto che questo momento di attesa ora mi ricorda più l’atmosfera dell’ultima vacanza che fai con la tua famiglia, consapevole che negli anni futuri probabilmente le vostre strade si separeranno, tuo fratello andrà in università in un’altra città, forse tu andrai a vivere da un’altra parte. Per ora, io ho concluso questa lettera proprio grazie a loro, che condividono l’attesa con me, un’attesa che solo all’inizio di questa lettera aveva un aspetto molto diverso.     

Ilaria

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20 Marzo 2020

Lidia – Cara Mariuccia…

Cara Mariuccia,

Stanotte la luna illumina lo specchio d’acqua del golfo di Genova; è uno spettacolo unico, il mare sembra ricoperto da una coltre d’argento, le montagne a picco sul mare tante enormi mani che vegliano sulle case.

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Eppure tutto è cambiato, noi siamo cambiate, Mariuccia: le strade sono vuote, le sirene delle ambulanze non si sentono più, i semafori regolano un traffico inesistente, niente pedoni che corrono prima che scatti il rosso, che poi si rischia di rimanere in mezzo alla strada. Neppure gli aerei volano più. Ricordi, Mariuccia, quando si vedevano imboccare il corridoio di discesa sul monte di Portofino e abbassare il muso lenti, prima di atterrare?

È un’atmosfera surreale che mi ricorda il ferragosto de “Il Sorpasso” quando Gassman incontra Trintignant, con le vie deserte e le botteghe serrate.

Sai, Mariuccia, non mi sembra vero che tutto ciò stia accadendo: fino a ieri tutte e tutti noi avevamo delle abitudini che sono state stravolte da un virus che si sta espandendo sempre più in tutto il mondo e sappiamo bene che nulla sarà più come prima e fatichiamo a restare a casa e a uscire solo per fare la spesa: «faccio un salto in farmacia, vai tu dal fruttivendolo? Mi raccomando, che la settimana scorsa ti ha dato due arance toccate!» Niente passeggiate, solo convivenza forzata con parenti che ora ci appaiono come mostri succhia energia.

Sai, Mariuccia, non so se vorrei che tu sapessi ciò che ti sto raccontando: perché dovresti starmi ad ascoltare? Inoltre, come potresti capirmi? Tu sei chiusa in casa da più di cinque anni, la luna non sai neppure cosa sia, il mare? Peggio che andar di notte. Neppure delle montagne ti ricordi, delle case, delle strade… Anzi, non ti rendi neppure conto di essere coricata su un letto attrezzato per l’handicap, di essere incontinente; solo quando la badante prova a farti il bagno ti ribelli e cominci a urlare «Aiuto! Aiutooo! Mi vogliono ammazzareee! Aiuto!»

La verità è, Mariuccia, che per te non cambia nulla, reclusa sei e reclusa rimarrai sino alla fine dei tuoi giorni; a ore prestabilite ti danno da mangiare, sei così affamata che rosicchieresti il cucchiaio, oggi pollo, domani gnocchi, poi c’è il dolce, quello più buono di tutti, il budino al cioccolato con l’amaretto dentro.

Mariuccia mia, mi sei tanto cara; quando hai cominciato ad accusare i primi sintomi di demenza senile, sei regredita a quella fase della vita che sta tra l’infanzia e la pubertà, quando non si sa se restare a casa a giocare o uscire con le amiche per fare lo struscio in Centro, quando la primavera squassa i sensi e si avverte quel certo non so che di cui ancora non si ha coscienza piena.

Hai cominciato a cantare quasi subito e non ti sei fermata più; hai tirato fuori tutto il repertorio delle canzoni d’amore e di lotta dei primi del Novecento e con una voce piena, modulata e ricca di gorgheggi, mi hai ricordato che il padrone sfrutterà sempre la manovalanza e che oggi è cambiato solo il modo di sfruttare le persone, ma il risultato sarà sempre lo stesso; nessun movimento politico muoverà mai un dito per tutelare i lavoratori e le lavoratrici, neppure quel Comunismo che illuse tante persone come te.

Ricordo che un giorno sei sfuggita al controllo della badante e hai cominciato a passeggiare per il pianerottolo e io, che ero appena uscita dall’ascensore, ho scambiato con te le poche parole che mi hanno fatto capire che eri già di un altro mondo, che le tue radici non esistevano più, che erano state estirpate da una fottuta malattia che brucia il cervello. Quando ti ho detto «Andiamo?» tu eri felice come una bimba alla quale sia stato promesso il gelato, ma non ti stavo portando in gelateria, stavo contribuendo a rimetterti in galera. Mariuccia bella, ti voglio ricordare com’eri quel giorno, che ora di sicuro avrai il viso stravolto dall’infermità.

Oggi le cose sono cambiate e tu non saprai mai quanto.

Mariuccia mia, non posso augurarti una lunga vita, altrimenti mentirei come fanno certi medici che sottolineano come la vita media in Italia si sia allungata, ma omettono di dire che non sempre quella vita è sana; che ce ne facciamo di vivere fino a 85 anni se siamo bloccate in un letto ad aspettare di morire, che vorremmo addormentarci e non risvegliarci più?

