50 anni dopo Stonewall: perché il Pride? Intervista al presidente di Arcigay Varese

Giugno 2019: sono passati 50 anni dai moti di Stonewall che diedero vita alla liberazione delle persone LGBTI+. Per l’occasione Sguardi di Confine ha scelto di sponsorizzare il VaresePride (15 giugno la parata) e di intervistare Giovanni Boschini, presidente di Arcigay Varese.

Era il 1969 quando, nelle prime ore del 28 giugno, alcuni poliziotti fecero irruzione nel locale gay di New York, Stonewall, e cominciarono a maltrattare i clienti e distruggere tutto ciò che trovavano, come consuetudine.

Per la prima volta, però, i presenti reagirono. Si opposero all’arresto (per 5 intense notti di scontri) e accesero la scintilla della liberazione omosessuale. Fu grazie a questa vera e propria rivoluzione che prese il via il movimento LGBTI+ e, quindi, il primo “gay pride”, come ricorda anche il doodle di Google oggi.

Una parata dell’orgoglio LGBTI+ (ovvero di lesbiche, gay, transgender, bisessuali, transessuali, intersessuali e queer) per chiedere al mondo, semplicemente, gli stessi diritti da sempre dati per scontati dalle persone eterosessuali. E in un mondo dove in alcuni Stati essere omosessuali è ancora un reato, il “pride” è necessario. Ed è necessario in particolare anche in Italia dove, nonostante la legge sulle unioni civili abbia permesso un primo passo di civiltà, c’è ancora molto lavoro da fare. Ce lo dimostra proprio il report 2019 sui casi di omobitransfobia registrati nel corso dell’anno precedente: 187 rispetto alle 119 dell’anno prima. E ce lo dimostra anche l’indagine di ILGA Europe secondo la quale, addirittura, l’Italia è passata dalla 32esima alla 34esima posizione dal 2018 al 2019. E pensare che questi dati non abbiamo a che fare con le (non) politiche adottate dal Governo giallo-verde in carica significa essere miopi.

Anche per questo, Sguardi di Confine quest’anno ha voluto fare un passo avanti in tema di diritti scegliendo di sostenere il Pride di una Provincia (quella di Varese) dove non solo è stato negato il Patrocinio (gratuito) al Pride ma dove, addirittura, la giunta (di centrodestra) ha scelto di non impegnarsi a realizzare iniziative contro l’omobitransfobia.

Così, nel corso di giugno – il mese del pride appunto – la maggior parte delle nostre interviste saranno a tema LGBTI: abbiamo iniziato venerdì scorso con la scrittrice americana Katherine V. Forrest. Proseguiremo, nei prossimi due venerdì, con due esponenti di Vector (main sponsor del Varese Pride) e con una persona intersex grazie alla collaborazione con il gruppo Intersexioni.

Di seguito, invece, ecco la nostra intervista al presidente di Arcigay Varese, Giovanni Boschini. Lo abbiamo già intervistato nel 2016, proprio in concomitanza con il primo Varese Pride. Lo abbiamo ricontattato oggi per farci raccontare – da chi ne ha titolo – cosa significa il pride, cosa implica organizzarlo e qual è la situazione attuale in Italia in tema di diritti.

Lo slogan scelto per la pride week 2019 (8-15 giugno) di Varese, “Diritti avanti a noi”, ricorda come la comunità LGBTI+ non abbia ancora gli stessi diritti delle persone eterosessuali. Intanto una novità simbolica accompagnerà tutta la settimana: i colori arcobaleno proiettati sulla faccia del Comune.

Qui tutti gli eventi della PrideWeek di Varese prima di arrivare alla parata del 15 giugno: in programma spettacoli comici, proiezione del film di Stonewall, incontri a tema sulla bisessualità (con BProud) e sull’inclusione di persone LGBTI+ in azienda (con Vector e Vodafone), nelle forze dell’ordine (con Polis Aperta) e nel calcio (con Francesca Muzzi). Di seguito, invece, l’intervista a Giovanni Boschini.

In molti chiedono ancora perché non un “etero pride?” E, quindi, perché il pride?

«Non serve un etero pride perché non esiste un Paese in cui sia un reato essere eterosessuale, in cui essere eterosessuale significhi essere discriminato, essere licenziato dal posto di lavoro, deriso e bullizzato o, addirittura, portato al suicidio per il solo fatto di essere eterosessuale. E poi… l’orgoglio etero, in realtà, c’è 365 giorni all’anno. Almeno un giorno ce lo lascino (ride ndr.).

