Fase 2: siamo sicuri che tutti gli adolescenti sono ritornati in strada?

Abbiamo lasciato alle spalle la fase 1 e le prime due settimane della fase 2. Così siamo entrati in questo nuovo periodo. Dalla possibilità di incontrarsi con congiunti e affetti stabili, a quella in cui si possono rivedere gli amici. Un grande momento che tutti, ma soprattutto gli adolescenti, stavamo aspettando. 

Tre gruppi di adolescenti

Nella mia quotidianità, per lavoro, mi trovo circondata da adolescenti, colleghi e famiglie. I ragazzi in questi giorni hanno dimostrato una grande voglia di dialogo e hanno ricercato maggiormente un confronto. Hanno rivolto a noi adulti molte domande su quanto sta accadendo.

Quindi, ho la fortuna di ascoltare aneddoti, racconti, dubbi e riflessioni di questa seconda fase. I media ci stanno proponendo immagini di adolescenti consapevoli di ciò che sta accadendo, mostrandoci quanto siano ligi nell’indossare la mascherina in modo corretto e di mantenere le distanze. In un altro servizio, però ci fanno vedere adolescenti che non le indossano, che si ritrovano in gruppi e che non mantengono le distanze.

Questi sono i due gruppi sotto la lente delle videocamere, perché sono quelli che sono tornati in strada. C’è un altro gruppo di ragazzi che non si vede, appunto perché non è strada. Sono quelli che hanno paura. Loro non hanno notato differenze tra la fase uno e la fase due, infatti rimangono connessi con gli amici sui social e con la scuola attraverso la didattica a distanza.

Cosa ci dicono loro dalle loro stanze? 

Qualcuno con un grande sorriso mi ha raccontato di essersi concesso un pasto d’asporto grazie alla consegna a domicilio o alla formula drive-in. Sulla chat arrivano le loro foto di sushi, hamburger, patatine fritte e involtini primavera. Così hanno assaporato un pezzo di libertà. Altri mi hanno raccontato delle visite ai congiunti. Sorrisi grandi anche in questi casi.

La particolarità di queste due diverse esperienze è la frequenza. Entrambe sono state rare, sporadiche, occasionali. Come se fossero stati degli assaggi di libertà. In queste settimane ho chiesto ai ragazzi diverse volte cosa facessero nel tardo pomeriggio e nel weekend. La maggior parte di loro non è ancora uscita di casa. Le scuse utilizzate più frequentemente sono state il dover seguire le lezioni online, il dover fare i compiti e l’impossibilità ad uscire dopo cena. Approfondendo il discorso, qualcuno è riuscito a dire che ha paura di ciò che potrebbe trovare fuori dalla porta di casa.

La tana ripara dai possibili pericoli

La casa rappresenta il luogo sicuro, al riparo dal virus, dopotutto lo abbiamo sentito forte e ovunque in questi giorni “Stay Home-Stay Safe”. Gli psicoterapeuti la chiamano sindrome della tana, della capanna o del prigioniero, ovvero il desiderio di rimanere nel proprio rifugio e non voler uscire da esso. Non è ancora riconosciuta perché manca la letteratura scientifica su di essa. Per affrontare la quarantena si sono attivate delle strategie grazie alle quali si è reso possibile lo stare all’interno della propria abitazione, riscoprendo il piacere di riflettere, della lentezza e delle relazioni. L’esterno rappresenta l’insicurezza, incertezza e la paura.

La paura è un’emozione e non un sentimento

La paura è un’emozione primaria, ovvero innata e universale, propria quindi di tutti gli uomini e di tutte le culture. Il suo scopo è quello di proteggerci dai pericoli. Tutti i giorni incontriamo situazioni che ci mettono paura, le nostre risposte in quei casi sono due: rimanere immobili o scappare dal pericolo. Entrambe queste azioni ci garantiscono giornalmente la nostra sopravvivenza. Essendo un’emozione ha una durata limitata nel tempo, permane per quel frangente utile a preservarci la vita. Si differenzia invece dai sentimenti che hanno una durata lunga nel tempo.