Cara Mariuccia, la tua tempra è forte, la tua volontà verrà meno solo con la morte, la tua voce accompagnerà ancora i miei pranzi e le mie cene, sia che tu canti “Sciur padrun da li beli braghi bianchi” o che ti ribelli perché non vuoi fare il bagno.

Nel frattempo io aspetto.

Si dice che ognuno di noi sia sempre in attesa di qualcosa: il tram, il treno, la persona amata alla fermata del bus, una carezza dai propri genitori, un lavoro migliore, la guarigione di qualcuno; io faccio la mia parte e sto alla finestra in attesa del ritorno a una normalità che non esiste più. Ci sarà chi morirà, chi rischierà la vita, chi farà la malattia senza neppure accorgersene e poi ci sei tu, Mariuccia bella, che l’attesa non sai neanche cosa sia, che non ti accorgi della differenza tra sonno e veglia, che sei regredita allo stadio larvale, che mi sei cara perché sei come sei. Ti vorrei abbracciare, ma non posso ed è come se lo avessi fatto.

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19 Marzo 2020

A. C. – Uno sguardo valso più di mille parole

La vita per strada non c’è più… Si sente un silenzio assordante, e ogni tanto sirene di ambulanze. Ad ogni sirena, un sussulto, immagino cosa sta succedendo, una famiglia disperata, la lotta contro il tempo… Dolore, speranza, rassegnazione.

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Non conosco la noia, è sempre stata la mia fortuna, sin da piccola. La mia creatività mi ha sempre fatto una piacevole compagnia. Sto studiando il linguaggio inglese nell’arte, la terminologia è infinita. Il tempo scorre, sono in contatto continuo con parenti e amici.

Ogni tanto mi affaccio alla finestra, ma non accade nulla. Tutto è fermo. Scorgo una vecchietta alla finestra di fronte, mi guarda, è spaventata, sembra una bambina, mi mostra nel suo sguardo tanta paura. Mi dice con gli occhi: “Cosa mi aspetta? Che cosa mi succedera?”.

Timidamente mi saluta con la mano. Le ho sorriso, e trasmesso con lo sguardo tutto l’amore e la forza che potevo, per dirle di stare tranquilla, che è tutto ok, che presto questo brutto film finirà. Uno sguardo che è durato qualche secondo, ma che come alcuni sguardi è valso più di mille parole.

A. C.

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19 Marzo 2020

Lino – Topolino e il Coronavirus

Forse ti starai chiedendo cosa c’entra il fumetto “Topolino” col coronavirus, e probabilmente penserai che sono uno dei tanti pazzi che popolano il web.

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Il morbo dilaga, c’è gente che si ammala, muore e tu pensi a Topolino?

Dammi solo un minuto e ti spiegherò tutto.

A cinque anni chiesi a mia madre di accompagnarmi all’edicola per comprare “Topolino”. Ero talmente innamorato dei personaggi Disney e delle loro storie che, finito di leggerle, non vedevo l’ora che uscisse il numero successivo, ma… dovevo aspettare ben 7 giorni, una settimana, un tempo che da bambino mi pareva infinito!

Non c’era niente da fare: Topolino non poteva uscire ogni giorno, ogni ora, o quando lo volevamo noi bambini. Topolino usciva quando voleva lui: solo di mercoledì.

Allora ero molto arrabbiato con Topolino, ma col tempo ho capito una cosa che ha completamente rivoluzionato il mio modo di vivere e di pensare. è questo il punto: il Coronavirus, che noi possiamo giustamente stramaledire per ciò che sta causando, forse ci sta suggerendo qualcosa che finora c’era sfuggita o che avevamo dimenticato: non siamo padroni di tutto, anzi non siamo padroni proprio di niente, che ci piaccia o no.

Il fatto che oggi si possa decidere di scegliere tra venti tipi di caffè diversi al bar, fra cento pizze con minuscole varianti, che si possa prenotare una vacanza alle Maldive e raggiungere il “paradiso” in giornata col nostro bell’aereo; che il corriere ci possa portare a casa, in sole 24 ore, qualsiasi oggetto utile o inutile che ci darà l’illusione di essere contenti… Ecco, questo ci aveva convinti che fossimo diventati padroni del tempo, dello spazio, di tutto ciò che volevamo, semplicemente in cambio di denaro. E più denaro si possedeva, più cose potevamo avere.

Invece, questo misero denaro, si è rivelato un pessimo maestro.

Il denaro E’ SOLO UN MEZZO, NON IL FINE e dovrebbe servire a migliorare la vita di TUTTE le persone, usandolo con coscienza. Per esempio investendolo nella ricerca, nella sanità, nell’educazione delle nuove generazioni e, permettetemi, nell’alfabetizzazione delle vecchie generazioni, troppo spesso rimbambite dai programmi di Maria De Filippi e Barbara D’Urso, tanto per citarne alcuni.

Ecco perché ringrazio mia madre per avermi accompagnato, in quel bellissimo pomeriggio d’estate, nell’edicola dove ancora grazie a Dio arriva Topolino, ma solo ogni mercoledì! 

Lino

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18 Marzo 2020

Marco – la solitudine di un canto prigioniero

Mi trovo per la prima volta solo davvero. Sono solo, in casa, la stufa che va, quel poco per mantenermi caldo almeno il corpo, perché l’anima è un po’ infreddolita.