Esiste invece il pride per persone LGBTI+ perché, purtroppo, esistono ancora Paesi dove essere gay può costare la vita o il carcere. L’Italia, poi, non brilla proprio in questo campo. Infatti, secondo un’indagine di Ilga Europe, il nostro paese è sceso di due posizioni rispetto all’anno precedente. Molte persone, in Italia, vorrebbero che noi fossimo rinchiusi nell’armadio e non vorrebbero che esternassimo il nostro essere “orgogliosamente gay”. Invece è importante la visibilità ed è importante, soprattutto, per aiutare le persone ancora non dichiarate. Anche a Varese ogni anno riceviamo messaggi di persone che, dopo il Varese Pride, sono riuscite a fare coming out in famiglia e sul posto di lavoro. Magari sono venuti al pride di nascosto, dietro una colonna… e poi sono riusciti a dichiararsi e vivere liberamente. E pensa che poi tornano l’anno successivo al pride con i genitori».

Quali sono state le maggiori difficoltà per organizzare il primo pride a Varese? Quali i cambiamenti fino ad oggi?

«Oggi il Pride è rodato. Il primo anno è stato un vero e proprio incubo. Abbiamo ricevuto pressioni da ogni dove. Sia pressioni palesi, sia piccoli boicottaggi, come la deviazione del percorso. Questo soprattutto per ragioni politiche: al primo pride il Comune di Varese era amministrato dal centrodestra che ci ha negato il Patrocinio. Questo ci ha creato molte difficoltà: il palco che abbiamo oggi ce lo dà il Comune, il percorso oggi è indicato dal Comune ma con loro ne parliamo tranquillamente e condividiamo il nostro punto di vista senza problemi. Ai tempi questa cosa non si poteva fare, non ci davano il palco ed era impossibile trattare per ogni tipo di agevolazione.

Proprio per questo siamo andati a riferire al Parlamento Europeo la questione: nonostante l’amministrazione leghista non era d’accordo, per legge ci avrebbe dovuto dare gli strumenti per agevolare la manifestazione. Invece così non è stato e fino all’ultimo hanno contestato ogni cosa.

In ogni caso, per fortuna siamo riusciti a fare il pride lo stesso. E quel pride ha segnato una svolta politica. Da allora si è insediata una giunta di centrosinistra e siamo più agevolati. Dalla prima edizione seguiamo comunque lo stesso format ogni anno e quindi i primi problemi tecnici sono risolti».  

Cosa c’è dietro la parata del 15 giugno? Quanta burocrazia, risorse economiche, permessi, tempo, volontari etc…

«Siamo partiti già da settembre a parlarne con le prime riunioni. Siamo circa una ventina di volontari, gli attivi una decina. Quindi questo rende tutto molto difficile. Tutto grava su quelle poche persone volenterose che si impegnano per il pride e non solo. Siamo tutti volontari, di giorno lavoriamo, quindi il nostro tempo per organizzare il pride, così come tutte le altre iniziative nel corso dell’anno, si riduce alla sera.

Dal punto di vista economico è una sfida ogni anno. Iniziamo a ricercare le risorse economiche già da settembre appunto: abbiamo un crowdfunding online e gli sponsor. Il Comune, invece, contribuisce con un Patrocinio gratuito, quindi non ci finanzia ma ci dà il palco e ci stampa i manifesti: solo grazie a questo abbiamo risparmiato molto. In ogni caso non abbiamo mai ricevuto contributi pubblici di alcun tipo, quindi riceviamo i proventi dagli sponsor e, marginalmente, dalle quote degli associati.

Ogni anno comunque è una sfida perché, guardando al bilancio di settembre, la decisione dovrebbe essere di non farlo. Poi arrivano le sponsorizzazioni quindi riusciamo a realizzare la parata senza grossi problemi.

Purtroppo, però, rimane tutto molto difficoltoso. Magari si pensa che Arcigay abbia una buona cassa economica invece così non è, e non siamo nemmeno l’unica realtà in Italia ovviamente».   

Quali differenze tra un pride in Italia e uno in uno Stato in cui da tempo ci sono i diritti civili, come la California? C’è il rischio che, una volta accettati pienamente dalla società, il pride diventi solo un fenomeno commerciale?

«Il pride varia molto da Paese a Paese. Nei pride molti grossi, all’Estero, la parata non si svolge come in Italia. In Italia chiunque può aggregarsi e partecipare al corteo senza particolari formalità. All’Estero, invece, la parata è formata solo da persone preregistrate, parti di associazioni.