Il Coronavirus rappresenta un pericolo per la nostra salute, quindi si attiva in noi l’emozione della paura. Nella nostra mente immaginiamo quindi che potrebbe accadere qualcosa, che una persona cara si ammali, e vorremmo intensamente che ciò non si verifichi. Abbiamo quindi paura che ciò che abbiamo pensato diventi realtà. La risposta a questi pensieri di allerta sono due, adottare le precauzioni per diminuire le possibilità di contagio o chiudersi in un posto sicuro, nella propria tana e aspettare che il pericoli passi.

La paura non va confusa con l’ansia, che invece è generata dalle valutazioni negative che facciamo di una certa situazione, di cui vorremmo poter controllare tutto ciò che accadrà. L’ansia può aumentare e può essere alimentata. È importante riconoscere se si ha paura a uscire o ansia a uscire. Ci sentiamo in pericolo o stiamo facendo pronostici di possibili malattie e morte?

Uscire dalla comfort zone

Per quanto sono riuscita ad approfondire l’argomento con i ragazzi che ho incontrato, si tratta di paura di un pericolo e dell’ignoto. Per loro andare nell’ambiente esterno rappresenta l’uscita dalla loro comfort zone, verso qualcosa che li spaventa e di cui non sanno cosa aspettarsi.

Dopotutto, fino ad oggi sono usciti per comprare generi alimentari e medicinali gli adulti con cui hanno condiviso queste giornate. Hanno ascoltato notizie riportate dai media di pericolo, di morte e d’incertezza. Di gente che per non contrarre il virus ha lavorato con tute, mascherine, visiere, guanti e calzari. Anche di strade deserte, di luoghi chiusi e di aerei fermi. 

Com’è il mondo fuori? Spaventoso

Il desiderio di uscire non c’è più. C’è la curiosità però di chiedere agli adulti se è veramente così, come loro hanno capito. Allora domandano, ascoltano e rielaborano per poi avere interrogarti rispetto ad altri dettagli, per chiederti cosa fai tu, adulto, quando esci. È strano anche per me questa nuova relazione con loro. Oggi racconto ai ragazzi di come ho mangiato la pizza sul prato, a distanza, con la mia amica, di come esco di casa con mia nonna e di quanti chilometri faccio in bici.

Racconto dei miei progetti da fare fuori casa, dei miei sogni da realizzare e insegno a ordinare cibo d’asporto con le app. Sollecito le passeggiate in compagnia degli adulti come primo approccio al mondo cambiato. In queste due settimane ho guidato le riflessioni, ho proposto nuovi punti di vista sulla situazione, ho insegnato a usare la mascherina, naso e bocca coperti, e ho ripassato con loro le regole di distanziamento. Come lo spieghi un metro di distanza ad un adolescente? Cosa conoscono bene che utilizzano tutti i giorni lungo un metro? Un letto! La larghezza di un letto singolo è 90 cm. Tra te e la persona che incontri deve starci comodamente un letto singolo, un passo indietro e la misura è perfetta! 

È il mondo a far paura o è il virus?

È importante dialogare su questo tema con i ragazzi, ascoltare le loro domande, dare delle risposte quando si hanno. Quando invece non si conoscono, si può cercare insieme sui siti affidabili. Se neanche lì non vi è l’informazione, ammettere che non c’è ancora un riscontro per ciò che è stato chiesto.

È un atto notevole riconoscere di non sapere. Fare ciò è insegnare che non siamo onniscienti e che le incertezze sono parte della nostra vita. Saper abbracciare l’incertezza con calma e serenità, e non con ansia e desiderio di voler proteggere fa di un adulto una persona competente, di cui l’adolescente si può fidare. Ascoltare, parlare, rispettare e accompagnare sono le chiavi per affrontare la sindrome della tana.


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