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Già. Sono un musicista, una persona social ma sociale, bisognosa di contatti, di sguardi, di scambio vero, di abbracci e baci. Il mio sax mi osserva mentre scrivo tutto questo. Ma sono solo, chiuso nel mio eremo su tre piani che oggi faccio fatica a vivere a piano terra.

Sento il silenzio entrare dagli infissi un po’ logori, sento il profumo della primavera e lo sbattere d’ali degli uccelli. Fino a poco fa non sentivo nemmeno il loro canto. Che strano. Silenzio, strade vuote, poche e rade voci che subito attirano la mia attenzione: che cosa sta accadendo?

Poi torno al punto di partenza, seduto, il portatile acceso, musica amena, leggo i messaggi, i giornali poi le sirene di un’ambulanza mi destano e penso a chi stavolta sarà toccato. Sono consapevole di quello che succede negli ospedali perché conosco tanta gente che lì sta dando il meglio di sé.

E conoscevo anche molta gente che ora non c’è più: portata via in un lampo.
Io resto qui, solo, trincerato dietro le sbarre come un canarino senza voce, consapevole però che quando mi apriranno la gabbia, potrei non avere la forza di sopravvivere e caracollare disordinatamente verso la fine.

Solo, ma il silenzio è solo intorno perché dentro è un concerto di Wagner con l’orchestra al gran completo: la potenza dei fiati che dirompe verso l’esterno. Ma non c’è nessuno che può condividere con me quest’onda. C’è l’altra di onda, malefica, selettiva ma non troppo. Colpisce a caso e colpisce cattiva.

Mille domande senza risposta mentre la stufa accenna a spegnersi ed io voglio quel minimo di calore perlomeno sulla mia pelle. Per poter uscire da questa gabbia e cercare di stare sulle mie gambe da solo. Per poter riassaporare la vita che conoscevo prima anche se sarà tutto diverso, lo so. Cercheremo di essere noi stessi ma saremo diversi. E dubito saremo migliori.

Marco

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18 Marzo 2020

Giusy – Lettera a un medico

Carissima Maria,

ieri sera ho visto il viso di tanti tuoi colleghi segnato dalla fatica e dalle mascherine. Sono rimasta molto turbata, soprattutto quando una tua collega ha testimoniato di non riconoscersi più e di non riconoscere il suo reparto e tutti gli altri suoi compagni di lavoro.

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Non ho fatto altro che pensarti, sei così giovane, e già combatti in prima linea una guerra, il cui nemico non si riesce a debellare: nessun farmaco è ancora stato trovato per uccidere questo maledetto virus che si è appropriato della nostra vita.

Ho deciso di scriverti per dirti di non mollare, di non abbatterti, perché tanti hanno bisogno di te!

Ti ho vista crescere in saggezza ed altruismo, ecco perché hai scelto di diventare medico. Ti ho seguita nei tuoi viaggi in Africa e adesso… ecco qui la nostra Africa. L’Italia tutta è preda di questo nemico invisibile, assieme al mondo intero.

Le tue braccia, le tue mani, la tua mente, il tuo cuore servono qui ed ora. Questo ti dia il coraggio necessario ad andare avanti. So, conoscendoti, che presterai il tuo servizio con amore e abnegazione, ma so anche che sei molto provata e stanca.

Ricordi le nostre lunghe conversazioni sulla gratuità del servizio prestato agli altri? Tu, come me e meglio di me sai cosa implichi. Siamo tutti chiamati a far fruttare i nostri talenti ed il tuo, in questo preciso momento è di vitale importanza!

Pensa a quante vite puoi salvare ed anche se non avrai tempo per chiudere gli occhi e riposare, so che non abbandonerai il campo: ciascuno nasce con una sua eredità ricevuta gratuitamente ed è arrivato il momento di elargire questa eredità.

Ora fai un bel respiro e pensa all’Africa, dove i bambini nascono e muoiono per mancanza di cibo e di cure mediche. Pensa a quanto siamo stati fortunati, fino ad oggi, ad essere nati in un continente in cui non ci è mancato nulla, nemmeno la libertà di esprimere il nostro pensiero.

Oggi siamo messi alla prova, così ci sono stati tolti gli amici, i parenti e, soprattutto la libertà di muoverci. È come se questo virus agisse da tiranno e ci punisse di non aver compreso quanto ricchi eravamo prima della sua comparsa.

In casa siamo rimasti in tre, io mia figlia e la piccolina, che tu non conosci. Sapessi quanto è bella!

Ieri sono stata costretta ad uscire per andare a fare la spesa, dopo aver preso le dovute precauzioni. Tu non riconosci il tuo reparto, io non ho riconosciuto il supermercato in cui mi servo solitamente: molti scaffali erano vuoti, depredato quello del latte, così ho dovuto accontentarmi di ciò che era rimasto, poco e niente!

Siamo in guerra, ho pensato e, fino a quel momento, non avevo tenuto conto delle conseguenze materiali.

Il tiranno ride di noi, mentre viaggia per il mondo da una stazione all’altra, da un aeroporto all’altro. Pensavamo di avere in mano il mondo, ma oggi siamo costretti a fare un passo indietro, a rivedere tutta la nostra vita con le nostre abitudini.