Ci sono differenze anche dal punto di vista politico. In Italia l’accettazione delle persone LGBT è ancora bassa, politicamente parlando. A meno di avere un’amministrazione di centrosinistra, non si ha piena accettazione (e non è detto comunque che la si abbia). In molti altri Stati, invece, ormai il pride è accettato da tutti i partiti e viene visto come una tradizione. All’Estero il sostegno è alto anche dalle amministrazioni di centrodestra: lo scorso anno, a Lugano, il sindaco di centrodestra era in prima fila al pride ad esempio.

In ogni caso, anche nei Paesi in cui ci siano leggi contro omotransfobia e diritti civili pienamente conquistati, non è detto che l’accettazione sia diffusa pienamente da tutti. È alta ma non perfetta insomma. A scuola, in particolare, ci sono ancora molti episodi di bullismo in tutto il mondo e lo stigma è ancora presente, soprattutto per le persone bisessuali visto che vengono comprese a fatica.

Tra l’altro, pensiamo che in molti Paesi il pride non si può ancora organizzare, pensiamo alla Russia. Oppure ai Paesi dove si sfila con misure di sicurezza estreme dove sono più i poliziotti che i partecipanti. Insomma in quei posti l’omofobia è alta. Quindi un pride si realizza anche per solidarietà a quei Paesi che ancora non possono farlo».

A Varese, fortunatamente, non si sentono casi di aggressioni ma ogni anno, in concomitanza con il Pride, viene organizzato il rosario riparatore…

«Esatto. Purtroppo ogni anno abbiamo resistenze. A livello Comunale ormai no, le difficoltà con il passaggio all’amministrazione di centrosinistra non ci sono più. Il rosario riparatore non è l’unica opposizione che abbiamo però. Ogni anno si presentano anche i neofascisti di Dora per manifestare contro di noi. Dal mio punto di vista è solo un’azione patetica che non ci tocca più di tanto. Piuttosto, il problema dei rosari riparatori in generale è che sono sostenuti dal Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana. Quindi un esponente del Governo li sostiene. È terribile.

Inoltre, pensiamo che le contestazioni ci sono ancora in tutto il Mondo, però in Italia la questione mi preoccupa: ci sono ancora ragazzi portati dal prete o cacciati fuori casa. Quindi realizzare un rosario riparatore porta il messaggio che essere omosessuali sia una malattia e che si può cambiare. Gli psicologi, ovviamente, hanno già fatto notare come le terapie riparative portino spesso al suicidio. In Italia vengono ancora fatte ma, chiaramente, non in termini ufficiali».

Nonostante la presenza dei rosari riparatori, dei suicidi di persone omosessuali e transessuali, dell’aumento dei casi di omotransfobia, la giunta di centrodestra della provincia di Varese ha detto no alla richiesta di una mozione del centrosinistra di attuare azioni contro la discriminazione di persone omosessuali e transessuali…

«Esatto. Anche questo dimostra la differenza con alcuni Paesi dell’Estero. All’Estero c’è un livello minimo sotto il quale non si scende. In Italia si arriva sotto al livello minimo. La mozione del consiglio provinciale chiedeva solo di realizzare iniziative in provincia di Varese contro l’omobitransfobia. Questo significa, ad esempio, partecipare alla giornata contro l’omofobia del 17 maggio e sostenere il VaresePride con il Patrocinio provinciale fino ad ora negato. Anche perché, ricordiamolo, non c’è solo la parata del 15 giugno ma una settimana di eventi culturali a tema.

Insomma, mi sembra davvero assurdo che, nel 2019, non ci sia una condanna unanime dell’omofobia, della transfobia e della bifobia. Purtroppo il presidente della provincia di Varese ha questa linea. In passato sembrava ci fosse un’apertura, ora stiamo tornando indietro».

La domanda “provocatoria” che fanno in molti: perché il pride non è “sobrio”…?

«Partiamo a dire che il concetto di sobrietà è personale. Quello che è sobrio per me, non lo è per te. Se volessimo tracciare dei confini di sobrietà sarebbe assurdo. E poi il pride è una festa aperta a tutti, è la festa della libertà, non c’è una selezione all’ingresso (ride ndr.). Quindi ognuno può vestirsi liberamente… e per liberamente si intende liberamente.

Quindi il pride non è “sobrio” e non deve esserlo. Piuttosto, alcune persone si vestono in modo “provocatorio” solo il giorno del pride proprio per stimolare la riflessione attorno al tema della “normalità” e della “sobrietà”.

Tra le altre cose, ricordiamo i moti di Stonewall del 1969: furono le persone drag e trans a iniziare la rivolta e la scintilla che ha portato il movimento di liberazione delle persone LGBT. Furono loro a stimolare queste riflessioni. Quindi, insomma, il pride non deve essere “sobrio”».

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