Quando sono tornata a casa, ho cercato di mettere in pratica tutte le indicazioni che ci vengono date giornalmente, affinché si cerchi di limitare ogni possibile contagio.

Surreale, questa è la parola più appropriata. Tutto questo è surreale!

Ho aperto la porta del balcone dove le rose non tarderanno a sbocciare. La piccola fortunatamente non comprende. Gli asili sono stati chiusi e lei mi cerca in continuazione per giocare. Non capisce cosa stiamo vivendo; un giorno chissà se avrà qualche ricordo di queste giornate trascorse in casa.

Maria carissima, per tutti i bambini, per tutti coloro che sono stati affidati alle tue cure, ti chiedo di non mollare! Ce la farai e noi tutti ce la faremo e questa lunga notte sarà solo un brutto sogno.

Il nemico non sa che ci sono uomini e donne coraggiose, proprio come te, capaci di combattere fino all’ultimo respiro. Questo tiranno non sa che ci riprenderemo la nostra libertà, che torneremo ad abbracciarci e baciarci e, grazie a lui, lo faremo più forte e più a lungo, con maggiore consapevolezza.

Il suo piano fallirà davanti al nostro coraggio e alla nostra capacità di rialzarci, Si allontanerà sconfitto, perché credendo di farci male, in fondo ci renderà migliori.

Per questo, vicina a te, combatto la mia lotta quotidiana, senza alcuna paura.

Forza, Maria, CE LA FAREMO!

Ti abbraccio e ti stringo al mio cuore.

Giusy

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17 Marzo 2020

Matilde – Nel “niente” (ritrovando un noi)

Relazioni. Reciprocità. Scambio.

Credo che queste siano le parole che utilizzo di più nella mia quotidianità: nella vita privata così come in quella professionale, il mio sforzo è sempre quello di cercare relazioni, connessioni, scambio e arricchimento reciproco, con uno sguardo vigile e al contempo affascinato sul contesto in cui siamo immersi costantemente, volenti o nolenti.

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Poi arriva Covid, mi piace chiamarlo così, quasi come fosse un mio conoscente stretto, tanta è l’astinenza di contatto che mi va bene considerare mio amico persino questo virus. E Covid ha deciso che dovrò cambiare per un po’ le mie parole preferite. Già, perché da una settimana buona, ormai, siamo confinati nelle nostre case, soli o nella migliore delle ipotesi con i nostri familiari. Che poi, “migliore delle ipotesi”, è relativo, perché questa necessità stringente di vivere improvvisamente una dimensione familiare full immersion, a tuttotondo, chi l’ha mai espressa? Siamo onesti. Poco importa dei desideri e dei progetti che avevamo fino ad una settimana fa: è arrivato Covid. “Che sarà mai? Questione di resistere”, dico. Sarà vero?

Covid ci mette di fronte ad una scelta forzata: la solitudine. Un isolamento coatto che diventa ben presto alienazione. “Fate esercizio in casa, leggete un buon libro, cucinate un buon piatto, guardate un film”, ci dicono. Ma davvero abbiamo bisogno di tutto questo tempo per fare queste attività? Sarà che io cucino tutti i giorni piatti buoni (più o meno); che prima di dormire leggo qualche pagina, perlopiù libri utili per la mia professione, è vero, ma non posso farci niente se mi piacciono quelli; che di esercizio ne faccio sempre piuttosto poco, e sicuramente non da sola, non in casa, non parlando con uno schermo su cui un’attraente ragazza scolpita come non sarò mai mi incita a non mollare proprio ora -e se volessi mollare?-; che di film ne guardo talmente tanti che a volte ho il dubbio che siano loro a guardare me. Davvero dobbiamo aspettare di essere di fronte al “niente” per fare qualcosa per noi stessi?

Ci invitano sempre di più a mantenere la nostra routine per mantenere la calma in questa situazione caotica. Una routine in cui il più delle volte, per sentirci liberi dobbiamo programmare lo “sgarro” dalla tabella di marcia, cosicché alla fine persino lo sgarro è controllato. Per dirla in altre parole, per sentirci liberi dal programma, dobbiamo programmare la nostra libertà. Non so se ridere o piangere di questo assurdo paradosso. A questo servono le tabelle di marcia, a darci l’effimera illusione di non perderci mai. E alla fine ci si ritorcono contro come boomerang taglienti, quando scopriamo di non essere infallibili.

Ma davvero le solite routine ci aiutano? Seriamente, qualcuno sta davvero mantenendo una qualche parvenza di sanità mentale grazie alla sua tabella di marcia? Intorno a me sento solo dubbi, paura, tristezza, giustamente, aggiungo. Nessuno mi dice: “Ah che bello, per fortuna ho mantenuto la mia solita routine, come sto bene!”. A chi vogliamo darla a bere, nel migliore dei casi lavoriamo da casa, nel peggiore nemmeno quello, alle 18.00 aspettiamo tutti il bollettino della Protezione Civile come l’aggiornamento di Radio Londra durante la guerra, facciamo la conta dei nuovi casi, deceduti, guariti, ricoverati, in quarantena, di più o di meno rispetto a ieri? E il picco? La mia regione a che punto è? Le mascherine e il gel? E le Partite Iva? Oddio, ho tossito, aspetta, vado a misurarmi la febbre, non si sa mai… Questa è la vera routine adesso. E riesce difficile pretendere che non lo sia. Siamo esseri umani. Sforzarsi a tutti i costi di mantenere uno schema che funzionava (forse) prima di questa situazione, significa rifiutarsi di capire che la situazione è profondamente mutata. E capisco quanto sia difficile, io stessa sono in difficoltà: siamo refrattari a qualsiasi tipo di cambiamento, perché non sembra possibile, è assurdo essere stati catapultati in una dimensione apocalittica nel giro di una manciata di ore.

A questo punto, io credo che potremmo anche concederci di perderci, di mollare. Ma perderci ci terrorizza.

Covid ci fa tanta paura anche per questo, perché ci sentiamo persi: vorremmo conoscerlo, sapere come si muove, sapere che intenzioni ha, così da programmare le sue mosse, anticiparlo, controllarlo, sconfiggerlo grazie a protocolli standardizzati, leggi organiche e curve matematiche. Ma la natura non funziona così, la natura ha le proprie leggi, e non è detto che queste siano sempre così chiare all’uomo, perlomeno all’inizio. Chissà se ci toglieremo mai questa illusione di onniscienza, di infallibilità e di onnipotenza (spoiler: no, mai.). Non poter sapere, non poter controllare, questo ci fa davvero impazzire.

“Che fai oggi?”, “Niente.”, “Ma come niente?”. Come se “niente” fosse peccato mortale. Nella mia esperienza, quando ho programmato per filo e per segno come condurre una giornata, mi sono sempre disattesa, quando non ho programmato niente, invece, sono riuscita a combinare un sacco di cose, con mia grande sorpresa. Mi sono data la libertà di “non fare”, scoprendo la naturale bellezza del “fare”.  Riscoprire la lentezza, il bello del “niente”, questo ci riesce difficile, è la cosa più faticosa e sfibrante di questo isolamento, tanto che non ce la facciamo, dobbiamo per forza fare qualcosa, anziché stare a perdere tempo.

Ma ho detto “niente”, non “vuoto”: quanto bello potrebbe esserci dentro quel “niente”? Con quante cose potremmo riempirlo?

Sono una psicologa, amo il contatto umano, stringere mani, incrociare sguardi, accogliere in abbracci struggenti, piangere senza pudore e lasciarmi andare a risate sguaiate. Forse non è la definizione accademica di ciò che faccio, ma è sicuramente quella umana. E umano è il calore che mi circonda quando lavoro, e mi anima e mi nutre ogni giorno in una professione che scopro in ogni momento tanto difficile quanto sorprendente e appagante. La quarantena ha portato il freddo relazionale, il distacco. Perché quella distanza interpersonale di sicurezza è solo un metro tra due corpi, ma inspiegabilmente apre voragini profonde, crea vuoti incolmabili, le mani non si possono più stringere, gli occhi si velano di tristezza, gli abbracci diventano tutti virtuali, e ognuno di noi inizia a scavare nei cassettini della propria memoria per scovare l’ultimo abbraccio che ha dato, perché lo abbiamo dato così per scontato? Quell’ultimo bacio, perché è stato così frettoloso? Tutto assume nuovi confini, nuove definizioni, nuovi significati, nuove sfaccettature. Muta il significato di vita e di morte; muta il significato del tempo, fatto di attimi probabilmente perduti per sempre; muta il significato del corpo, fatto di recettori tattili che ora sono inspiegabilmente avvolti dal torpore, stimolati solo dal contatto con superfici fredde e inanimate, prive di qualsiasi capacità di renderci un feedback. È una relazione a senso unico con un esterno inanimato, e questo decisamente non fa per noi.

Non potevo sopportare l’idea di non poter far niente – sopportare il “niente” è facile a dirsi, molto meno facile a farsi –  quindi ho attivato una linea di supporto telefonico gratuito, per offrire un filo a cui potesse appendersi chiunque dall’altro capo del telefono si sentisse perso in questa situazione. E si sono appese, con tutte le forze, moltissime persone che hanno trovato la forza di raccontarmi come stessero affrontando l’isolamento, con quali paure, quali risorse, quali speranze. È una settimana che mi nutro delle loro telefonate, mi ringraziano per l’aiuto che do loro senza chiedere niente in cambio, ma la verità è che io non so come ringraziare loro per quello che danno a me. Perché in tutta questa storia non ci sono i forti e i deboli, i vincitori e i vinti, gli esperti e gli ignoranti, i ricchi e i poveri. C’è un “noi” che probabilmente va riscoperto e coltivato, una comunità che lotta unita contro un unico nemico, Covid.

Nonostante tutte le mie tabelle di marcia di questi anni, non mi sono mai sentita così utile, impegnata, grata, responsabilizzata come in questo momento, quando le tabelle ho dovuto stracciarle tutte, e mi sono trovata di fronte al “niente”. Io l’ho riempito così, e spero che una volta passata la tempesta ci ricorderemo tutti di quanto ci siamo sforzati di creare relazioni nei modi più impensabili e ci siamo persino riusciti, di quanto ci siamo aiutati, supportati, di quanto ciascuno ha riempito il “niente” dell’altro, senza saperlo, senza volerlo, di quanto ci siamo amati anche se non potevamo più nemmeno toccarci. E alla fine, caro Covid, grazie, non avrei mai pensato di dirlo, ma grazie, perché mi hai fatto capire ancora di più che non cambierò mai le mie parole preferite:

Relazioni. Reciprocità. Scambio.

Matilde

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17 Marzo 2020

Federica – Salvando un pezzettino di cuore di mio figlio

Sono le 2 di notte, piove. Sono nel letto e sento proprio l’acqua che scivola via, che lava, pulisce. Faccio fatica a riconoscere subito questo suono, mi devo concentrare, é da troppo tempo che non piove, che non scroscia. Appena metto tutto a fuoco sobbalzo.

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É fuori, appeso in balcone, tutto colorato, ricco di amore. É il cartellone di mio figlio, é l’arcobaleno di mio figlio che grida alle persone a cui lui vuole bene che andrà tutto bene e io non posso infrangere un pensiero così bello. Chissà se si rovina se lo lascio fuori, penso. Il rumore é incessante, io mi alzo, vado in sala, accendo le luci, alzo le serrande, apro la finestra… Piove, aria fresca, mi sento un supereroe, sto salvando un pezzettino di cuore di mio figlio. E chissà se lui lo capisce.

Chissà se capirà un giorno, questi giorni difficili, questi giorni tesi, a volte distanti pur sempre insieme. Soprattutto chissà se comprenderà quanto amore c’é attorno, nonostante gli errori, nonostante il blackout della mia mente e la paura.

Federica

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16 Marzo 2020

Claudio – Tra l’incubo e il sogno: grazie nonno

Testimonianza della stanza accanto. Questa notte ho fatto uno strano sogno. Mio nonno morto anni fa, mi ha chiamato e mi ha detto di seguirlo. Titubante e sospettoso, ho seguito il suo consiglio pensando che mi avrebbe portato in un luogo lontano. 

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Ahimè, mi sono trovato in una stanza vicino, piena di persone amiche. Perplesso ho chiesto da quanto tempo erano sedute in quel luogo ad aspettarmi. Tutte in coro mi hanno risposto che erano in quel luogo da sempre, anzi, ero io che con il frastuono non avevo mai sentito le loro voci. Sempre più perplesso chiedo al nonno che cosa sta succedendo. Lui, come al solito, con il suo sorriso serafico e con sguardo penetrante mi sussurra “tranquillo sei in buone mani, ma piuttosto cosa sta succedendo fuori che non ci sono rumori?”. 

“Come nonno, non sai che siamo in quarantena, tutti a casa, c’è un virus che ci sta uccidendo”.

“Si lo so, mi hanno detto qualcosa, però ci sono tanti eroi che stanno facendo il possibile per salvare l’ umanità”. 

“Nonno ho paura, il silenzio mi uccide dentro” gli rispondo impaurito. 

Nonno Massimo, mi risponde così: “Vedi caro nipote, per anni sei stato troppo impegnato a parlare con amici virtuali, sui social con l’incognito, a correre e non arrivare mai in tempo, ad avere certezze in tutto, a trovare soluzioni in ogni momento, a essere connesso con il mondo… e adesso che sei solo con la tua anima hai paura. Io ho combattuto la prima guerra mondiale e sono stato via da casa per sette anni, tuo padre ha combattuto la seconda guerra mondiale ed è stato prigioniero per tre anni, abbiamo tutti vissuto assieme alla paura, non avevamo certezze del domani e ci siamo adoperati con il nostro per farvi capire la parola progresso. La morte faceva parte della nostra esistenza e cercavamo di conviverci. Ora tu e la tua generazione… questa parola vi fa orrore. Quello che sta succedendo fuori da questa stanza è una leva sociale. Tutti possono morire, sia il ricco che il povero. Tutti abbiamo e avete bisogno l’uno dell’altro, perché non mantenere un comportamento adeguato può portarvi alla malattia. Adesso tutti siete nei vostri comodi divani, ma non sapete accettare l’ignoto perché vi manca la forza interiore. Siete stati abituati al tutto e facile”.

Cosi dicendomi mi accompagna alla porta. Comincio ad urlare: “Nonno nonno, aiutami. Cosa devo fare adesso?

 La sua risposta è questa: “Torni nella tua stanza e da domani inizi di nuovo come abbiamo fatto noi, a ricostruire il mondo prendendo il meglio delle persone. Ognuno deve fare la sua parte con onestà e senso civico, ascoltando la propria coscienza si può dire che il bene tuo è di tutti, e chi bara è il male di tutti. Ognuno nel silenzio interno deve ricostruire l’umanità intera, nel rispetto di coloro che hanno perso la vita adesso e che mettono in gioco la propria esistenza per garantire il futuro”.

Suona la sveglia, ma per me è un giorno diverso.

Claudio

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16 Marzo 2020

Maria Rosaria – Simone de Beauvoir e l’essenza del Noi

Care sorelle,

oggi ho letto un articolo su Repubblica dal titolo “Educatori scolastici enorme ingiustizia”, in cui si racconta la storia di un‘educatrice “arrabbiata contro chi si fa gioco delle sue competenze”.

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Giustamente l’educatrice spiega come la chiusura delle scuole per emergenza coronavirus, ci abbia esposto all’incertezza salariale. A oggi, infatti, non sappiamo se saremo pagate. In questo periodo di quarantena, sto rileggendo “il secondo sesso” di Simone de Beauvoir e mi rotola in testa una frase: “economicamente uomini e donne costituiscono quasi due caste”.

Solitamente gli uomini hanno salari più elevati e, guarda caso, le professioni in cui vi è una maggiore presenza femminile vengono sottopagate. A naso, credo che questo sia il caso dell’educativa scolastica. Gli educatori uomini sono una minoranza e credo che questo dato non sia da sottovalutare. Noi donne siamo, o veniamo considerate, procacciatrici di secondo reddito. Costituiamo inoltre un esercito di lavoratrici più funzionali di qualsiasi altro lavoratore.

Chiediamoci come mai la sempre più facile espulsione delle donne nel mondo del lavoro non provochi particolari contestazioni. Forse perché le donne non vengono mai considerate come una massa di pure e semplici disoccupate? Secondo una logica sessista e patriarcale (mi fa una certa impressione usare ancora queste espressioni nel 2020, ma tant’è) c’è pur sempre un lavoro di cura a casa ad aspettarle. Ebbene, mi son chiesta, oltre a questa macroriflessione, che cosa posso fare io, educatrice donna? Non sarebbe male, per esempio, iniziare a organizzarsi come lavoratrici partendo magari da un gesto semplice: iscriversi al sindacato. Io l’ho fatto, perché sono convinta che la lamentazione solitaria sia funzionale al sistema. Certo non basta fare la tessera, ma da qualche parte bisogna pur iniziare.

Lo so, vi sono oggi altre questioni, come quelle legate all’angoscia e alla fatica di un pensiero razionale, perché la paura bussa forte, e quei colpi li percepisci chiari e netti. Mi consigliate di descriverli, narrarli, ma io mi sono sempre definita una lacrima solitaria che ha un certo pudore nella condivisione delle proprie intime sofferenze. Lo so è un limite. Posso dirvi però che io guardo la tristezza negli occhi, ma poi irriverente mi giro e rivolgo lo sguardo in qualche luogo immaginario, oppure pianifico il da farsi cercando la risposta anche sui libri. Pagine di letteratura, pagine di saggistica, pagine di filosofia. 

A proposito di ciò, mi viene in mente il mito della caverna di Platone, ambientato però in questo silenzioso 2020. La specie umana è ritornata (o forse non vi è mai uscita, ma così rischio di divagare, perciò lasciamo stare) nella caverna, un rifugio, una sorta di ritiro temporaneo dalle loro attività predatorie. Tra chi si rifugia, però, vi è anche il predatore dei piccoli predatori che se ne sta accucciato nel suo nascondiglio e sta già pensando a come fare razzie anche in questa circostanza.

Uno scenario che fa ben poco sperare, tuttavia, essendo un’utopista instancabile, compare in questa visione apocalittica, quella di una donna che, salendo a fatica, s’incammina verso l’uscita. I suoi occhi contemplano il tutto, il buio, la luce, il fuori e il dentro, l’essenza del NOI.

Adesso torniamo al qui e ora, alla quotidianità delle nostre esistenze in quarantena, cose più spicciole, nessun “mondo delle idee”. Le vostre nipotine mi hanno chiesto di partecipare al flashmob col quale si chiedeva ai cittadini di imbracciare il proprio strumento, affacciarsi alla finestra e suonare. La più piccola delle vostre nipoti che, al contrario di me, non ha vergogna alcuna nel manifestarsi, ha voluto poi che la sua esibizione fosse postata su un social. Voi lo sapete quanto io sia antiquata, mi sembrava una modalità un po’ frivola. La furbetta però ha insistito, dicendomi che fuori c’era un silenzio spettrale e che voleva con il suo sax far vibrare nell’aria le note di “Over the Rainbow”, condividendola con gli altri. Ebbene, mi sono arresa e ho pensato: “da qualche parte bisogna pure iniziare”.

Maria Rosaria

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16 Marzo 2020

Marty – La fiducia in una mattina di primavera

Buongiorno….

A dispetto dei decreti e del surreale silenzio percepito fuori casa, la natura ci abbraccia con un caldo sole, un’aria primaverile che sembra dirci: “Non abbiate paura, con un po’ di responsabilità e pazienza presto tutto passerà!“.

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Leggo commenti sui social di paura, panico, quasi isterismo ma forse la gente non è abituata alle prove della vita. Bisogna essere attenti e responsabili, ma non vedo tutto questo allarmismo. Se torniamo ai racconti dei nostri nonni, che hanno avuto prove molto più dure, paure vere, paure indelebili, al confronto la morte sarebbe stata molto più dolce.

Noi oggi non siamo abituati al “brutto”. Il mio timore è per mio figlio, per il suo futuro, per una società fatta di sabbia. Sì, questo mi spaventa molto di più. Ma sono una donna religiosa, in tutta la mia vita sono stata sorretta nei momenti brutti dall’abbraccio di Gesù, e anche ora è così. Bisogna avere fede in Dio, fiducia nel prossimo, qualunque sia il suo colore, bisogna tornare ad amare, bisogna essere comprensivi e aiutarsi. Sono questi i valori che sconfiggono i mali della terra ma soprattutto le “bestialità” che l’uomo continua a fare.

Ecco questi sono i miei pensieri questa mattina. Sono fiduciosa, sono tranquilla perché le persone che amo stanno bene e sono sicura che per la fine dell’anno rideremo di questo episodio…. e magari saremo tutti più buoni e bravi festeggiando il Natale con i nostri cari, in famiglia, come si faceva nei secoli passati.

Buona giornata a tutti, un abbraccio da Marty71

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15 Marzo 2020

Nadia – Una vita tragicomica mentre la terra si ribella

Cara sorella,

La mia vita procedeva bene. Non di certo per il fatto che la povera sottoscritta viva dalle suore. Ho sempre pensato che le suore fossero il filo conduttore della mia vita, e ora ne ho la certezza.

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Non so se ricordi quando tutto iniziò: io avevo solo 4 anni e quella pazza di suor G. Mi chiudeva nella sala da pranzo e abbassava le tapparelle perché: “è l’ora del riposino”, e quindi mi lasciava chiusa in quel refettorio per ore, costringendomi a finire quella dannatissima carne. Tuttora non mangio carne, e tuttora chi cucina per me sono suore. 

La mia vita non è subito andata bene, visto che alle medie sono finita dai frati, le superiori sono state un inferno per principio, e pensavo che all’università sarebbe andato tutto alla grande. Ma ovviamente per quanto tutto fosse perfetto, l’universo doveva controbilanciare il mio essere felice facendomi finire a vivere dalle suore. 

Nonostante tutto, chi ha rovinato la mia vita perfetta degli ultimi tempi non sono le suore, anche se loro inconsciamente centrano sempre, bensì questo maledetto virus. Sai, dopo 5 devastanti anni di liceo e 14 in quella maledettissima campagna che ci circondava, ero arrivata a pensare di aver raggiunto l’Eden frequentando l’università dei miei sogni, a Bologna, una città meravigliosa piena di gente stupenda. E invece ovviamente no. 

Ora ti scrivo questa lettera dal treno, sto tornando a casa. Voglio così illustrarti i motivi per i quali questo virus ci ha colpiti: la prima ragione che mi viene in mente potrebbe essere solamente una cosa che pensa la mia testa, che si sa, non funziona molto bene, non sul lato scientifico quantomeno – ma il mio pensiero va alla terra. In realtà è lei che ha mandato questo virus, perché come noi stiamo distruggendo lei, lei ora sta lanciando il suo di contrattacco.

In realtà ho sempre pensato che i parassiti fossimo noi, e a quanto pare se n’è accorta anche lei. In questo modo sta tentando di diminuirci. Effettivamente, se questo era il suo piano non si può dire che non stia funzionando. C’è una visibile diminuzione di inquinamento, d’altronde la gente è costretta a casa, quindi meno macchina, meno mezzi pubblici, chiusura di fabbriche. Mi piace davvero pensare che sia stata la terra a fare una cosa del genere, sarebbe effettivamente l’unica cosa sensata. La terra si sta riprendendo ciò che è suo, dopo anni di soprusi da parte di questa ignobile razza, noi. La seconda ipotesi è il fatto che qualcuno stia ostacolando la mia vita da sogno. Sono consapevole che il mondo non giri attorno a me, ma non mi dispiace nemmeno pensarlo, il fatto è che per anni sono stata incazzata con il mondo intero perché non me ne andava bene una. Arrivo a Bologna e, come dicevo all’inizio della mia lettera, la mia vita va divinamente: ho finalmente amici, mi piace quello che studio e non mi pesa per niente, per quanto sia terribile vivo dalle suore ma pur sempre in una grande città, e quindi tutto perfetto. Sono davvero molto felice della mia vita e BAM chiudono le università, chiudono la Lombardia, Italia zona rossa. Grazie mondo, davvero, grazie. 

Ora durante la quarantena che si fa? Tu cosa stai facendo? Mi servono dei consigli perché, per quanto io debba frequentare le lezioni online, cosa che non sto facendo – non dirlo alla mamma – non so che altro fare durante la giornata. Come ben sai ho visto praticamente tutti i film e le serie tv esistenti sul pianeta terra, quindi penso che come prima cosa, inizierò davvero a seguire quelle maledettissime lezioni online e poi finalmente penso che mi metterò d’impegno e imparerò a cucinare le cose basilari come la pasta. Ti consiglio anche di affinare le tue di tecniche culinarie, perché il mio povero palato sopraffino è stufo di mangiare la solita paella con i frutti di mare. Per quanto sia buona, basta. Sono sul treno diretta a casa, sono appena arrivata a Verona e ho già voglia di tornare indietro. Dal finestrino del treno vedo una scena quasi pittorica, un uomo alla banchina opposta che con la mascherina abbassata fuma una sigaretta. C’è solo una parola che può esprimere appieno la sua essenza : geniale. Essere in quarantena è un po come stare sul treno, ti annoi, devi stare fermo per ore, ma sai che alla fine tutto finirà, almeno per quanto riguarda il treno. Spero vivamente che sarà cosi anche per questa quarantena perché, per quanto sia abituata a non uscire di casa, è comunque snervante.

Tua Nadia  

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